Insegnare la catastrofe. Per una didattica della Shoah al servizio della democrazia
La formazione dei docenti e le Linee Guida Nazionali del Miur
L’esperienza di formazione sulla didattica della Shoah presso l’International School for Holocaust Studies, uno dei settori del complesso centro di Yad Vashem a Gerusalemme, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah, istituito dal Parlamento Israeliano nel 1953, rappresenta indubbiamente per un docente una preziosa occasione per immergersi nella complessa questione della pedagogia della Shoah.
Attraverso un piano di lezioni frontali tenute da docenti delle università israeliane, workshop condotti da formatori dell’Istituto di ricerca, incontri con sopravvissuti residenti in Israele, visite guidate del Museo di Yad Vashem, realizzato dall’architetto israeliano Moshe Safdie nel 2005, oltre che dei principali siti di interesse culturale di Israele quali, oltre Gerusalemme, il fiume Giordano, il lago di Tiberiade, Cafarnao, Nazareth, il seminario residenziale, aperto a docenti di ogni ordine e grado con profili culturali interdisciplinari, selezionati dai competenti uffici scolastici regionali, si propone di offrire ai docenti partecipanti delle piste pedagogico-didattiche attorno a tre nuclei concettuali strutturali dell’azione didattica: “perché” (Why ), “cosa”, (What) “come”, (How) .
Sono questi gli interrogativi che un docente dovrebbe porsi nel momento in cui si accosta ad una materia di studio così delicata come la Shoah, consapevoli del fatto che, come già notava Hannah Arendt all’indomani dei fatti, nel 1946, « Non c’è storia più difficile da raccontare in tutta la storia dell’umanità» 1.
Le Linee Guida Nazionali2 pubblicate dal Miur nel gennaio del 2018, nell’ottantesimo anniversario delle “leggi antiebraiche” del ’38, aventi come titolo ” Per una didattica della Shoah a scuola”, si muovono proprio in questa direzione pedagogica. Il documento, articolato in una introduzione e sei paragrafi, è stato elaborato dagli esperti appartenenti alla delegazione italiana dell’ International Holocaust Remembrance Alliance, (IHRA), un organismo internazionale, quest’anno presieduto dall’Italia, composto attualmente da 31 paesi membri che, con la sottoscrizione della Dichiarazione di Stoccolma del 2000, hanno assunto l’impegno di promuovere nei loro paesi il ricordo, la ricerca e l’educazione sulla shoah sia sul piano del’educazione formale che di quella non formale. L’aspetto formale è rivolto alla scuola, con i curricula, i contenuti, i metodi, la formazione dei docenti; l’aspetto non formale impegna la società civile, che deve saper offrire l’opportunità di approfondimento, dibattito, scambio, elaborazione sulla molteplicità di questioni che il periodo della Shoah ha segnato per la storia dell’umanità. Pertanto le linee guida del Miur risultano essere uno strumento di lavoro imprescindibile per dare alla didattica della shoah nella scuola italiana un assetto istituzionale capace di sottrarla al pericolo di semplificazioni banalizzanti e fuorvianti. Le sezioni del documento appaiono alquanto significative: dopo l’Introduzione curata da Anna Piperno, dirigente ministeriale esperta di didattica della shoah, presenza stabile nei seminari del Miur presso lo Yad Vashem, il documento presenta le aree tematiche :”I caratteri e le questioni base della Shoah”, a cura di Michele Sarfatti, studioso delle leggi antiebraiche italiane e presidente del CdEC ( Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea); ” Sulla didattica della shoah e la formazione dei docenti” a cura di David Meghnagi, professore di Psicologia Clinica, Psicologia Dinamica e Psicologia presso l’Università di Roma Tre e direttore del Master annuale internazionale di II livello di Roma Tre; “Scelte pedagogiche” a cura di Silvia Guetta, docente di pedagogia generale e sociale presso il dipartimento di scienze della formazione e psicologia dell’università degli studi di Firenze; “Le buone pratiche e l’uso del web” a cura di Sira Fatucci, referente dei programmi di educazione alla shoah presso l’UCEI. Il documento si chiude con la sezione dedicata alla proposta di studio degli archivi a cura di Michela Procaccia, dirigente presso la Direzione Generale Archivi del Ministero per i Beni e le attività culturali.
Alla luce delle indicazioni contenute delle Linee guida, insegnare la “Catastrofe”– questa è la traduzione in italiano del termine ebraico Shoah – richiede la consapevolezza, da parte dei docenti, di uno specifico approccio metodologico-didattico che tenga conto di tempi e spazi adeguati per la narrazione, la spiegazione e la discussione di ciò che è accaduto.
Bisognerebbe intanto stabilire che la Shoah non è un evento storico che «è possibile decidere se trattare o meno all’interno del percorso scolastico degli studenti»3 e che, «pur trattandosi di un “terremoto”, di “evento ai limiti”, di una “frattura di civiltà” che continua a sfidare non solo le tradizionali categorie epistemologiche, ma anche l’autopercezione di sé della stessa umanità, lo sterminio degli ebrei in Europa non esce dalla storia per trasformarsi in simbolo ma resta e deve restare un fatto accessibile alla rappresentazione e all’interpretazione come ogni altro evento storico”»4. La Shoah, intesa come processo di sterminio sistematico, databile negli anni 1941-1945, è il più grave livello raggiunto dall’antisemitismo nella storia. Gli ebrei uccisi furono circa sei milioni, ossia due terzi degli ebrei all’epoca viventi in Europa. Ciascuna vittima aveva una propria identità personale: nome, cognome, età, idee, sentimenti, speranze, giochi, studi, attività lavorativa, nucleo famigliare, ecc… Siamo di fronte ad un caso di “genocidio” in cui è “la natura” del crimine a fare il disastro e non la sola “aritmetica” delle perdite umane. « Non sono i numeri ‒ nota acutamente Hartman ‒ ma l’eccezionalità di una ideologia che voleva sterminare gli ebrei per il solo fatto che erano ebrei a rendere eccezionale la Shoah »5. Diverse infatti sono le categorie di attori coinvolte, a partire dagli “ideatori” e i “pianificatori” ma anche gli “esecutori” e i “carnefici” nonchè gli “spettatori”.
L’ approccio metodologico dello Yad Vashem
Secondo la metodologia didattica dell’istituto Yad Vashem lo studio delle modalità dello sterminio non deve mai trascurare di comprendere e conoscere la psicologia degli esseri umani coinvolti. Esaminare i vari bivi davanti ai quali si trovarono ebrei, tedeschi e chi stette a guardare senza intervenire, i dilemmi e le sfide che dovettero affrontare, permette al processo educativo di passare da una particolare situazione storica alla capacita’ di ascoltare la voce umana universale. Si tratta quindi di attivare negli allievi una sensibilità empatica che consente di prevenire il pericolo di banalizzazione dell’argomento e di farlo diventare un argomento monodimensionale.
L’ Istituto Yad Vashem che in ebraico vuol dire monumento e nome, secondo quanto è espresso in Isaia 56:5 “Io darò loro, nella mia casa e tra le mie mura, un monumento (yad) e un nome (shem) più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”, è concepito come il grande antidoto del popolo ebraico all’oblio del tempo in quanto esso pone al centro dei suoi obiettivi formativi ed etici il principio di salvare ogni individuo dall’anonimato. Dei sei milioni di ebrei trucidati si conosce “solo” il nome di 4,3 milioni di persone. Mancano ancora all’appello 1,7 milioni. Il nome è il destino, la persona, la traccia che si lascia su questa terra. Impressionante il monumento presente nel complesso museale dello Yad Vashem dedicato al milione e mezzo di bambini morti nello sterminio: nient’altro che un corridoio incastonato nella pietra chiara di Gerusalemme, un percorso che il visitatore deve seguire tenendosi al mancorrente, perché è buio. C’è un’unica candela che grazie ad un sapiente gioco di specchi si riflette per migliaia di volte, creando l’effetto di un cielo stellato. Mentre si procede lentamente senza vedere altro che quell’unica luce diventata migliaia, una voce scandisce nomi e date. Non sono i nomi di tutti, ancora in tanti mancano all’appello. Ma sono talmente tanti che la voce registrata ci mette due anni e mezzo per dirli tutti e lo fa senza sosta. In Israele dunque la rammemorazione della Shoah è fatta sostanzialmente di questo: l’impegno a ritrovare i nomi di tutti per rispondere al principio ebraico fondamentale secondo cui una vita vale quanto milioni di vite. Ѐ sempre necessario dunque, nella pratica didattica, affrontare il dramma della Shoah restituendo alle vittime la dignità di esseri umani unici e irripetibili, con un volto,un corpo, con pensieri, desideri, passioni, aspettative, con la loro rete di relazioni interpersonali, avendo cura di presentare le loro vite attraverso documenti personali: memorialistica, diari, foto ( i cosiddetti “Ego Document”) all’interno di una concezione della storia vista come continuum capace di restituire la vita delle comunità ebraiche prima, durante ‒si pensi alla vita nei ghetti ‒ e dopo la persecuzione, specie in Israele ma non solo. Si comprende bene allora la posizione dello storico Yseph Hayim Yerushalmi che, alla domanda perché non insegnasse nei suoi corsi la storia delle persecuzioni agli ebrei europei e della loro distruzione, rispondeva: ” mi rifiuto di insegnare la maniera in cui gli ebrei sono morti a degli studenti che non hanno la minima idea di come sono vissuti”. Per realizzare una proposta pedagogica di questo tipo, è necessario impostare un lavoro di ricerca sul mondo e la vita ebraica prima della guerra, realizzabile attraverso la grande raccolta di documenti, video, immagini, disegni, fotografie presenti negli archivi del centro Yad Vashem di Gerusalemme. In questo quadro, le testimonianze e gli incontri con i singoli sopravvissuti servono come asse centrale nella trasmissione degli eventi storici e della memoria alle future generazioni al fine di evidenziare che il ritorno alla vita per costoro non è stato vissuto con spirito di rivendicazione o di vendetta per il male subìto ma è stato raggiunto con straordinaria determinazione nella ricostruzione di ciò che i nazisti avevano distrutto. In questa pedagogia volta alla valorizzazione del Bene, un ruolo decisivo assume la didattica dei Giusti, in ebraico zaddiq, l’equivalente di “santo”. Secondo la tradizione popolare ebraica, Dio non distrugge il mondo, anche se pieno di gente malvagia, perché in ogni momento della storia dell’Uomo vivono sulla Terra 36 Giusti: sono uomini e donne che semplicemente non sopportano le ingiustizie. Perché si venga riconosciuti giusti, non importa la radiografia politica, morale, di una persona, ma la responsabilità che un individuo ha il coraggio di manifestare pubblicamente, venendo in soccorso di un altro uomo. Il soccorritore rischia dunque non per la ricerca di una santità ma per la difesa della propria essenza: l’umanità. Il giusto non è allora soltanto colui che si rifiuta di fare il male, ma si assume un compito nei confronti dell’altro: diventa il suo custode.
Essi si possono dividere in tre categorie: i salvatori di vite umane, i sostenitori della verità e dei diritti umani, i difensori della propria dignità , anche se spesso le circostanze della vita producono una moltitudine di nuove figure e di esperienze non facilmente classificabili. Il caso dell’italiano Giorgio Perlasca rientra, ad esempio, tra le virtuose eccezioni: una persona che ha coltivato degli ideali collocati dalla “parte sbagliata” che, ad certo punto, avverte la necessità di compire un gesto Umano. Emblematico il suo testamento spirituale consegnato ai microfoni di Mixer nel 1990: “Vorrei che giovani si interessassero a questa mia storia unicamente per pensare, oltre a quello che è successo, a quello che potrebbe succedere, e saper opporsi, eventualmente,a violenze del genere”.
È il caso di ricordare che il 6 marzo è la giornata europea dei Giusti6 istituita nel 2012 su proposta di Gariwo, Gardens of the Righteous Worldwide. L’Italia è stato il primo paese a riconoscerla come solennità civile, Istituendo la giornata dei giusti dell’umanità7. Tra le motivazioni che hanno indotto il Parlamento europeo ad istituire la giornata, merita evidenziare la seguente: ” Il ricordo del bene è fondamentale nel processo di integrazione europea, perché insegna alle generazioni più giovani che chiunque può decidere di aiutare gli altri esseri umani e di difendere la dignità umana, e le istituzioni pubbliche hanno il dovere di rimarcare l’esempio rappresentato dalle persone che sono riuscite a proteggere coloro che hanno subìto persecuzioni fondati sull’odio”. Analizzare e approfondire le testimonianze dei “Giusti tra le nazioni” sollecita i giovani a riflettere su come ogni persona sia responsabile delle azioni che compie e che ogni essere umano, con le proprie scelte e il proprio comportamento, può fare la differenza .
Tra i pilastri della fondazione dello Yad Vashem, oltre alla memoria delle vittime e di quella dei giusti, compaiono gli eroi ossia gli ebrei che hanno lottato e combattuto contro l’oppressore nazista e i suoi complici: l’appello alla resistenza eroica alla persecuzione da parte degli ebrei è ciò che distingue la memoria della Shoah da parte ebraica da quella non ebraica. Mentre infatti in Europa il giorno della Memoria della Shoah coincide con la data del 27 gennaio, giorno in cui nel 1945 le truppe dell’ Armata Rossa impegnate nell’offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di sterminio di Auschwitz, in Israele lo Yom ha-Shoah cade in genere una settimana dopo la pasqua ebraica, in vicinanza della data dell’insurrezione del ghetto di Varsavia. Nel ghetto di Varsavia nella notte del 14 del mese di nisàn del’anno 5703, la notte tra sabato 18 aprile e domenica 19 aprile 1943 ‒ nel calendario ebraico qualla notte segna una data importante, e cioè la memoria dell’uscita dall’Egitto, paradigma di ogni liberazione passata, presente e futura‒ ebbene, quella notte, gli ebrei polacchi del ghetto, tutte ragazze e ragazzi di vent’anni i cui capi non raggiungevano i trent’anni, diedero vita alla prima grande rivolta contro i nazisti, la prima rivolta di civili nei territori occupati dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, durata fino al 16 maggio 1943. La rivolta, repressa violentemente dai nazisti (13 mila ebrei morti, 7 mila prigionieri, trasportati e uccisi a Treblinka; il ghetto fu completamente raso al suolo), rimane dunque nella memoria del popolo ebraico, e poi di Israele, un evento che fissa lo sguardo sull’eroismo del popolo ebraico che sa resistere all’oppressore contro l’idea ricorrente degli ebrei come vittime sacrificali.
Oggi nello Yom ha-Shoah , a mezzogiorno in tutto il Paese, suonano per un minuto le sirene. Tutti si fermano in silenzio. « Tutto in assoluto e immobile silenzio ‒nota Loewenthal– tranne le sirene che suonano per un interminabile e terribile minuto. E’ un rumore molesto che sembra non finire più e ti squarcia le orecchie, preme contro il petto, come per sfondarti il torace. Non vedi l’ora che sia passato»8 .
Insegnare la “catastrofe”
A questo punto della nostra riflessione, dovremmo forse chiederci, come europei, cosa ricordiamo esattamente quando ricordiamo la shoah?
La Shoah – stato scritto- è un trauma composto da una complessità di traumi9.
«La shoah è solo un vuoto. Io di quel vuoto ho paura, – scrive Goldkorn ne Il bambino nella neve – e questo libro è un tentativo di far fronte all’angoscia, ma negare che il vuoto è vuoto, cercare di riempirlo con presunti significati positivi e con un messaggo di speranza è peggio dell’angoscia: è il rifiuto di capire quanto il Male sia radicato dentro ognuno di noi. È quel Male che dobbiamo indagare, non per dire che siamo tutti carnefici , ma per sapere come non diventare dei boia (…) Quel vuoto è dovuto al fatto che ogni giorno dobbiamo confrontarci con l’assurdo: quello che è successo alle nostre famiglie è infatti inconcepibile per la mente umana . E allora quel vuoto viene riempito con una sostanza, un misto di emozioni e di razionalità che chiamiamo memoria»” 10.
Con una avvertenza però: la memoria è una invenzione. «La memoria non è, né può essere condivisa da un’intera generazione, perché è uno strumento politico e una scelta esistenziale. Riguarda ognuno di noi, personalmente(…)Penso che della memoria vada fatto un uso politico. Si dice che una volta si portavano nelle miniere i canarini, uccelli sensibili ai gas. I canarini avvertivano i minatori quando la catastrofe era imminente. Ecco, per me la memoria significa essere un canarino nella miniera, dare l’allarme quando sento l’odore acre del razzismo»11. Non solo, aggiungiamo noi, quello manifesto, dichiarato, ma anche quello subdolo, viscido che si rivela nell’espressione: ” Non sono razzista, ma…”12
Se questo processo non si attiva, la contraddizione, a parere di Goldkorn, diventa insanabile:
«E noi tutti , noi che non sopportiamo i rom, noi che voltiamo lo sguardo altrove di fronte allo scandalo dei barconi di clandestini (categoria di subumani,inquanto privi di validi documenti d’identità) che annegano nelle acque del Canale di Sicilia; noi tutti versiamo una lacrima pietosa quando pensiamo a quegli ebrei che, se oggi fossero tra noi, in mezzo alle nostre piazze o all’assalto delle nostre frontiere, li tratteremmo da rom e clandestini, noi tutti ci commuoviamo per la loro sorte, perché la consapevolezza che sono morti provoca una specie di catarsi »13.
«Per me – afferma con nettezza Goldkorn – la memoria della shoah significa saper parlare e trasmettere agli altri il linguaggio della ribellione, della radicale contestazione delle verità del potere. Altrimenti quella memoria non esiste. Si riduce ad un esercizio di vuota retorica, un cerimoniale che non serve a niente; un rituale ripetere “mai più” che non dice nulla a nessuno e niente può dire (…) dire ” mai più” o ” non permettete che si ripeta” significa costruire una specie di pedagogia della shoah, cercare di trarre una lezione dalla catastrofe. Ma non ci può essere una qualche pedagogia , là dove la parola ha perso di significato»14.
Per poter insegnare la “Catastrofe” occorre necessariamente rivedere diversi luoghi comuni sulla memoria, attivi anche in campo didattico, come l’adagio che recita: “chi non ricorda il passato è destinato a ripeterlo”.
La memoria non è argine al passato, perché ciò che è stato, proprio perché si è avverato, anche in modo indicibile, nella storia, può proprio perché reso possibile una volta, ripresentarsi e ripetersi in forma e con modalità nuove.
Illuminanti sono su questo tema le riflessioni di Walter Benjamin: « Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente sul passato. Mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’adesso è dialettica: non è un decorso, ma un’immagine discontinua a salti». La memoria è un’immagine dialettica in cui passato e presente non collassano l’uno nell’altro ma «convergono in una costellazione satura di tensioni e si confrontano sempre di nuovo e mai allo stesso modo. Solo le immagini dialettiche sono immagini autentiche, cioé non arcaiche, non mitiche, non idolatriche» 15. Anche Levi nei Sommersi e i salvati, aveva avvertito il rischio della paralisi della memoria: «E’ certo che l’esercizio mantiene il ricordo fresco e vivo come si esercita un muscolo, ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato ed espresso in forma di racconto tende a fissarsi in stereotipo, in una forma cristallizzata che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese»16.
Di conseguenza bisogna rivedere la formula del “dovere della memoria”.
Anzi, dovere e memoria sono un ossimoro, in quanto il dovere è ciò che sono tenuto a fare sulla scorta della legge morale, mentre la memoria è l’irrompere nel presente ‒come ci ha insegnato Walter Benjamin ‒ di ciò che non posso prevedere e controllare e che, di conseguenza, mi apre alla possibilità di potere essere altro da quello che sono.
Ed è in questo essere altro che si pone lo scarto della memoria, quello scarto che genera la possibilità non di non ripetere il passato, ma di vivere oltre il passato sul crinale delle scelte, giorno per giorno. La memoria, però, non è il paradigma che determina la scelta, ma è la domanda che ogni uomo, se ha coscienza di essere uomo, è chiamato a porsi, passo dopo passo, di crinale in crinale: “Tu su quale versante intendi porre i tuoi piedi?”.
«Non vi è un solo attimo -suggerisce Benjamin – che non rechi in sé la propria chance rivoluzionaria- essa richiede soltanto di esere intesa come chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo».17 In questo consiste il valore politico e ad un tempo messianico della memoria18, concepita come “freno d’emergenza”,una “forza d’urto”, un “salto dialettico” da attivare quando si ci si colloca nella dimensione unidirezionale del mito.
Una volta giunti ad afferrare il nocciolo traumatico della shoah ci troviamo di fronte ad un importante nodo teorico da sciogliere: come salvare, ricordare, raccontare, tramandare e quindi in qualche modo rendere continua la storia discontinua e traumatica degli oppressi, senza cancellarne la discontinuità, la ferita, il trauma?
Risponde Benjamin: ” salvare ciò che è fallito significa non dimenticarne mai né il fallimento, né la possibile speranza, contro la tentazione di costruire al di sopra di esso idoli sacrificali, protesi sostitutive, surrogati della cultura o della morale, strumentali a facili consolazioni, false elaborazioni, frettolose archiviazioni, anestetizzazioni agli shock»19.
Insegnare la “catastrofe” risulta dunque essere una straordinaria occasione pedagogica valida per il presente. Mai come in questo caso « scomporre il passato e cercare di comprenderlo aiuta a capire e vivere il presente. E’ un modo per imparare ad esercitare nella nostra società una cittadinanza attiva e consapevole. Sappiamo bene che la democrazia senza educazione non si regge. La si impara studiando e vivendo. Questo compito è affidato alla scuola attraverso la conoscenza»20.
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