D(i)ario Fo. Un percorso di ricerca (della verità) in azione
La vita non conclude
Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità – quando dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla – sembrò generata dalla letteratura.
Di questo strano cortocircuito, tanto inverosimile quanto reale, scriveva Sciascia nel 1978, investigando con i suoi strumenti di «uomo di lettere», le lettere di Aldo Moro. Erano passati 80 anni dal J’accuse di Zola, e L’affaire Moro chiudeva definitivamente la traiettoria della forma saggio usata dall’intellettuale per “mettersi di traverso” (come aveva detto Benjamin) a denunciare l’ingiustizia perpetrata da un irragionevole potere sordo e minaccioso.
Per la mia generazione che ha vissuto quei fatti a cui la “letteratura” ha dato “verità”, il discorso di Sciascia appare inconfutabile. Noi condividevamo in quel tempo uno “spazio quotidiano” in cui era percepita la stridente frizione realtà-letteratura, in quanto la verità alternativa della controinformazione, da qualsiasi canale provenisse, si opponeva alla verità ufficiale dei governi democristiani (con tutte le semplificazioni e i dogmatismi che erano tipici di quei diciottenni).
Ma oggi quale può essere la comprensione di quelle parole e di quelle denunce da parte di chi non solo o non tanto non ha, genericamente, vissuto quell’epoca, ma è nato in un mondo che è completamente diverso da quello in cui vivevano, pensavano, polemizzavano gli intellettuali ”scomodi”? E, del resto, la scomparsa di Sciascia, di Pasolini, di Calvino, avvenuta in un tempo antico, precedente la nascita degli attuali diciottenni, ha segnato la scomparsa dell’intellettuale, che si interessa della realtà, per lasciare il posto all’esperto, che si occupa di un circoscritto ambito specialistico. Il problema non è che questa nostra attuale realtà è diversa da quella di un tempo precedente (il che è ovvio), ma che oggi è mutata la percezione della realtà e il senso di ciò che è reale. Pasolini e Calvino potevano occuparsi di poesia e di romanzo e di cinema e di favole, di lingua e di comunicazione, ma anche del massacro del Circeo, perché letteratura, poesia, impegno, politica, classi sociali, arte e verità negli anni 70 non erano segmentabili, mentre nel mondo a una dimensione del neocapitalismo contemporaneo sono semplicemente insignificanti.
Per chi, come me, insegna italiano e storia a studenti tra i sedici e i diciotto anni, la quaestio diventa un problema professionale da risolvere nello “spazio quotidiano” di un’aula scolastica in cui si consuma l’incontro tra generazioni diverse, percezioni diverse e forse, anche, valori (e disvalori) diversi. Di fronte ad adolescenti reali, l’insegnante non si avventura tra gli affascinanti sentieri della teoria della conoscenza, ma fatica quotidianamente nella prassi per mettere in relazione le parole e le cose, pur percependo, anche senza dirselo, la necessità di ridisegnare il senso di ciò che fa. Perciò la partecipazione a “La fabbrica dei Nobel: da Carducci a Fo”[1] è diventata ulteriore occasione di rispondere alla mia richiesta di senso come insegnante e, contemporaneamente, tragitto di acquisizione di competenze per gli adolescenti che mi hanno seguito nell’intrecciare letteratura e storia, memoria e attualità.
Cose da pazzi
La classe con cui ho lavorato a partire da gennaio 2018 è una quinta liceale del corrente anno. L’autore che abbiamo scelto, intersecando le piste proposte dal progetto, è stato Dario Fo, messo in relazione, in prima battuta, con Pirandello in virtù del comune uso del teatro come straniante mezzo di comunicazione. Tuttavia l’attività si è aperta a ventaglio, complicandosi nelle letture e negli sconfinamenti, man mano che lo studio proseguiva e si presentavano dubbi, questioni, problemi alla comunità interpretante, di cui io sono stato partecipe, mediatore di significati culturali (ma non solo). Cercherò di ricostruire, dunque, una linea di svolgimento del nostro percorso, con l’avvertenza che nella realtà esso si è svolto in modo tumultuoso per sovrapposizioni successive, dettate dai bisogni che di volta in volta si sono manifestati. È stato, naturalmente, circoscritto l’ambito di ricerca, perché era necessario concludere l’attività entro una scadenza data; ma per la prima volta, credo, gli studenti hanno percepito come fossero artificiali le distinzioni scolastiche tra materie, e all’interno delle materie, degli argomenti, e degli autori, e dei fatti secondo un percorso di polverizzazione e di semplificazione che non rende conto della complessità del reale.
Nella funambolica produzione di Fo, ho proposto ai miei studenti di usare come testo di riferimento Morte accidentale di un anarchico (1970), in quanto il protagonista, il “Matto” “patentato” che ha la “mania dei personaggi”, appariva di chiara derivazione pirandelliana con il suo “hobby di recitare delle parti sempre diverse” e la sua aspirazione ad un “teatro verità” in cui la “compagnia dei teatranti” fosse “composta da gente vera, che non sappia di recitare”.[2]
Stabilita agevolmente la connessione, per quanto riguardava l’ascendenza letteraria, ci siamo addentrati nel groviglio dell’affaire Pinelli. È stato necessario studiare la strage di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) e l’avvio della strategia della tensione negli anni di piombo. E per capire il clima di quegli anni e di quelle tensioni politiche e sociali, siamo andati a ritroso al 1968, di cui ricorreva il cinquantenario, e per capire qualcosa del movimento studentesco internazionale, tra pacifismo e guerra del Vietnam, abbiamo proseguito fino ad arrivare alla morte di JFK a Dallas (22 novembre 1963). Abbiamo anche trattato la fine della guerra del Vietnam (1975) e il rapimento e la morte di Aldo Moro (1978), culmine del terrorismo delle BR in Italia, spostandoci in avanti rispetto al nostro testo. A questo punto è stato evidente che stavamo anticipando argomenti, solitamente trascurati o frettolosamente ricordati, della storia di quinto anno. Abbiamo dunque assunto il 68, che stavamo studiando, come punto di partenza dello svolgimento del programma di storia dell’anno successivo: sarebbe stato il nucleo da cui si sarebbero allontanati cerchi concentrici, riguardanti eventi antecedenti e successivi, piuttosto che seguire la tradizionale linea monodirezionale che dal passato non raggiunge mai il presente. Praticamente una cosa da pazzi.
Strumenti di tortura
Morte accidentale di un anarchico fornisce una interpretazione su quello che è accaduto il 15 dicembre 1969 al quarto piano della Questura di Milano. E indica in Calabresi il responsabile della morte di Pinelli. Ma ben presto, raccogliendo dati e confrontando informazioni, i ragazzi si sono imbattuti in diverse ricostruzioni dei fatti e hanno dovuto prendere posizione rispetto alla possibile responsabilità morale di Fo nell’uccisione di Calabresi (1972). Perciò abbiamo esaminato la posizione di Lotta Continua e di Adriano Sofri, che (insieme a Bompressi e Pietrostefani) di quel delitto è stato dichiarato responsabile, e constatato che era necessario articolare la nostra opinione attraverso una rigorosa argomentazione, che tenesse conto delle informazioni comuni. Rispetto alla complessità dei fatti, di cui Morte accidentale di un anarchico era un effetto e insieme (forse) causa, l’argomentazione era lo strumento linguistico e concettuale di ordinamento del caos: affinché le cose non si disperdessero in un moto centrifugo e per dare chiarezza, in primo luogo a se stessi, i ragazzi hanno cominciato a strutturare una rete di scrittura che sostenesse la loro opinione e che rendesse conto di quella che appariva loro una verità attraverso un conflitto delle interpretazioni.
La struttura argomentativa che avevano esplorato era quella di Beccaria e di Pietro Verri. Per offrire possibili alternative al modo di ragionare argomentando, ho proposto ai miei studenti la lettura di Il giudice e lo storico di Carlo Ginzburg, che sostiene, attraverso l’esame critico delle carte del processo, da storico delle streghe e dei benandanti, il proprio convincimento dell’innocenza di Sofri e perciò della ingiustizia della condanna. La lettura, che temevo potesse suscitare violente reazioni di rigetto, ha invece suscitato grande interesse nei ragazzi, affascinati dal sistema dell’inchiesta di Ginzburg. Il saggio sul processo, mi ha dunque indotto a far leggere ai miei studenti la Storia della colonna infame e passi del Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Avevamo così ricostruito una linea evolutiva della forma saggio, che come trattato, denuncia l’ingiustizia e, grazie alla ragione, rivela – amara e trionfante – la verità, nascosta da ragioni di potere e di interesse. Infine, la lettura dell’Affaire Moro di Sciascia ha offerto l’ultimo esempio di saggio e di possibilità di argomentare che dice di guardare agli illuministi e si complica e si metamorfizza attraverso Pasolini. Ma si tratta di un’altra tragica sentenza di morte, e si discute ancora di verosimiglianza e verità. A questo punto i miei studenti avevano tutti gli strumenti per poter costruire una loro logica del discorso. Ciascuno di loro se n’è servito come ha potuto e creduto e con esiti più o meno soddisfacenti. Ma ciascuno sa che ragionare e scrivere, dimostrando di occuparsi seriamente di una questione, impone il rigore di una struttura formale che sconfigga la confusione del caos, anche quando del caos deve trattare. Il saggio, non necessariamente breve, ha smesso di essere uno strumento di tortura e ha liberato l’argomentazione dalle catene della finzione.
Je est un autre
L’attraversamento di Pirandello nel trattare il teatro di Fo ha consentito di osservare Morte accidentale di un anarchico da un’angolatura un po’ inconsueta. Del resto, questa è finalità comune dei progetti che intendono rompere o integrare la linearità della successione cronologica di autori canonici. E Fo non fa parte del canone. L’esame delle interpretazioni dei fatti e il coinvolgimento personale di Dario Fo e Franca Rame hanno consentito ai ragazzi di riflettere su un mondo scomparso, nel quale sembrava valesse la pena rischiare di persona e subire violenza fisica, minacce, denunce, processi per dire la verità. Questi adolescenti hanno scoperto che è esistito un tempo in cui dire la verità e ridere della menzogna era sentito come un dovere, non solo nei confronti di chi ha subito l’ingiustizia, ma specialmente nei confronti della comunità, che avrebbe vissuto meglio se consapevole: se avesse capito l’inganno del potere. I miei alunni hanno scoperto il senso della politica degli anni 70. Noi l’abbiamo dimenticato.
La presentazione[3] anteposta da Fo allo spettacolo, da questo punto di vista, è stata estremamente importante ed ha aperto tra i ragazzi una discussione pirandelliana su un Autore, che, al fine di poter rappresentare la realtà, si fa attore che incarna un personaggio che finge di essere un altro. La scrittura del testo utilizza documenti ufficiali, e si modifica al variare delle versioni dei testimoni, ma i verbali, piuttosto che essere utili alla costruzione di un discorso veristico che simuli la realtà, servono a realizzare sulla scena una farsa, platealmente inverosimile, che è la forma del (vero) contenuto di denuncia. Il “mondo scritto”, per usare la terminologia di Calvino, attraverso l’artificio della falsità, rivela la verità nascosta dal “mondo non scritto”, come Sciascia aveva detto usando altre parole. Fo sceglie di denunciare ridendo, dissacrando, dichiarando in continuazione di essere attore che dà voce a chi non ne ha, sghignazza e fa la pantomima di se stesso, ma – come Pirandello – conduce sul palcoscenico un’inchiesta che deve squarciare il velo della menzogna delle convenzioni e di un potere. Audacia assurda, plausibile solo nella finzione letteraria, solo nella parola di un Matto. Sembrava ai diciottenni di allora troppo poco per mettere in crisi il sistema. E in questo, forse, avevamo ragione, visto quanto il sistema nel tempo si è rafforzato.
Ma, quando l’hanno sentito parlare, quando hanno capito di cosa parlava, i diciottenni di oggi hanno espresso il rimpianto di non avere più nessun Matto da cui ascoltare la verità.
Poi ci siamo guardati.
se la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte (Sciascia, La Sicilia come metafora)
Il lavoro dell’insegnante è quello di mettere in rapporto tanti mondi e tanti tempi, senza mai smarrire la retta via dell’onestà intellettuale. Oggi, in Italia, il lavoro che solo un matto può fare.
Ma sta a noi difendere la nostra funzione. Me ne sono ricordato grazie ai miei ragazzi, e a Dario Fo, e all’allegoria dei poeti… E ho pensato a Borges, a Manganelli e alla Letteratura come menzogna… Ma questa sarà un’altra – la prossima – pagina del mio personale diario. Il diario di un pazzo.
[1] Progetto Miur-Adi- Adi SD (Scuola capofila: Liceo “G.F.Porporato” di Pinerolo), in collaborazione con l’Università di Torino. Il progetto, avviato ufficialmente a Bologna il 19 febbraio 2018, ha avuto la sua conclusione il 17 e il 18 dicembre 2018 a Torino.
[2] I ragazzi hanno usato il testo disponibile in rete http://www.teatro-in-cerca.com/uploads/media/Morte_accidentale_di_un_anarchico_-_Due_atti_di_Dario_Fo.pdf, Ivi. p.10.
[3] Mi riferisco alla registrazione televisiva dell’intero spettacolo visibile su https://www.youtube.com/watch?v=NK4CCtXvcW0
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