Una damnatio memoriae familiare e il suo salvataggio dall’oblio – La ragazza cancellata di Bart Van Es
Ci sono già tanti di quei libri sulla guerra.
Lien sorride e mi dice che la ripetizione non è un male.
«Ci sono anche tante di quelle canzoni d’amore.»
A. Van Es, La ragazza cancellata, Milano, Guanda, 2018, p. 178
La produzione di testi narrativi inerenti il dramma della persecuzione antiebraica sembra non conoscere fine nonostante la progressiva scomparsa di chi ha vissuto sulla sua pelle quella stagione. E non si tratta solo di un fortunato filone che ha dato vita a testi di finzione (si pensi per esempio a Io non mi chiamo Miriam (2016) di M. Axelsonn; Un’intera vita (2010) e Una bambina da un altro mondo (2014) di A. Appelfeld), quanto piuttosto a recuperi memoriali che prendono forma narrativa come le tenaci ricerche dei testimoni di secondo grado e le loro originali rielaborazioni, prodotte perlopiù nell’ultimo ventennio: Dora Bruder di P. Modiano, Austerlitz di W. G. Sebald o, per restare in Italia, Campo del sangue di E. Affinati, Lezioni di tenebra di H. Janeczek (tutti del 1997), Le variazioni Reinach di F. Tuena (2005), esempi emblematici della cosiddetta literature of memory. Si tratta di testi a basso tasso di finzionalità nei quali le ricostruzioni familiari, le indagini documentarie, gli spostamenti fisici, le inserzioni fotografiche si traducono, dal punto di vista testuale, in reportage, in racconti autobiografici, in iconotesti di grande efficacia evocativa.
La ragazza cancellata di Bart Van Es (pubblicato sullo scorcio del 2018 da Guanda, casa editrice particolarmente sensibile attenta a questo tema) rientra a pieno titolo in questa galassia narrativa. L’autore – originario dei Paesi Bassi – vive in Inghilterra dove insegna letteratura inglese: non un narratore, né un giornalista, ma un critico, dedito solitamente alla saggistica accademica. È uno strappo familiare rimosso a indurre Van Es a intraprendere le ricerche relative a Lien de Jong, una bambina ebrea che i nonni dell’autore accolsero in casa durante l’occupazione nazista e che crebbero come una figlia fino a interrompere repentinamente i loro rapporti da adulta, condannandola a una sorta di damnatio memoriae domestica. Desideroso di chiarire le ragioni di questo brusco e inspiegabile comportamento, l’autore rintraccia la donna, oramai ottantenne, le fa visita ad Amsterdam e intesse con lei un rapporto franco e via via più profondo.
Ne è nato un libro ricco che si presta a più livelli di lettura. Alla vicenda personale e familiare, che Van Es ricostruisce con tenacia, integrando i documenti fornitigli da Lien con le sue ricerche d’archivio, si affianca uno spaccato di storia nazionale per certi versi scioccante:
Tra il 1945 e il 1950, le autorità olandesi indagarono sul ruolo svolto da circa duecentotrenta poliziotti nell’Olocausto. […] Per me, cresciuto con l’idea vaga e mitica della resistenza olandese, è uno shock. (Ivi, p. 64)
Per il lettore, spesso abituato a identificare e a omologare il destino degli ebrei olandesi a quello di Anna Frank, questo libro è da una parte una scoperta e, dall’altra, una riconferma: si viene a sapere, infatti, dei molti ragazzini che si sono potuti salvare grazie al coraggio e alla generosità delle tante famiglie non ebree – organizzate in una rete di resistenza – che li accolsero, talvolta non senza atteggiamenti ambigui e persino predatori. Tuttavia si ha la dolorosa riprova che il destino di Anna fu comune alla maggior parte dei suoi connazionali; infatti la percentuale di ebrei olandesi deceduti durante l’occupazione è superiore al 50 per cento rispetto a quella degli altri paesi occidentali:
Ci sono vari fattori che contribuiscono a spiegare perché le possibilità di sopravvivenza fossero così basse. La popolazione viveva perlopiù in città, le persecuzioni iniziarono presto, fuggire oltre confine era quasi impossibile e il processo di registrazione (agevolato dalla cieca cooperazione del consiglio ebraico) fu molto efficiente. Ma anche la partecipazione attiva dei cittadini olandesi – che denunciarono i vicini causandone l’arresto, la reclusione e la deportazione – ebbe un ruolo significativo. […] in Olanda fu l’amministrazione nazionale a mandare a morte gli ebrei. (p. 64)
Alla rappresentazione dei Paesi Bassi del passato – una nazione di antiche tradizioni, rialzatasi nel dopoguerra con operosità (significative le pagine dedicate al breve ma intenso sviluppo postbellico di Dordrecht, cui il nonno dell’autore diede un fattivo contributo come amministratore locale di orientamento socialista), – viene accostata l’Olanda di oggi così fiduciosa nella modernità e nel progresso da riuscire a far convivere stralci del suo passato rurale e/o urbanistico con il flusso dei non luoghi odierni:
A metà pomeriggio sto guidando lungo il Waalhaven, allibito dalla distesa di dock, magazzini e impianti industriali alla mia sinistra. È da venti chilometri che si succedono pile di container e serbatoi petroliferi. Ho oltrepassato una serie di raffinerie, ciascuna un intreccio di tubature di metallo che sembra una mangrovia, inframezzate dalle fiancate d’acciaio delle navi. Con tutto il suo flusso costante di container che vengono caricati sui camion tutto attorno a me, il porto di Rotterdam nutre il continente come un’enorme bocca. […] il tragitto per IJsselmonde richiede molta concentrazione, perché l’autostrada ti spinge avanti […]. È sorprendente, dunque, che il paese sia intatto e tranquillo. È fatto di belle case con i frontoni a timpano, alcuni con la data: 1889, 1905. 1929. (Ivi, p. 123)
La ricostruzione dell’infanzia e dell’adolescenza di Lien avviene attraverso le molte foto che si dispongono soprattutto nella prima e nell’ultima parte del libro e che ritraggono i genitori Charles e Catharine – ebrei non osservanti – giovani e spensierati, gli zii, i cugini, Lien stessa, bambina e adulta. Di grande valore – per i mutamenti progressivi cui gli ebrei vanno incontro – sono anche le dediche in versi lasciate nel prezioso poesiealbum della bambina, donatole nel settembre 1940:
A partire dall’autunno del 1941, i nomi sul diario dei ricordi di Lien sono diversi, o meglio, diventano più simili tra loro. Roosje Sanders, Judith Hirch, Ali Rosenthal, Jema Abrahams: chi lascia la sua firma tra il settembre 1941 e il marzo 1942 è inequivocabilmente ebreo, e questo perché Lien è costretta a frequentare la scuola ebraica. Le poesie che le scrivono sono ancora sull’amicizia, gli angeli e i fiori, ma i ritagli di bouquet e bambine vestite di crinoline, che riempivano le prime pagine, sono ormai rari. (p. 20)
Tuttavia dall’agosto del ’42 la situazione per gli ebrei olandesi diviene così critica che Lien – a soli otto anni – viene allontanata da l’Aia: i genitori la mandano a Dordrecht, presso una famiglia sconosciuta. Van Es riporta la lettera che la madre indirizza ai due genitori affidatari: «Ci tengo a dirvi – scrive – che il mio desiderio è che pensi solo a voi come a sua madre e a suo padre. […] Se Dio vorrà, dopo la guerra, ci ritroveremo tutti a stringerci la mano in una gioiosa riunione» (p.35). Ma Lien non rivedrà più i suoi genitori – morti ad Auschwitz a trentasei e ventinove anni – e per lei inizierà un destino di separazioni e di affidamenti successivi così traumatico da costringerla a isolarsi psicologicamente dalle persone che la circondano. Il destino di Lien – assegnata prima alla famiglia Van Es, trattata al pari di una figlia, in seguito trasferita a Bennekom e “consegnata” ai Van Laar più come una sguattera che come una ragazzina da accudire, per poi essere affidata definitivamente ai Van Es a guerra conclusa – è ricostruito dalla donna e dall’autore per tappe successive, con equilibrio e delicatezza, senza tacere le varie sofferenze subìte. Il montaggio narrativo alterna le rievocazioni del passato – grazie alle quali si viene a conoscenza di tutto l’arco esistenziale Lien, che solo in età matura riuscirà a superare i traumi vissuti nell’infanzia e renderà omaggio ai suoi morti ad Auschwitz – con il presente: nei tre anni di ricerche, dal 2014 al 2017, l’autore ha maturato infatti non solo una preziosa amicizia tra persone di generazioni diverse, unite dallo stesso desiderio di conservare la memoria di traumi storici rimossi, ma importanti riflessioni sul presente e suoi stessi rapporti familiari.
Il pregio del libro non sta certo nel “mistero” che si nasconde dietro la damnatio memoriae di Lien, che non sveleremo, quanto piuttosto in quel «dovere autoimposto» della memoria che è il solo «oblio impossibile» di cui parla H. Weinrich in Lete (qui trovate l’articolo): una lotta contro l’amnesia individuale e collettiva che spetta oramai ai testimoni di secondo grado. E, si badi bene, non si tratta solo di scavare tra i ricordi della propria famiglia, della propria comunità, alla ricerca dei molti “Giusti” ancora ignoti che hanno contribuito a salvare vite umane nel passato. Si tratta, anche, di riattivare le coscienze civili in un contesto storico in cui – come lo stesso Van Es scrive – è evidente un «estremismo di nuovo in ripresa» (p. 8) e in cui diventa molto più facile schedare l’Altro, il Diverso che accoglierlo per aiutarlo a costruirsi un futuro.
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