Riflessioni su fascismo e antifascismo nella scuola
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Il mio primo incontro con studenti che si dichiarano fascisti è avvenuto lo scorso ottobre, a poche settimane dall’inizio del mio primo anno scolastico nella scuola pubblica. In un istituto superiore dell’ovest vicentino è la ricreazione, io sono di sorveglianza, accanto a me un collega con cui scambio parole sul tempo grigio e sul freddo glaciale nelle aule. A pochi metri, accanto alla recinzione rugginosa, un gruppetto di ragazzi di quarta e quinta parla e ride rumorosamente. Li osservo e proprio in quel momento si alza un coro: inconfondibile la canzone, è il ritornello di “Giovinezza”. Guardo il collega, gli chiedo se anche lui ha sentito. Risponde di sì e sorride bonario, quasi a scusarli. Io rimango interdetto. Sono in anno di prova, prima insegnavo in un liceo paritario: classi piccole, ragazzi per la maggior parte provenienti dalla borghesia cittadina, molti di destra. Eppure non mi era mai accaduto ciò a cui sto assistendo. Decido quindi di intervenire. Mi avvicino ai ragazzi (non sono miei studenti) e decido di adottare una linea “morbida”: accenno ad un sorriso e chiedo se sanno cosa stanno cantando.
– Come no! – risponde un ragazzo che ha l’aria di essere uno dei leader.
– Noi siamo fascisti – fa eco un secondo.
Per un attimo resto paralizzato dall’affermazione e dal tono stentoreo con cui è proferita. Mi riprendo subito però e abbozzo una risposta istituzionale.
– Sapete che la Costituzione e ben due leggi vietano espressamente di rifarsi al fascismo?
Uso questa parola, ‘rifarsi’, consapevolmente, pensandola più adatta di altre, più difficili, come ‘apologia’, e tutto sommato più vicina a loro. Nel gruppo cala per un istante il silenzio, rotto dal suono della campanella. Poco dopo, mentre siamo in colonna per rientrare nella scuola, mi arriva, a bruciapelo, la domanda:
– Ma lei come la pensa, prof.?
Ora sono preparato. Mi volto, guardo negli occhi i ragazzi, in particolare quello che mi ha rivolto la parola. E dico:
– Io sono profondamente e pubblicamente antifascista.
Forse ho esagerato, ma in quel momento mi pareva di dover agire in quel modo. Tuttavia quel giorno, senza rendermene conto, ho lanciato la sfida; da allora è iniziato un confronto serrato, talora una vera e propria lotta, proseguita fino agli ultimi giorni di scuola, in più classi, in momenti formali e informali. In questi confronti ho osservato che di fronte ad una scuola che si richiama alla Costituzione e ad insegnanti che ne propongono i principi e i valori il nuovo fascismo intercetta la ribellione degli adolescenti e la incanala, creando una contrapposizione fra insegnanti “di sistema”, adulti “di sistema”, una politica “di sistema”, un mondo “di sistema” e un universo rivoluzionario, In questa voluta contrapposizione il fascismo incarna paradossalmente la libertà e la spinta a rovesciare il gioco. E questo punto mi pare interessante, anche perché collega in qualche modo questo nuovo fascismo ad una dimensione rivoluzionaria e movimentista che era tipica del primo fascismo storico, quello sansepolcrista.
La seconda caratteristica che ho osservato è che il nuovo fascismo riesce ad incunearsi proprio perché trova un terreno fertile in cui attecchire: adolescenti spaventati, sfiduciati, che disperano di trovare un lavoro, che percepiscono forse più degli adulti quel sentimento di assedio che nella mia regione, il Veneto, è particolarmente forte; soprattutto, il fascismo trova adolescenti per lo più inermi a livello di cultura e di memoria: spesso provenienti da percorsi scolastici frantumati e sofferti, questi ragazzi forse non hanno mai sentito una spiegazione approfondita sulle dittature e sui regimi totalitari ma, soprattutto, non hanno avuto, come invece ha potuto avere ancora la mia generazione, nonni vissuti durante il ventennio mussoliniano e la Seconda guerra mondiale, non hanno mai ascoltato storie di rastrellamenti e di bombardamenti, di cui il vicentino è stato drammaticamente protagonista. I miei “giovani fascisti” vivono in un Comune decorato di medaglia d’argento al V.M. per la Resistenza, ogni giorno passano davanti a vie e monumenti dedicati a partigiani e dissidenti antifascisti, ma di tutto ciò non conoscono nulla; il loro attaccamento al territorio è “viscerale”, non dovuto a reale conoscenza bensì influenzato dalle ideologie autonomistiche cresciute negli ultimi anni e come tale percepito come una heimat da difendere e contrapporre ad un mondo esterno oscuro e minaccioso.
La cosa però più incredibile e all’inizio disarmante, per me insegnante, è stato apprendere che l’ignoranza è esibita, ostentata, rivendicata con orgoglio. Del fascismo storico non vengono ripresi che pochi elementi, assemblati in modo superficiale ma incisivo come un meme: la forza, il nazionalismo, la dimensione vagamente sociale, il machismo, un nemico ben individuabile in una minoranza più debole. Come mai tale esibita ignoranza? Forse è semplice incapacità di informarsi, forse è mancanza di stimoli autentici o forse la risposta si cela nel primo dei punti che ho proposto: se la cultura è percepita come cultura di sistema, allora tanto meglio non sapere, meglio informarsi da soli o, addirittura, non informarsi, “tanto sono tutte bugie” e “la storia la scrivono i vincitori”. È dura quando ci si trova di fronte ad un ostacolo come questo: per un insegnante è una lotta ad armi impari se si rifiutano gli strumenti del confronto, della conoscenza, dell’analisi. Eppure a volte può giovare un colpo di fortuna.
Una mattina di gennaio, in un’ora di supplenza, grazie ad un colpo di fortuna ho registrato la mia prima, pur esile vittoria. Ero capitato nella classe dei cantori di “Giovinezza”. Il gruppetto, fra compagni distratti e poco interessati, mi incalzava con domande, frasi fatte e luoghi comuni. Ho cercato di parare i colpi e di incalzarli a mia volta con domande sul primo fascismo. Ho chiesto che mi spiegassero le dinamiche attraverso cui Mussolini era giunto al potere, quanti deputati aveva alla Camera. Niente. Il gruppo pareva impermeabile.
– Non lo so! – rispondevano ridendo i maestri del coro.
Allora, quasi per caso, ho spostato il tiro. Dov’era al momento della fatidica marcia su Roma il loro beneamato duce? E qui, ecco un punto debole del loro schieramento ideologico: mettere in discussione il capo infallibile, coraggioso, premuroso, paterno, forse valeva più di mille parole sulle dinamiche storiche di crisi della democrazia liberale. E qui mi è giunto un aiuto insperato. Avevo da poco terminato di rileggere Marcia su Roma e dintorni e ho citato la vicenda del capitano Lussu, fervente antifascista.
– Lussu antifascista? Ma come! – ha chiesto uno di loro.
L’ho tallonato. Il ragazzo aveva letto Un anno sull’altipiano. Gli era piaciuto. Ho esultato tra me: avevo un appiglio.
– Ma come! – ho risposto. – Ti è piaciuto un libro antimilitarista proibito dal fascismo?
Da lì ho iniziato a raccontare: da Un anno sull’altipiano sono passato a Marcia su Roma e dintorni, dalle azioni dei fascisti in Sardegna all’inetta classe politica, al capitano pluridecorato eroe di guerra che viene assalito da una squadraccia nel proprio studio e si difende sparando sulle camicie nere. Non voglio dilungarmi: quel giorno di gennaio, di fronte all’ostentata ignoranza sono riuscito a far breccia proponendo un antimodello in grado di attirare l’attenzione di un adolescente. Il modello ha intercettato la curiosità. Grazie, capitano Lussu!
La terza caratteristica che emerge dalla schermaglia sopra descritta è che il fascismo, ieri come oggi, offre, attraverso slogan, risposte semplici e immediate ad una profonda domanda di senso da parte degli adolescenti. Insicuri, chiedono sicurezza; arrabbiati, vogliono qualcuno e/o qualcosa su cui sfogare la propria rabbia; disorientati, cercano modelli, padri autorevoli. E li trovano nel duce buon padre della patria, che faceva lavorare tutti, che concedeva i sussidi ai meno abbienti, che conquistava alla patria l’Impero. Li trovano nei gesti forti, risoluti, in un lessico machista, in “Giovinezza” e in “Faccetta nera”, elementi che cementano il gruppo, che danno qualcosa e qualcuno in cui credere. Qui molto ci sarebbe da dire sulle responsabilità politiche di chi ha lasciato che un pericoloso vuoto si formasse, ma non mi interessa farlo in questa sede.
Io sono un insegnante, e per un insegnante si tratta di smontare ad uno ad uno questi falsi miti per mettere in luce l’idea di essere umano che il fascismo di un tempo proponeva e che quello di oggi ripropone sotto nuove vesti.
Non è sempre facile instaurare un dialogo, lo riconosco, perché alla superficialità si aggiunge appunto la dinamica del gruppo: i ragazzi si spalleggiano, fanno battute, ripetono frasi fatte, ridono; soprattutto di rado sono disposti ad ascoltare un’argomentazione complessa. Occorre allora incalzarli con domande, smontare le frasi preconfezionate, inseguirli senza tregua. E offrire modelli alternativi in grado di intercettare il loro bisogno di senso. Qui si apre un altro problema: nelle due striminzite ore curriculari di Storia spesso questo dialogo non è possibile o diventa difficile. Bisogna investire risorse anche nei momenti non formali, sfruttare ogni occasione. Per riprendere una celebre definizione di Franco Fortini, occorre «farsi candidi come volpi e astuti come colombe. Confondere le piste, le identità. Avvelenare i pozzi». È una lotta senza quartiere, che prosciuga le energie e che richiede agli insegnanti una preparazione che tanto l’Università quanto gli innumerevoli corsi di aggiornamento, sempre meno incentrati sui contenuti del sapere e sempre meno orientati ad una riflessione su quale sapere la scuola trasmette, non possono fornire in toto.
Occorre approfondire, studiare, uscire dai nostri campi consueti, dalle nostre trincee sicure e affrontare la terra di nessuno, confrontarsi, fare banda con i colleghi. Non è facile, lo so. Ma credo la sfida sia fondamentale. I modelli per incrinare il pensiero unico non mancano: per me si chiamano si chiamano Emilio Lussu, Giacomo Matteotti, Antonio Gramsci, Concetto Marchesi, Primo Levi, Mario Rigoni Stern, Antonio Giuriolo, Luigi Meneghello, Beppe Fenoglio, Giacomo Albiero, Teresa Peghin; gli ultimi due sono un partigiano e una staffetta della mia valle tuttora viventi. Tutte persone di altissima tempra morale. E antifascisti.
Tornando ai “giovani fascisti”, credo sia emerso quanto sia importante ancorare una discussione a interessi reali e alla realtà concreta degli adolescenti. In tal senso ritengo fondamentale ribadire un altro concetto: il legame fra fascismo e razzismo. Nella maggior parte dei casi chi si dichiara fascista è anche razzista. Tuttavia è pure accaduto quest’anno che mi imbattessi in ragazzi che tendevano a separare i due concetti. In uno dei confronti con i cantori di Giovinezza ho dovuto lottare contro il tentativo di separazione del fascismo dal razzismo. I miei interlocutori, in una classe multietnica, seduti fra compagni di almeno altre tre nazionalità, pretendevano di dirsi fascisti senza essere razzisti, sposando la vulgata secondo cui fino al 1938 il fascismo non era razzista e da quel momento in poi lo fu solo contro gli ebrei. Ecco un altro falso mito da scardinare. Il fascismo non si spacchetta, si assume o si rigetta. In più, la contraddizione finisce per far cadere l’impalcatura ideologica.
– Saresti disposto a dare una botta in testa a Karim, che siede accanto a te, perché ha un’idea diversa?
– No. Non per un’idea. Per una ragazza magari.
Risata generale.
– Allora fatti una domanda.
Dai molti dialoghi coi miei “giovani fascisti” ho potuto dunque comprendere che il fascismo viene abbracciato come culto della forza, della risolutezza, di una politica da loro intesa come vicina al popolo. In ciò i giovani sono del tutto figli di questi tempi di crisi della democrazia rappresentativa e di trionfo di populismo e demagogia. Il tutto accompagnato da superficialità e approssimazione. Tuttavia, se si riesce a stabilire un dialogo, allora si possono smontare miti e frasi fatte e ridare profondità ad un pensiero sveglio e vivace, com’è quello degli adolescenti, di tutti, senza facili distinzioni classiste fra ordini di scuola.
Uno degli ultimi giorni di scuola mi sono trovato a dialogare con alcuni adolescenti di una classe con cui avevo fino a quel momento registrato una serie di insuccessi. Si era al termine di un corso sul primo soccorso, pochi mancavano per la prova col manichino e la maggior parte degli studenti si annoiava. Ho avvicinato alcuni studenti, quelli che avevo identificato come leader. Non avevo intenzione di parlare di fascismo, solo volevo ricostruire un rapporto umano che nell’ultima ora di supplenza, complice una mia giornata storta, avevo in parte compromesso. È stato uno di loro ad iniziare, ovviamente con una battuta.
– Prof, quello seduto vicino a lei è fascista!
Ero di buon umore, rilassato, abbastanza in forze. Ho sorriso. E ho rilanciato con una domanda:
– Che vuol dire per te essere fascista?
È fatta. Gli altri si avvicinano. Sentono odore di scontro e non vogliono perdersi lo spettacolo. Io e altri due siamo seduti, gli altri ci circondano in piedi. Non mi sento minacciato, sono a mio agio. Ripeto la domanda. Il ragazzo è in difficoltà. Cincischia, si schermisce. Non voglio infierire, non ce l’ho con lui, e rivolgo ad altri lo sguardo. Interviene un compagno e spara la sua battuta.
– Ma il comunismo ha fatto più morti comunque!
Bene. Ora abbiamo due concetti da spiegare. Inizio, lentamente, misurando le parole, attento ad essere il più chiaro e il più obiettivo possibile. Non mi perdonerei mai un errore, non ora, non qui. Avverto che il clima è perfetto, che i ragazzi mi stanno ascoltando davvero. Cerco di spiegare le due parole, di storicizzarle, di spiegare che esse vogliono dire molte cose diverse, di mostrare, infine, quali diverse idee di essere umano emergano dal confronto. E vedo che questo interessa i miei interlocutori. Amplio quindi il discorso, inserisco parole ed espressioni come “classe”, “lotta di classe”, “sfruttamento”, “lavoro”, “sopraffazione”, “schiavitù” e li guardo negli occhi ad ogni parola, ad ogni frase. Vogliono conoscere, sono interessati, la “lezione” li tocca nel profondo come sta toccando me. Stiamo dialogando. E dove c’è il dialogo il fascismo è già morto.
Al termine lancio qualche consiglio di lettura per l’estate. Servirà? Non so, non mi interessa, il seme va comunque gettato. Il ragazzo additato come fascista mi guarda perplesso, in silenzio. Tra me esulto: sta riflettendo.
Il fascismo avanza, è un dato di fatto. È stato sdoganato ormai in sede politica e istituzionale, grazie anche alla diffusione di antistorici miti su una dittatura “morbida”, dai tratti mediterranei e bonaccioni, che che non uccideva nessuno e «mandava la gente in vacanza al confino», miti che si sono saldati all’altro, mai tramontato benché ampiamente smentito dalla storiografia, degli “italiani brava gente”. È un processo in atto da diversi anni ma che ha avuto una brusca accelerazione a seguito della crisi economica e dei massicci fenomeni migratori degli ultimi anni. La progressiva precarizzazione economica e sociale fra le classi medie e medio-basse, il diffondersi di sentimenti di paura, di instabilità, di minaccia hanno aperto le porte al riaffacciarsi tanto dei difensori del fascismo storico, teso a riabilitare il ventennio, quanto di nuove forme di fascismo. Il resto è cronaca.
Come ha scritto di recente Christian Raimo su “Internazionale”, «il fascismo funziona sempre allo stesso modo: usa le contraddizioni sociali non per innescare un conflitto di classe, ma per aizzare il conflitto all’interno della classe degli oppressi, il ceto medio impoverito, che sente di non avere più sicurezza sociale (il welfare scomparso, le misure di sostegno al reddito clamorosamente insufficienti, un ascensore sociale che invece di salire precipita in basso), contro la nuova classe proletaria (migranti ed emarginati) che i diritti sociali non li ha mai avuti». La scuola, per la sua dimensione di dialogo, può e deve diventare un argine al dilagare di fascismi vecchi e nuovi, una «tana» com’era quella del sergente Rigoni sulla riva del Don. Gli antidoti sono quelli di sempre: il dialogo, la cultura, la riflessione, l’identità intesa come confronto con l’altro, la riscoperta della memoria, il dubbio come presupposto per costruire per un sapere condiviso. Questo con i ragazzi. Tra colleghi, per evitare di sentirci come gli ultimi giapponesi nella giungla birmana, è importante condividere le esperienze. Dobbiamo essere banda, attrezzarci culturalmente e resistere. Come un tempo altri hanno fatto. I tempi sono difficili, ma la via è segnata: «chi non vuole chinare la testa / con noi prenda la strada dei monti».
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2012, labile.
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