Per Vittorio Taviani
Mi è difficile scrivere di Vittorio Taviani, della sua vita e della sua morte. Non sono un critico cinematografico, e l’amicizia che ci ha uniti negli ultimi venti anni mi indurrebbe a fare una cosa che non amo: mescolare il privato al pubblico, il ricordo all’analisi.
Il fatto è che la mia vita è stata segnata in profondità prima, nella giovinezza e nella prima maturità, dai film di Vittorio e Paolo, poi dalla frequentazione diretta di Vittorio, per me una sorta di fratello maggiore o di amico-maestro (come tanti altri che stanno scomparendo a uno a uno in questi anni, da Timpanaro a Orlando sino a Vitilio Masiello, da Fortini e Volponi a Foa e Sanguineti). Le nostre famiglie provengono dalla stessa zona della Toscana: fra San Miniato (dove Vittorio è nato) e Santa Maria a Monte (dove è nato mio padre e io stesso ho vissuto da bambino) che distano in linea d’aria dieci-quindici chilometri al massimo. Ho conosciuto persone che sono scampate per caso dall’eccidio tedesco nel Duomo di San Miniato (da cui nasce uno dei film migliori dei Taviani, La notte di San Lorenzo) e si sono rifugiate a Santa Maria a Monte.
Prima che li conoscessi di persona, la mia formazione culturale e civile è stata accompagnata e influenzata dai film dei fratelli Taviani. Ricordo uno dei primi, visto al Circolo del Cinema di Pontedera, Un uomo da bruciare sull’assassinio mafioso di un sindacalista siciliano (la Sicilia è stata un po’ la seconda patria di Vittorio). Avevo poco più di venti anni e imparai da quel film cosa fosse la mafia. Poi il ‘mio 68 fu anticipato e accompagnato da I sovversivi (1967) e San Michele aveva un gallo…(1971). I Taviani battevano sempre sul solito testo: l’impegno civile, l’epica resistenziale (come dimenticare quella straordinaria battaglia nel grano della Notte di San Lorenzo …), la rappresentazione critica del costume. Certe scene di certi film, come Padre padrone, mi sono rimaste impresse nella memoria per sempre, come quella del viaggio finale in treno dell’esule e il commento «Grandi querce della Sardegna addio…», che per anni mi sono automaticamente e un po’ stupidamente ripetuto ad ogni mio ritorno dall’isola al continente. Se l’emozione di quelle riprese non mi ha abbandonato, ciò è accaduto perché i Taviani non hanno mai avuto paura delle emozioni, e anzi hanno sempre creduto nei sentimenti, nella loro forza e nella loro semplicità. Anche da questo punto di vista sono sempre stati registi epici.
Quando alla fine degli anni ottanta o all’inizio dei novanta conobbi direttamente Vittorio (grazie alla figlia Giovanna, allora mia allieva a Siena) capii subito che dietro questa ricerca di autenticità non c’era affatto ingenuità, ma una grande cultura. Vittorio praticava e conosceva perfettamente i classici non solo del cinema e della saggistica politica (Gramsci su tutti), ma anche e soprattutto quelli della letteratura: di qui le loro frequenti rivisitazioni di Pirandello (Kaos su ogni altra) o di Shakespeare o di Tolstoj. Soprattutto Tolstoj ritorna continuamente nella opera dei due fratelli. Vittorio infatti amava particolarmente gli autori in cui classicità e romanticismo si univano in una sintesi originale, come Goethe e soprattutto naturalmente Tolstoj, in cui ritrovava la tendenza epica a lui così cara. Film come Le affinità elettive o Il sole anche di notte nascono da questa passione per i classici. E poco importa se a volte questa inclinazione romantica può decadere nel melodramma in opere minori, soprattutto rivolte al grande pubblico (anche televisivo).
Degli ultimi film ho amato soprattutto Cesare deve morire (che ha avuto anche un grande successo internazionale) e Meraviglioso Boccaccio (Una questione privata, uscito quest’anno è stato ideato da entrambi i fratelli, ma Vittorio ammalato non ha potuto girarlo e va perciò attribuito, penso, solo a Paolo). Cesare deve morire (di ispirazione shakespeariana) ci ricorda che il tragico esiste, che esistono le grandi scelte, che il male esiste e va fronteggiato, e che il bene può prevalere. Si veniva allora da una stagione (il postmodernismo) in cui sembrava che l’esistenza fosse solo un gioco, che letteratura e cinema fossero solo ironia, parodia, divertimento, citazione, una stagione che aveva messo da parte i Taviani, le loro tendenze classiche e romantiche, la tragedia, l’impegno politico; e ora quel film ricordava che la vita, la grande tragica vita, ci pone di fronte inevitabilmente ai suoi aut-aut inesorabili. Il suo successo fu l’inizio di una controtendenza. Meraviglioso Boccaccio, un film di emozioni, di silenzi, di sguardi, di paesaggi, in cui ci viene presentato un Boccaccio casto, di una innocenza primordiale (quanto diverso da quello di Pasolini!), fu per me una sorpresa. Quel ritorno ai sentimenti e all’autenticità dell’amore non era il frutto di una incoscienza o di un’anacronistica aspirazione romantica, ma si presentava di fatto come una conquista, un passaggio difficile da raggiungere attraverso la peste del nostro tempo (cui, nel film, rimanda quella del 1348 rappresentata nel Decameron), una peste da superare per ritrovare una nuova fiducia e una nuova speranza. In tempi in cui siamo stati a lungo sommersi dalla esibizione del cinismo, da una letteratura e da una cinematografia volutamente sporche e sapute, incontrare una tale lezione di purezza (morale e stilistica) costituisce una tendenza controcorrente e per questo tanto più salutare.
Può darsi che i fratelli Taviani rappresentino un mondo (e ambizioni e speranze) che non esiste più. Se così fosse, saremmo tutti più aridi e indifesi. Ma il mondo, ci ricordano i Taviani, è grande e terribile. E i morti, direbbe Sereni, un giorno «parleranno».
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