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diretto da Romano Luperini

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Il «terzo spazio» dei vinti

 Sono usciti gli atti del Convegno Verga e noi, a cura di R. Castellana (Annali della Fondazione Verga, Catania 2017), tenutosi a Siena nel 2016. Pubblichiamo qui la prefazione di Romano Luperini che dà conto delle diverse relazioni e azzarda una propria ipotesi interpretativa.

L’originalità di questo volume di studi, pur apparentemente accademico (raccoglie le relazioni al convegno verghiano organizzato nel 2016 dal Dipartimento di Filologia e critica della letteratura dell’Università degli studi di Siena), è il suo carattere sostanzialmente antiaccademico, suggerito, e promosso, già dal titolo, Verga e noi, che invita a collocare lo scrittore siciliano nei nostri giorni e nel dibattito attuale. E infatti i vari contributi qui pubblicati si caratterizzano  per la varietà non solo degli approcci metodologici ma anche dei modi di considerare l’attualità di Verga e il suo impatto sul mondo di oggi.  Si va dallo studio delle strategie e delle tattiche retoriche (in cui eccelle Gabriella Alfieri) a quello antropologico e tematico (Rappazzo, Lo Castro), dall’analisi narratologica  (Giovannetti) e quella sociologica  (Castellana) e storico-ideologica (Manganaro, Di Gesù, Baldini, Giglioli), mentre l’attualizzazione può essere cercata nella vitalità dei contenuti storici e tematici e/o degli approcci formali (come fanno De Cristofaro che ha anche il merito di allargare il discorso alla ricezione cinematografica e teatrale, e ancora Castellana e Manganaro). C’è poi il tentativo di applicare a Verga nuove categorie critiche per rinnovare l’approccio sociologico  (quelle elaborate da Bourdieu e da Orlando nel contributo di Castellana) e  narratologico (quelle del cognitivismo e della neonarratologia nel saggio di Giovannetti).

Per quanto riguarda questi due ultimi contributi, che spiccano per l’originalità dell’approccio,  mi pare  di notevole interesse che l’arte di Verga possa essere descritta attraverso categorie critiche, capaci di riprendere in modi nuovi ipotesi interpretative del marxismo sociologico e dello strutturalismo e del formalismo degli anni sessanta del Novecento. Quando Castellana rilegge in Mastro-don Gesualdo le descrizioni di ambiente alla luce del conflitto fra capitale simbolico e capitale economico e osserva che esse seguono «la regola della differenza sociale fra chi osserva e ciò che è osservato» coglie, con un linguaggio nuovo, un aspetto di fondo del realismo verghiano. E altrettanto si deve dire quando Giovannetti studia (e d’altronde non è qui la prima volta che lo fa) il coinvolgimento identificativo del lettore (un «lettore immersivo») dei Malavoglia o osserva (benissimo) che l’autore si colloca dentro il mondo della storia, vivendo lì coi suoi personaggi e  conducendo il suo lettore dentro la diegesi.  D’altronde ogni nuovo metodo e ogni nuova terminologia critica, se applicati nel rispetto del rapporto fra commento e interpretazioni e nella consapevolezza della loro necessaria dialettica, riescono a captare frammenti di senso precedentemente non avvertiti.

 Il contributo di Giovannetti conferma, ma anche arricchisce e approfondisce tendenze interpretative che già si erano mosse nella stessa direzione diversi anni fa, negli anni dello strutturalismo trionfante (ricordo, per fare un solo esempio, il libro di Giovanni Pirodda L’eclissi dell’autore. Tecnica ed esperimenti verghiani, 1976). Il problema emerge quando Giovannetti passa dal piano descrittivo a quello interpretativo (a cui qualsiasi critico non può mai sottrarsi del tutto, anche quando vorrebbe limitarsi alla pura descrizione o analisi). Prendiamo l’esempio del racconto Lacrimae rerum e quello del ritratto di zio Crocifisso nei Malavoglia. Giovannetti sostiene per il primo che la «percezione» dei fatti  è «anonima» e che si sarebbe di fronte «alla visione degli accadimenti da parte di qualcosa più che di qualcuno». Ma nel racconto non ci sono solo le res, ci sono anche le lacrimae, come avvisa il titolo. La prospettiva è quella della «finestra dirimpetto» e  chi guarda  non è affatto un osservatore neutrale, oggettivo o anonimo: è piuttosto un interprete partecipe e pietoso, che non si limita a descrivere, ma  compiange quella «tendina misera», quelle «ombre premurose», «ombre tacite, dolorose», che intravede nella camera del moribondo nel palazzo di fronte. La posizione del narratore non è «erasa», come vorrebbe Giovannetti. E altrettanto si deve dire per il secondo esempio, il ritratto di zio Crocifisso. Quando di lui si dice che «era la provvidenza per quelli che erano in angustie», certamente si esprime l’idea che egli ha di sé e forse anche il giudizio degli abitanti più ricchi e cinici del paese (e qui torna in mente Bachtin, che, come è noto, assai prima dei neonarratologi, sentiva risuonare nella parola del romanziere  una molteplicità di parole e giudizi altrui), ma indirettamente  si fa intravedere, attraverso l’artificio ironico dello straniamento, il giudizio dell’autore, che non coincide ovviamente con quello della voce narrante. (E non sarà forse del tutto inutile ricordare, a questo proposito, che l’impianto sociologico dei Malavoglia è mutuato dall’indagine di Franchetti e Sonnino per i quali l’usura era «il tarlo roditore della società siciliana», come si legge nell’Inchiesta in Sicilia).

Mentre Giovannetti si sottrae a un esplicito tentativo di interpretazione attualizzante, Castellana ha il merito di esporsi a questo rischio  e di indagare la direzione di senso che il titolo del convegno propone.  Anche in questo caso, però, è forse possibile discutere l’esito ermeneutico della descrizione. Siamo proprio sicuri che il conflitto fra capitale simbolico e capitale economico si risolva con la vittoria del primo sul secondo che sarebbe rivelata da un lato dalla morte e dalla sconfitta dell’arrampicatore e dall’altro dall’affare del duca di Leyra che grazie al matrimonio con Isabella può permettersi una vita di lusso e di sprechi? I dubbi di Gesualdo, osservatore impotente, ma critico, di quella vita di sperperi e di vuota cerimonialità, non sono anche quelli del lettore? Questa aristocrazia indolente e corrotta che futuro può avere? Come mai, nel profilo dei personaggi della Duchessa di Leyra che Verga ci ha lasciato, nessuno figura nobiliare si salva e tutte sono caratterizzate dal disfacimento morale e fisico? La tesi di Verga mi pare un’altra: tutti sono dei vinti, travolti del progresso, sia gli arrampicatori sociali che puntano sul capitale economico sia, a maggior ragione, la aristocrazia cittadina. Inoltre mi pare problematico anche sostenere che Verga, mostrando la capacità di affermazione della nobiltà, e dunque del capitale simbolico, prefigurerebbe una condizione attuale.  Semmai Verga anticipa lucidamente la situazione cui stiamo assistendo in questi anni:  l’azzeramento di ogni valore, non solo  del mondo nobiliare e di quello  patriarcale e contadino (già in crisi nei Malavoglia e in pieno disfacimento in Pane nero e poi nel Mastro) ma anche  dell’individualismo borghese che pure nell’Ottocento sembrava celebrare il suo trionfo.

Siamo così entrati sul terreno scivoloso della “attualizzazione”. Il termine può dare fastidio, o sembrare inopportuno a chi pratica approcci al testo che vorrebbero essere esclusivamente descrittivi, filologici o analitici, ma qualsiasi operazione critica, lo voglia o no, anche la più programmaticamente neutrale, è sempre in qualche modo attualizzante, non fosse altro perché  parla oggi di un’opera di ieri (e dunque deve giustificare in qualche modo perché questa operazione abbia oggi senso) e di necessità cala l’autore considerato in un canone attuale. Da questo punto di vista mi ha interessato, più che  l’esplicita indicazione di contenuti attuali presente in diversi contributi, alcuni spunti dei saggi di Rappazzo, di Di Gesù e soprattutto di Giglioli e di Baldini. Si tratta di lavori di taglio, come si è detto, storico, antropologico e tematico. E gli spunti di cui parlo restano perlopiù impliciti: sono vettori di senso  in cerca di una meta possibile che qui mi assumo la responsabilità di enucleare, andando consapevolmente oltre la volontà e le  intenzioni di questi studiosi.

Rappazzo considera (come fa d’altronde anche Lo Castro per Quelli del colèra)  la forza oscura e primitiva che in Libertà determina il comportamento della massa, ponendo l’accento sulla caduta in Verga delle tradizionali mediazioni (per esempio, quelle ideologiche messe in atto da Manzoni nei capp. XII e XIII dei Promessi sposi). A mio avviso, è di per sé importante appunto tale caduta, non già la condanna in sé della violenza (nella novella, almeno inizialmente, mostrata nelle sue motivazioni sociali che possono spiegarla anche se non giustificarla), e anche, in Quelli del colera, del razzismo e della superstizione su cui insiste, forse troppo, Lo Castro. Riprendendo una categoria di un critico americano, Nelson Moe, Di Gesù collega questa caduta delle mediazioni a un atteggiamento «antipittoresco» che Verga svilupperebbe in Rosso Malpelo  e nelle Rusticane, in opposizione al «pittoresco» prevalente in diverse novelle di Vita dei campi. Che poi questo atteggiamento nasca in Verga dalla adesione alla prospettiva della Destra e della «Rassegna settimanale» che denunciava le ingiustizie sociali e la mafia in polemica con la Sinistra, che invece volutamente ignora la mafia, è inessenziale ai fini del discorso che qui intendo, se non sviluppare, almeno avviare. L’atteggiamento «antipittoresco» deriva infatti dal rifiuto di assumere l’ottica dei colonizzatori (piemontesi ma anche lombardi, come mostra la politica culturale del milanese Treves, che sul pittoresco invece puntava) e dunque anche  dei lettori borghesi a cui Verga si rivolge.

È a questo proposito che mi ha interessato il lavoro di Baldini che infatti più si avvicina (ma con limiti di cui dirò) all’obbiettivo del mio discorso. Sostiene Baldini che Verga non ha una concezione organicistica della nazione e questo lo differenzia nettamente da Villari, Franchetti,  Sonnino e dagli altri primi studiosi della questione meridionale. Verga avrebbe in mente un’identità nazionale plurima, «un’Italia plurale», e infatti respinge l’ottica della dama incapace di capire il mondo dei pescatori in Fantasticheria e nello stesso tempo può dare voce a quella arcaico-rurale del popolo di Aci Trezza e nel contempo  prenderne le distanze attraverso lo straniamento. Il «relativismo morale» di Verga consiste nel rispettare i diversi orizzonti di senso dei gruppi sociali che di volta in volta descrive. Mentre Franchetti e Sonnino «abbandonano i principi politici liberali», Verga sarebbe (si direbbe) più liberale di loro. È qui che il discorso di Baldini rivela il limite della terminologia “occidentale” o “americana” (dei colonizzatori, direbbe Moe). Verga non è affatto più liberale di Villari, Franchetti e Sonnino (anzi, politicamente, dopo una prima fase di prossimità alle posizioni della Destra storica, divenne subito  un crispino illiberale e sostanzialmente antidemocratico). Era, semplicemente, diverso: in quanto artista, si riservava infatti uno spazio “altro”, che gli permetteva di non identificarsi né nei personaggi del popolo, né nei lettori borghesi, né nella nobiltà, ma di assumerne criticamente (è lo straniamento), di volta in volta, i diversi orizzonti di senso. Il liberalismo non c’entra. Nel suo decennio d’oro la forza della  scrittura verghiana è quella di un progetto letterario che finisce coll’essere anche un progetto  implicitamente politico, perché è un modo di vedere la società e di proporre una prospettiva.

Giova a questo punto riprendere l’assunto di Giglioli. Il quale muove dai personaggi di Étienne in Zola e di ‘Ntoni in Verga, osservando che i due autori li screditano come fanno Manzoni e Flaubert rispettivamente con Renzo e Fréderic. Ma, a differenza di quanto accade in Manzoni e in Flaubert, l’autorità di Verga e Zola nei confronti dei loro personaggi vacilla. Essi rappresentano come immaturi i loro eroi perché devono esorcizzare l’efficacia possibile delle loro parole. Secondo Giglioli, la differenza rispetto a Flaubert e Manzoni è che Verga e Zola devono fare i conti con un mondo emergente che incalza, li minaccia e che non è più possibile ignorare né esorcizzare. In loro parla l’angoscia di essere spossessati e soppiantati, e cercano un compromesso che li rende più fragili rispetto ai loro predecessori. I loro eroi, insomma, mi pare, esprimono la stessa pericolosità sociale di un Rosso Malpelo o dei rivoltosi di Libertà; e come Rosso cercano uno spazio “altro” rispetto a quello del popolo rassegnato o dei potenti sopraffattori.

L’assenza di mediazioni ideologiche precostituite e l’assunzione rigorosa ed estrema di un metodo di scrittura (il “verismo”) consentono a Verga un atteggiamento radicale che lo induce a una libertà rappresentativa che sfugge ai parametri comuni della sua epoca, della Destra o della Sinistra di quegli anni, dei liberali o dei democratici o, tanto meno, del nascente socialismo. Nella sua opera Verga mostra l’arcaico e il primitivo, ne subisce, e ce ne suggerisce, il fascino e l’orrore (si pensi alla lettura di Libertà proposta da Rappazzo), ma ci mostra anche il moderno che incalza, il suo mito incantatore, le sue vittime  e il suo rovescio disumano e alienante. I suoi vinti sono sempre dei marginali, esuli dalla propria  classe sociale: Rosso Malpelo è un “diverso” perché ha i capelli rossi, ‘Ntoni perché tradisce le leggi della famiglia e del paese senza riuscire a radicarsi in nessun altro contesto geografico o sociale,  Gesualdo perché non è né «mastro» né «don» e risulta un estraneo sia al mondo dei piccoli artigiani e contadini da cui proviene, sia alla borghesia in ascesa, sia alla nobiltà di cui cerca invano col matrimonio di entrare a far parte; e ancora: la duchessa di Leyra non sarà mai accettata pienamente dai nobili a causa della sua origine, l’onorevole Scipioni doveva essere, anche lui, un figlio illegittimo, e infine l’«uomo di lusso», l’artista, sarebbe stato la figura estrema della diversità e della esclusione sociale. Tutti questi personaggi si muovono, o avrebbero dovuto muoversi, in una spazio diverso rispetto a quello consueto sancito dall’appartenenza a una classe o a un gruppo sociale, e al linguaggio e alla ideologia che li caratterizza. Sono degli sradicati in cerca di realizzazione, sanno parlare varie lingue (‘Ntoni quella patriarcale ma anche quella del farmacista e del giornale, Gesualdo conosce il codice contadino,  quello borghese e quello nobiliare). Vivono sulla frontiera fra mondi diversi senza appartenere a nessuno di essi. Non conoscono miti identitari se non, talora, per riconoscere di esserne necessariamente esclusi (è il caso di ‘Ntoni, ma non, per esempio, di Malpelo). Le loro partenze, ci ricorda Manganaro, sono senza ritorno. Ambirebbero a un  destino diverso. Sono, o diventano, dei reietti. Per questo sono pericolosi. E per questo, di fronte a loro, vacilla, secondo Giglioli, la stessa autorità dello scrittore borghese.  Ci parlano di tutti gli esclusi e gli esuli che dalle periferie del mondo giungono nel nostro o che dal nostro si spingono altrove (e sono già, quest’ultimi,  nostri figli). Alludono a una nuova cultura da costruire e a un rapporto sociale  da reinventare a partire dall’azzeramento di ogni valore e dalle macerie della moderna civiltà occidentale e di quella arcaico-rurale del mondo contadino e patriarcale. A partire, dunque, dalla condizione di vinti. Fra l’ottica dei colonizzatori e dominatori e quella dei colonizzati e dominati rivendicano l’urgenza di un “terzo spazio”, direbbe Homi  Bhabha (non per nulla indiano di Bombay, addottorato in Inghilterra e vissuto negli Stati Uniti). Uno spazio in cui gli eredi  di «mastro-don» Gesualdo Motta e quelli del «povero pescatore» ‘Ntoni Malavoglia, gli esuli e i marginali dell’Occidente e quelli dell’Est e del Sud del mondo, possano incontrarsi e dialogare, senza identità precostituite da difendere, e incrociare linguaggi, costruire nuove comunità su nuovi valori. Un’utopia, si dirà. Ma forse qui sta l’attualità più vera, e nascosta, di Verga: nel prendere atto duramente di una distruzione (è il suo radicale pessimismo) e nel far intuire la possibilità di un nuovo fragile spazio fra le macerie in cui vinti ed  esclusi possano trovare una voce ed esprimere i loro orizzonti di senso. I grandi maestri del sospetto e del pensiero critico-negativo, a partire da Machiavelli e da Marx (ma anche dal Leopardi della Ginestra), ci hanno  insegnato lo stretto legame fra pessimismo dell’analisi e prospettiva utopica. Non c’è sventura, sosteneva Benjamin, che non abbia implicita una chance.

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