La grande scommessa: l’apocalisse del sogno americano
Il crollo del mercato mondiale ha influito direttamente sul cinema, non solo dal punto di vista estetico, ma anche sotto l’aspetto finanziario, portando alla contrazione delle produzioni e ad accorpamenti produttivi e di distribuzioni. La crisi è quindi un soggetto privilegiato da portare sui grandi schermi. Hollywood tuttavia non sembra aver colto la sfida, preferendo rappresentazioni trasversali e allegoriche. Nella proliferazione di superhero movies troviamo la mediazione tra istinti superomistici e incubi apocalittici, che introiettano paure collettive, mai portate ad uno stadio realmente conscio.
Prima della guerra dei mondi però c’è stata la guerra per la casa. Ed è proprio l’abitazione domestica il motore principale de La grande scommessa, titolo originate The Big Short, del 2015, uno dei pochi film che affronta direttamente la crisi economica contemporanea. Il film, tratto dall’omonimo libro di Michael Lewis e diretto da Adam McKay, si concentra in particolare sul crollo del mercato immobiliare, scatenato da un sistema bancario fraudolento. La scelta di concentrarsi su “la casa” risponde all’esigenza di mostrare l’apocalisse del sogno americano, attraverso uno dei suoi simboli per eccellenza.
La grande scommessa inizia nel marzo del 2005, quando un gruppo di outsider arrabbiati scopre la fragilità del sistema immobiliare americano. La grande scoperta è realizzata da Michael Burry (Christian Bale), il titolare di un fondo d’investimento sopra le righe: legge Le cronache di Shannara, ascolta i Metallica, suona la batteria e ha un occhio di vetro. Nonostante la parziale cecità, Burry vede la situazione meglio dei broker di Wall Street. Il sistema dei mutui subprime, ovvero ad alto rischio, è una bomba pronta ad esplodere, trascinando nella povertà milioni di cittadini. La scelta di Burry è semplice quanto cinica: decide di scommettere proprio sulla crisi. In sostanza se il mercato crolla, lui diventerà ricco (alla fine avrà un aumento di capitali del 485%). Nella sfida contro le banche si uniscono un team di affaristi guidati dal trader Mark Baum (Steve Carell) e due giovani investitori, Geller e Shipley, aiutati da un banchiere in pensione (Brad Pitt in veste di attore e produttore). I personaggi sono lontani dalla classica estetica del broker in giacca e cravatta, con Rolex e autista: sono demodé, casual, al limite del trasandato. Il film pur beneficiando della codificazione cinematografica dell’uomo d’affari, ne rielabora l’estetica, giungendo a un significativo ribaltamento. Con La grande scommessa infatti finisce l’epoca dei “Gekko” di Wall Street (il film di Oliver Stone del 1987): gli uomini della finanza furbi e spietati, ora diventano avidi e senza nessuna logica. Il profitto non si ricava più da solidi investimenti, ma dalle scommesse e dalla truffa, e la società che tanto si affanna a lodare banchieri e broker -ricorda il personaggio di Steve Carell- si è dimenticata che frode è sinonimo di stupidità. Il sogno di ricchezza del neoliberismo assume così tratti distopici e semi-apocalittici: gli uomini in giacca e cravatta tre anni dopo trascineranno il mondo nel caos.
Alla fine del film lo spettatore non trova nessuna sintesi finale. Distante dalle logiche dei film corali i destini di Burry, Baum, Gerry e Shipley non si incrociano; ognuno continua con la propria vita, cosciente di essere parte del sistema, di un meccanismo corrotto e autodistruttivo. La “grande scommessa”, sia che porti soldi o no, non è vinta da nessuno perché come ricorda Burry: «questo business uccide quella parte di vita che è essenziale, la parte che non ha niente a che vedere con gli affari», «è come se i tuoi organi si fagocitassero».
Lo spettatore è portato direttamente nel cuore della crisi, nel momento in cui questa si realizza, ricostruendo l’iter economico con un linguaggio realistico e tecnico. Per agevolare la comprensione dei termini siglati e complessi, il regista utilizza una serie di strategie tese a spiegare ed ad allentare la tensione. Ad esempio attraverso delle sequenze meta-cinematografiche, le attrici Selena Gomez e Margot Robbie, nella parte di loro stesse, spiegano direttamente al pubblico cosa siano i CDO, i mutui subprime e simili. McKay dirige un film dinamico, con un montaggio veloce, unendo elementi eterogenei come video musicali e filmati di repertorio. Il tutto è completato dall’uso massiccio della camera a mano, che cattura spesso i volti degli attori, per ricreare un effetto realistico che molto prende dal genere documentario. L’unione tra commedia e tragedia, inoltre, introietta il senso apocalittico non ancora metabolizzato dai personaggi, della loro euforia incosciente e vuota; solo nelle ultime scene è chiara la sconfitta.
La focalizzazione sul mercato immobiliare permette di conferire al film un taglio meta-cinematografico: le speculazioni finanziarie hanno infatti demolito uno dei pilastri della cinematografia americana mainstream, ovvero la casa. L’abitazione domestica a più piani, con verdi pratini, rappresenta nell’immaginario collettivo il traguardo di tutta una vita. È il luogo accogliente, di protezione, identitario per il cittadino medio: «nessun posto è bello come casa mia» esclama Dorothy alla fine de Il mago di Oz. Negli anni ottanta è avvenuto appunto il coronamento del gran sogno borghese americano, da esportare e vendere in grande quantità e il cinema americano è servito come grande piattaforma propagandistica. La situazione non è però lineare e cristallina, neppure nella cinematografia di massa. Il genere horror-thriller, aperto ad influssi politici, aveva infatti demolito lentamente gli stereotipi borghesi. Da Psycho di Hitchcock (1960), archetipo di tutte le case maledette, passando per Carpenter e Wes Craven l’idilliaco sogno americano della casa, iniziava a manifestare spiragli inquietanti, presenza demoniache, pazzi assassini, fino a due ladri da strapazzo, stroncati da un bambino di otto anni. In particolare sotto l’egida di Steven Spielberg sono stati prodotti due cult degli anni ottanta: I Goonies (1985) e Poltergeist (1982). Saranno anche due film e due generi diversi (avventuroso adolescenziale e horror), ma entrambi pongono al centro sempre la casa sotto due angolazioni: nel primo la casa è da salvare, perché luogo dell’anima, identitario per i bambini protagonisti e un’altra da abbandonare più il fretta possibile, in quanto maledetta e infestata.
Il cinema, anche nella sue manifestazioni più pop, ha sempre percepito la fragilità del sistema capitalistico, le sue contraddizioni ossimoriche: erano rappresentazioni allegoriche e fantasiose ma presenti. Ora il cinema può servirsi di storie vere, in cui il dramma è tangibile. La grande scommessa si conclude il 15 settembre 2008, quando tutto il mondo guarda i dipendenti della Lehman Brothers uscire per sempre dalla banca con uno scatolone in mano: è l’inizio del «doomsday».
Per quanto pochi siano i film americani che hanno affrontato la crisi, un precedente importante è Margin call, diretto da J. C. Chandor e interpretato da un cast d’eccezione (Kevin Spacey, Paul Bettany, Demi Moore, Jeremy Irons e Stanley Tucci solo per citare i nomi più noti). Cronologicamente ci troviamo poco prima de La grande scommessa: è la notte in cui i dirigenti di una banca (si tratta della Lehman Brothers, mai nominata esplicitamente) si rendono conto del crollo imminente. Nel giro di poche ore decidono di creare mutui subprime, in poche parole vendere spazzatura ai clienti, truffarli, per potersi salvare. Come ne La grande scommessa i banchieri hanno speculato sul sogno americano della casa, anche in questo film i broker sfruttano il sistema consumistico: «la gente vuole vivere con macchine e ville che non può permettersi» afferma il personaggio di Paul Bettany. Per questo il sistema si deve mantenere intatto.
Margin call è una tragedia elegante, in cui la fotografia gioca sulla scala dei grigi, dando vita ad atmosfere metalliche e asettiche. Chandor struttura la pellicola attraverso l’antitesi cane-lupo, rappresentata dai broker Spacey e Irons. Spacey, per quanto conservi durante il film una coscienza, alla fine cede al lato bestiale e selvaggio della finanza, accettando di vendere titoli tossici: si trasforma in lupo. Emblematica è la scena finale, in cui Spacey seppellisce il suo cane nel giardino, fatto precedentemente sopprimere: metafora esistenziale della fine della sua onestà e della sua fedeltà verso gli altri.
Accanto a questi due film bisogna citare The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese del 2013. In questo caso abbiamo la presenza dirompente del personaggio di Di Caprio, Jordan Belfort, un giovane dotato di talento e intraprendenza, che realizza la scalata verso il successo. Il film è coronato dalla regia di Scorsese che esagera l’esagerabile in un tripudio di sesso, droga e soldi. La pellicola è colorata, lunga (180 min.) e a tratti ripetitiva al fine di rappresentare la meccanicità logorante del capitalismo che priva l’uomo degli affetti, della gentilezza, degradandolo a bestia. L’unione di humor (nero), cinismo e pathos di The Wolf of Wall Street è fondamentale, senza La grande scommessa non sarebbe stata possibile.
Dal tragico Margin Call, passando per The Wolf of Wall Street, si è giunti a La grande scommessa, smascherando le truffe e la bestialità del sistema economico-capitalistico. Tuttavia allo spettatore rimane solo il senso di sconfitta: la scoperta di un mondo orribile e impunito. Purtroppo come recita la canzone Wolves, colonna sonora di Margin call: «there’s wolves in the house».
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