Furori modernizzatori e resistenze del classico
È da un po’ che Luigi Berlinguer, quello che ha introdotto nell’università la ferita mortale del 3 + 2 (la pratica contabile dei crediti negli atenei-azienda), ha ricominciato a frequentare come maître à penser l’accademia. Non pago di aver messo mano in modo fallimentare all’ordinamento universitario ed evidentemente immune da ogni barlume di dubbio sul disastro prodotto con la colpevole complicità del mondo accademico, l’ex ministro del governo Prodi ha ripreso a praticare il suo solito guizzo di regalare opinioni ed expertise su riforme, programmi scolastici e reclutamento dei docenti. È stato in prima linea a fornire il suo autorevole sostegno alla pedagogia neoliberista della “Buona scuola” renziana: l’annientamento del valore della cooperazione e del lavoro cognitivo, la precarizzazione dell’insegnamento, la liquidazione dei diritti intesi come privilegi, il rafforzamento autoritario delle figure apicali sono apparsi al Nostro come fole di docenti e studenti «nostalgici della scuola iper-centralista» e contrari a una riforma «moderna» che decentralizza.
Se ormai non può più stupire che un simile baluardo della cultura d’impresa di sinistra sia invitato ai convegni della CGIL, tanto meno è fuori luogo la sua presenza nel comitato promotore del Convegno di studi sul liceo classico del futuro (tenutosi al Politecnico di Milano lo scorso 28 e 29 aprile), che ha visto nel ruolo di gran cerimoniere niente meno che Armando Massarenti, responsabile del supplemento culturale de «Il Sole 24ore» e fautore militante di una “costituente della cultura” a misura di Confindustria. Lo spiegamento di forze è stato quello delle grandi occasioni per cui l’assise, apparentemente neutra e neutrale, dei relatori istituzionali (funzionari del MIUR per lo più e l’ineffabile ministra Giannini, poi assente) si è giovata del supporto di Lucio Fontana, direttore del Corriere della Sera ed esponente di primo piano della stampa mainstream, oltre che, tra i partecipanti alla tavola rotonda, di una figura molto ben connotata come Alessandro Schiesaro, il latinista suggeritore della riforma universitaria del governo Berlusconi.
Questo riconoscimento postumo alle glorie dell’ex ministro, abituato alla vita nobile del parastato, è ulteriore riprova, per chi non ne avesse già avute abbastanza, della contiguità profonda dell’establishment della “sinistra” (vecchia o nuova che sia) con il disegno strategico “modernizzatore” dei confindustriali: l’“apertura al territorio”, l’“avvicinamento alle aziende”, la “partecipazione dei privati” (cui va ricondotta, in tutta evidenza, la genesi dei famosi «sprechi» agitati strumentalmente dai vari governi all’opinione pubblica: proliferazione abnorme di corsi di Laurea e sedi universitarie periferiche e dequalificate) hanno costituito il mantra di tutte le riforme dell’istruzione da Luigi Berlinguer a Mariastella Gelmini e conoscono oggi, nell’era Renzi, uno scintillante rilancio in nome del consolidato rapporto tra formazione e interessi privati. Non va tuttavia taciuta la presenza, in questo laboratorio programmatico, di alcuni studiosi di vaglia, per lo più classicisti, tra cui Luigi Capogrossi Colognesi e Maurizio Bettini (una menzione a parte merita il linguista Serianni nei panni di improvvisato esperto di Virgilio). Segnali di questo tipo attestano limpidamente come l’egemonia culturale neoliberista emerga per le strade più inaspettate diventando la forma di vita in cui si danno oggi tutte le relazioni sociali e culturali.
Questa necessaria premessa fornisce –per usare lessico e concetti cari a molti relatori– le informazioni co-testuali ed extra-testuali necessarie a interpretare al meglio il “testo” delle affermazioni che si riporterà in seguito.
Chi non era presente al Convegno (colei che scrive tra questi), ha modo di ascoltare gli interventi dei relatori –ma non la tavola rotonda– su youtube. L’impressione che se ne ricava è quella di un orizzonte intellettuale sostanzialmente uniforme, che ha introiettato il linguaggio ormai naturalizzato del management culturale adoperato con disinvoltura dai funzionari del ministero e forzosamente applicato anche al curriculum scolastico che più di altri sembra resistere a questa deriva (profili di occupabilità, competenze utili e spendibili nel mondo del lavoro, miglioramento delle performance del sistema educativo, agenzie nazionali, certificati Europass, alternanza scuola-lavoro, potenziamento dell’apprendistato). Di fronte a questa rimasticatura di dogmi ideologici neoliberisti, i relatori non ministeriali appaiono imperturbabili o perfettamente a loro agio (quasi esistesse un campo unitario e ‘neutro’ della cultura); questa la direzione già percorsa con l’ipotesi di riduzione di un anno del curriculum scolastico, assai caldeggiata da Berlinguer e in fase di sperimentazione in alcuni licei classici (per così dire) di avanguardia: se non è più tempo di consentire alle giovani generazioni il lusso dello studio, tanto vale che gli studi umanistici si convertano, armi e bagagli, all’idolatria della professionalizzazione e si adoperino per fornire alle imprese manovalanza dequalificata e sottopagata. E tuttavia, nella prima giornata di convegno, dopo le giaculatorie di rito sulla crisi delle materie umanistiche e il calo di iscrizioni al liceo classico spicca, per sincerità eversiva, una clamorosa affermazione di Luigi Berlinguer: «Alcune cose vanno nettamente superate […] Diciamolo al Ministro che la seconda prova, la versione, va cancellata. Energicamente!». Il che implicherebbe, ovviamente, l’eliminazione, altrettanto energica, della lingua greca e latina dalle discipline curricolari del liceo classico, data la diffusa, grigissima pratica –non certo imputabile ai docenti– di orientare lo studio delle materie alla struttura delle prove di valutazione (Invalsi o, a maggior ragione, esame di stato). Questa ingombrante esternazione ha in verità causato più di un imbarazzo, ma è francamente faticoso interpretare il passaggio centrale del discorso di uno dei promotori dell’incontro come la scherzosa boutade di un personaggio che non si è mai propriamente segnalato per sobrietà e pacatezza. E dunque, in assenza di pubbliche smentite o chiare prese di distanza, ci si dovrà rassegnare a valutare tutta l’ufficialità (e gravità) di una simile affermazione, assolutamente coerente con i pessimi provvedimenti o le preoccupanti dichiarazioni fatte in passato dallo stesso Berlinguer (il taglio efferato della storia antica dai programmi scolastici o la ventilata opzionalità dello studio del greco al liceo classico).
Stupisce, in primo luogo, che (ancora una volta nella storia –non certo edificante– del dibattito pubblico su formazione e ricerca nel nostro Paese) non vengano colti in alcun modo i nodi di fondo che strozzano la possibilità stessa di costruire una credibile piattaforma politica complessiva: lo scenario di un drammatico definanziamento (gli insegnanti con i salari più bassi d’Europa, l’introduzione del cottimo produttivo in base al rendimento, l’inesistenza del diritto allo studio), il nesso tra valutazione e taglio delle risorse, l’uso politico della «meritocrazia» e la sperequazione territoriale e sociale tra scuole del Nord e scuole del Sud, tra ricchi e poveri. Come il liceo classico possa essere una monade e ci si possa incaponire a parlare di crisi delle discipline umanistiche al di fuori di questo drammatico scenario strutturale resta incomprensibile.
Sulla dichiarazione di Berlinguer andrà detto, preliminarmente, che la trovata pecca di originalità: già un intellettuale del calibro di Bruno Vespa si è prodotto qualche anno fa su «Panorama» (n. 6, 1 febbraio 2012, p. 31) nell’identica, dilettantesca e sgangherata opinione: «Un corso sulla magnifica civiltà greca (la politica, la letteratura, le arti) è d’obbligo al liceo classico». Epperò «la lingua è troppo ostica per la maggior parte degli studenti perché possano mai assaporare davvero in originale i versi di Omero, i Dialoghi di Platone, le commedie di Aristofane, le favole di Esopo». E dunque, con lieve variante rispetto all’ex ministro: «Sostituire lo studio della lingua greca con quello di una lingua moderna può essere soltanto di giovamento ai nostri ragazzi».
Non si tratta qui di voler escludere e sanzionare la possibilità di problematizzare l’orizzonte complesso della conoscenza: è senza dubbio salutare e vivificante ripensare i valori che si decide di trasmettere, attraverso le istituzioni scolastiche, alle generazioni successive. Ma questa possibilità presuppone il riconoscimento di un orizzonte alto della cultura, che mette chi ne faccia esperienza in condizione di collocarsi alla sua stessa altezza per accogliere o per respingere quei valori. In questo caso, invece, la discussione ha imboccato un crinale modesto e intervenire nel merito di una sciocchezza madornale è persino imbarazzante: come se si mettesse in discussione lo studio serio (e la seconda prova) della matematica al liceo scientifico. Non mi risulta siano state formulate ipotesi in tal senso. Se il problema viene sollevato per le discipline classiche è perché, in fondo, le si considera saperi inessenziali alla formazione che conta davvero (quella delle competenze professionali) e si relega al ruolo di chiacchiera da salotto, lo studio dei classici: non più che una preparazione alla inevitabile fruizione del bello di massa dei media e dei social, meglio se affrancata dal vecchiume archeologico che trasuda la lingua. Non a caso sempre sulla conoscenza linguistica, individuata da Berlinguer come spettro del retaggio classista del liceo classico, si avventano da sempre con l’ascia i detrattori delle discipline classiche (Andrea Ichino in testa), tutti, evidentemente, di comprovato egualitarismo. Andrà forse sommessamente replicato che già Antonio Gramsci e poi un filologo materialista e “leopardiano” come Sebastiano Timpanaro hanno scritto pagine memorabili su come non si possa barattare l’arduo ma irrinunciabile tirocinio linguistico con un po’ di antropologia e cultura dell’antico: questo perché il percorso, via via sempre più acuminato e coerente, che porta a conoscere una lingua morta, inscritta in una realtà che si conquista con impegno e fatica, si recupera pezzo dopo pezzo e che in gran parte ci sfugge, è tanto più difficile perché esige un salto di astrazione dalla semplice successione delle parole al senso complessivo di ogni periodo, ma è, al tempo stesso, un’esperienza conoscitiva unica e insostituibile, che bisogna lottare perché sia consentita a tutti. L’amorevole premura di preservare i più giovani dalla innegabile difficoltà di interpretare e capire un testo antico è un regalo avvelenato che cela molti degli inquietanti propositi di trasformazione della scuola e dell’università che sono nell’aria e la volontà di annullare non la cultura umanistica in favore di quella scientifica quanto i saperi teorici a tutto vantaggio di quelli applicati. Tanto più autoritario appare questo intendimento, in un curioso connubio di liberismo selvaggio e controllo dei destini individuali e collettivi, quando nega la possibilità stessa di studiare le lingue antiche nelle loro sottigliezze e sfumature all’interno dell’unico curriculum scolastico pubblico (tra i tanti esistenti) in cui questo è ancora consentito. Quando questo progetto sarà compiuto, si può esser certi che chi può avrà a disposizione il college privato in cui studiare a dovere le lingue classiche e chi annaspa capirà da subito e senza equivoci che il liceo classico è roba da ricchi e dovrà accontentarsi, tutt’al più, di qualche briciola di cultura.
E tuttavia, l’impressione è che le vere insidie non vengano da questa ipotesi di eliminazione, del tutto irricevibile e inemendabile, bensì proprio da quelli che si configurano come tentativi di mediazione. Nell’intervento di Maurizio Bettini, che adotta un registro di sobrietà e ragionevolezza, la richiesta è di un ridimensionamento della versione per la seconda prova degli esami di maturità con aggiunta di domande di comprensione e contestualizzazione del testo. Ma si capisce bene che l’aspirazione è a sostituire la ‘traduzione’ con un esercizio di ‘comprensione’ e risposta a domande (il suggestivo richiamo è certamente al dato che tradurre si dice “enarrare”, cioè “narrare fuori”, ma la lingua in cui si “enarra” non deve essere la stessa del testo di partenza? A rigore di significato la seconda prova dovrebbe essere una “enarratio” del testo proposto fatta in greco o in latino!). A parte la certezza che nella concreta prassi ministeriale questa sollecitazione teorica sarebbe affidata a una prova banale e mortificante (il commento al testo è roba da prova di dottorato o da quiz televisivo), le perplessità che suscita il superamento del nerbo culturale forte sotteso alla pratica ‘novecentesca’ della versione sono le stesse che sollecitano tutti i proclami di cultura (e società) ‘morbida’ o ‘liquida’: la resa senza condizioni alla modestia dei tempi ‘post culturali’ (e ‘post ideologici’). Non si comprende, peraltro, in che modo la versione tradizionale si discosti dalla ‘comprensione’ di un testo: i complessi significati linguistico-culturali sottesi a qualsiasi traduzione non includono già processi di negoziazione e di riscrittura? Non presuppongono come condizione ineliminabile l’inquadramento “culturale”, oltre che grammaticale e sintattico, del testo che si è chiamati a rendere in una lingua moderna? È, d’altra parte, persino un’ovvietà che i modelli culturali e i sistemi di valori siano inscritti nella lingua, nella morfologia lessicale, negli usi e nelle metafore concettuali: superare la barriera linguistica consente di attingere alla civiltà e alla cultura della classicità, ma passa necessariamente dall’acquisizione, senza scorciatoie, di competenze formali, tecniche e specialistiche (che la seconda prova dell’esame di maturità, così come concepita attualmente, si incarica di verificare, lasciando al colloquio orale, ma anche in parte allo scritto di italiano, il giudizio sulla più ampia capacità di comprensione della civiltà del mondo antico nei suoi rapporti con la modernità). Anche laddove –e non è il mio caso– non si voglia considerare l’asprezza del tirocinio linguistico come un valore in sé (una forma di resistenza all’assenza imperante di rigore e alla tragica illusione di una vitrea impermeabilità al senso), bisognerà ammettere che si tratti comunque di un passaggio ineludibile. A meno che non si voglia consegnare ai più giovani, attraverso parafrasi e traduzioni moderne, una conoscenza di seconda mano, e dunque dogmatica e impoverita, di quel mondo; un mondo che visto attraverso il contatto diretto con i testi è molto più sfaccettato e contraddittorio, meno edificante e consolatorio di quanto una mal riposta enfasi sulla ricostruzione storicistica si incarichi di far credere: spiritualista o materialista, eversivo o repressivo, ascetico o il suo esatto contrario, a seconda dei pezzi di documentazione cui ci si accosta e attraverso cui si mette alla prova la capacità di cogliere le differenze. E non me la sentirei di escludere in assoluto che possano esistere giovani menti che intendano dedicarsi in futuro allo studio della filologia: in quel caso auspicherei senz’altro che la scelta iniziale non sia dettata dal censo.
Non si vuole qui negare che esista l’esigenza di aprire nuove strade alla comprensione storica del mondo antico e di reimpostare su nuove basi il problema del rapporto fra passato e presente (ricongiungendo la specializzazione con quel desiderio di critica e di conoscenza che dall’ambito linguistico e letterario possono ripartire ed estendersi alla complessità del mondo esterno). Né si vuole minimizzare il persistere di impermeabili ripartizioni disciplinari tra materie scientifiche e materie umanistiche, specchio di quella reciproca incomprensione tra le due culture che ha contribuito a confinare il nostro Paese ai margini del dibattito culturale internazionale. Per superare questa chiusura e recuperare almeno nelle intenzioni la straordinaria vitalità di un pensiero che si alimenta di una feconda integrazione tra saperi (da Galileo a Bernard Russell) bisognerebbe almeno fornire la percezione di quanto fondante sia la componente teorica (ed estetica) nella creazione scientifica che non si traduca in mera tecnica strumentale. E predisporre qualche agile correttivo didattico, peraltro già applicato con efficacia in tanti licei classici almeno sino a quando la riforma Gelmini non ha bloccato ogni sperimentazione.
Ma bisogna avere chiara consapevolezza che la volontà di ricomporre la frattura tra le esigenze dello studio dei classici e l’apertura alla modernità è operazione che richiede estrema cautela. E altrettanta consapevolezza è necessaria per tradurre in impegno conoscitivo coerente quelle potenzialità e quella domanda di rinnovamento, che, prive del necessario rigore, rischiano di aprire il varco al drastico ridimensionamento dello studio della lingua nell’unico percorso liceale che ancora lo prevede. A quel punto dello studio dei classici, ridotti a cialtroneria impressionistica, resterà ben povera cosa. Agli studenti “nostalgici” che ancora invocano il diritto allo studio e alla conoscenza non resterà che imparare dai loro docenti le competenze del terzo millennio: pensiero unico, flessibilità, precarietà, silenzio.
Fotografia: G. Biscardi, Museo archeologico regionale Antonio Salinas, Palermo 1994
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Docente di Liceo Classico
Ho letto e apprezzato l’articolo di Tiziana Drago, una valente studiosa del mondo classico che ho personalmente conosciuto a Firenze nel settembre 2013, in occasione di un Convegno Internazionale su Menandro e la commedia greca, al quale io stesso ho partecipato come relatore.
Per quanto riguarda i problemi dello studio delle lingue e civiltà classiche nella nostra scuola, ed in particolare nel Liceo Classico, vorrei segnalare il mio blog personale, nel quale ho scritto diversi post sull’argomento. Senza nulla togliere ai docenti universitari, mi pare tuttavia che l’opinione di un docente di Liceo, che insegna latino e greco da oltre trent’anni, possa interessare chiunque si affaccia a questo dibattito.
L’url del blog è: https://profrossi.wordpress.com
liceo classico e buona scuola
Grazie di cuore a Massimo Rossi, che ho conosciuto in una bella occasione di confronto (e di interazione) scuola-università. Il mio intervento sta suscitando sui social molte reazioni (alcune di fastidio, altre di condivisione) e un dibattito mi auguro costruttivo, che purtroppo non mi è riuscito di “trasportare” su questo blog. Quello che mi è particolarmente a cuore è il nodo che lega una formazione scolastica pubblica e qualificata alla dimensione collettiva (e liberatoria) del sapere. Tutto questo, a mio avviso, sta per essere spazzato via dalle proposte emerse dal convegno di Milano. Sto leggendo con particolare piacere i commenti dei colleghi di scuola secondaria perché lasciano trasparire grande consapevolezza (e maturità) politica, oltre che culturale. La stessa che constato quotidianamente lavorando insieme ai docenti dell’Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica: quei docenti che hanno combattuto la legge 107, che hanno proposto una legge di iniziativa popolare che sostituisca la Buona Scuola, che hanno portato avanti il referendum di Bologna sulle scuole paritarie, che combattono i test Invalsi, che animano il dibattito pubblico del nostro sventurato Paese. Questi docenti, pur sottopagati e neanche gratificati dalla considerazione sociale, costituiscono un argine alla minaccia dell’esclusione e fanno sì che la scuola sia ancora il luogo di costruzione di un sapere diffuso e di una cittadinanza critica. Qualche collega di università mi ha rimproverato di non suggerire ai docenti soluzioni (pedagogiche, mi pare di capire) per il rilancio del liceo classico. Confesso che indicare a questi colleghi, a questi docenti-intellettuali, le mie ricette didattiche mi parrebbe un po’ paternalistico. Anche perché ritengo, sinceramente, che il mio decalogo non farebbe funzionare meglio il liceo classico. Di “riforme” (degli esami, dei programmi, …) ne abbiamo avute già troppe: non se ne sente proprio il bisogno. Al limite ripristinerei quello che è stato sottratto: lo studio della storia antica ad esempio. La sensibilità politico-culturale e il buon senso non possono essere imposti per legge. Un docente in gamba (e ce ne sono tantissimi!!!) troverà il modo e la strada meno impervia (talvolta anche impervia) per far amare quello che egli stesso ama (e troverà il modo, ad esempio, di conciliare studio della lingua e analisi della civiltà). Il liceo classico e ogni scuola secondaria riceverà nuova linfa se ci sarà la volontà politica di immettere nei ruoli docenti che abbiano compiuto un rigoroso tirocinio sui classici (temo non ci siano scorciatoie) e, insieme, abbiano maturato la consapevolezza di poter contribuire alla costruzione difficile di un significato contro le disuguaglianze. E questo esclude, tanto per dirne una, la modalità della “chiamata diretta” dei docenti da parte dei dirigenti scolastici che selezionerà solo “i più adatti“ (per usare le parole di Renzi e Faraone), ovvero i più compatibili con le esigenze della governamentalità imposte dai vertici. Questo è il nodo politico. Le ricette pedagogiche molto molto meno. A proposito di “chiamata diretta”, segnalo anche quello che sta avvenendo in queste ore. La ‘trattativa’ tra i sindacati collaborazionisti e il Miur si è interrotta bruscamente perché l’ANP (Associazione Nazionale Presidi) si è rivolta direttamente al Presidente della Repubblica e alle massime cariche dello Stato per esigere che la 107 (la Buona Scuola) venga applicata alla lettera, garantendo mano libera ai presidi in merito alla chiamata diretta e a tutte le altre mostruosità correlate. Nessun accordo che mitighi la ferocia della deregulation che informa la 107 può essere concluso. Di questo credo sia estremamente urgente parlare.