Epifanie del padre. Su Folfiri e Folfox degli Afterhours
È successo. Ha chiuso la bocca a tutti. Manuel Agnelli, ultimo e unico Afterhours, voce di riferimento della musica italiana, aveva dichiarato che l’album Folfiri o Folfox avrebbe zittito le tante voci critiche che lo attaccavano da mesi. A far discutere è stata la sua adesione alla prossima edizione di X-Factor Italia: non come semplice ospite, ma in qualità di giudice di un programma che sta, da molti punti di vista, contribuendo ad impoverire la musica pop contemporanea. Ad aumentare il sospetto nei confronti dell’ultimo album si univano altri due fattori: la completa rivoluzione della band, che ha visto mutare tutti i suoi membri originari (tranne, ovviamente, Agnelli), e i molti limiti di Padania, un album discontinuo, freddo e ridondante, soprattutto in termini di post-produzione. Folfiri o Folfox, uscito il 10 giugno 2016, è scintillante. Oggetto raffinato e strano, ricco di ballate, ma anche di rock violento e dai toni post-apocalittici. Sguardo alla tradizione (soprattutto degli anni Sessanta), attenzione alla sperimentazione, incursioni noise, melodia, testi importanti.
Nonostante l’effetto di compattezza che si riceve da un primissimo ascolto è possibile isolare alcuni brani destinati a rimanere. Si comincia con le chitarre piene di Grande, a cui fa da contrasto la voce urlata e al limite della stonatura di Agnelli, e già inizia a delinearsi il tema che tiene assieme tutto il lavoro: la scomparsa del padre. Il titolo dell’album allude infatti ai trattamenti di chemioterapia a cui si è sottoposto il padre di Agnelli, e immagini mortifere aleggiano ovunque. «Avevamo un patto io e te / ma poi ti si è spento / dentro», così inizia un dialogo oscuro e luminoso che prosegue per diciotto brani. Eroe desiderato, immagine deludente, figura con cui intrecciare un dialogo sulla vita e sul senso della fine: «Tu giurami che noi / non moriremo mai». «La scomparsa di mio padre», ha dichiarato Agnelli in un’intervista recente, «è stato un avvenimento devastante, non ero abituato e non lo sono ancora ad un mondo senza di lui. Ma è stato anche “illuminante”: nel mio caso, mi ha costretto a diventare adulto e scegliere le cose veramente importanti». Luce e ombra che strutturano le dinamiche dei brani e che diventano i versi con cui si chiude l’album: «Oggi svegliandomi / ho realizzato che, / che tutto il resto è stupido / voglio provare a vivere / che ci sia luce oppure / sia oscurità / cammino come un uomo / e parlo come un uomo».
È soprattutto attraverso gli oggetti quotidiani che il ricordo del padre riemerge come un’epifania: L’odore della giacca di mio padre è una delle ballate più belle mai scritte dal gruppo, con la chitarra che lascia spazio al piano, agli archi e ai fiati: «Tuo padre nel suo letto / tu guardi la tv / e ti chiedi se hai risposto / ai suoi occhi con i tuoi». Lo stesso effetto si ritrova in Non voglio ritrovare il tuo nome, Lasciati ingannare (una volta ancora) e Se io fossi il giudice (che non esita a citare e reinventare un brano immenso come Non è per sempre). E il padre di Folfiri o Folfox diventa, lentamente, una figura collettiva, un’immagine attorno a cui si raccolgono tenerezza e disperazione. Uomo limitato, che diventa voce interiore non più giudicante: «Sì lo so che tu / resti dentro di me». Si legge, in questo lavoro, la necessità della cultura e dell’estetica contemporanea di ritrovare figure di riferimento dopo la distruzione, un senso che avvicina Folfiri o Folfox alle atmosfere dolci e allucinate di The Road di McCarthy («ma in questo sogno qui / noi non moriamo più / e non moriremo mai»). C’è la voglia di crescere, di costruire dal dolore, di diventare padri dopo tanti, troppi anni in cui si è stati figli: «Libero di essere più me / libero di non piacerti più / libero di buttare tutto via».
Un album di responsabilità, maturo, neo-romantico, come lo ha definito Agnelli, di certo un lavoro limpido, ricco e “comunicativo”, effetto insolito per un musicista che è stato interessato a seguire il modello del cut-up nella composizione dei testi. Ma qui non c’è più William Burroughs, la linea-guida diventa l’epifania, capace di far “esplodere dentro” gesti, odori, ricordi ed emozioni in cui si assolutizza l’attimo.
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