Come chiunque altro. Ad Alain Goussot
Mi ha chiamato da poco un’amica comune per dirmi che Alain non c’era più. Ho pensato allora di fare quel che si fa in questi casi: scrivere un ricordo, cercare un significato nella memoria. Ho acceso il computer, ma non so perché ho avuto bisogno della carta. Mi mancava l’aderenza ad una qualche superficie. Lo strofinio della penna sulla materia.
Alain divorava la vita. I libri innanzitutto, e poi i progetti, le idee, gli incontri, i viaggi. Io, stupita dalla sua energia, gli chiedevo se non fosse d’acciaio. Non era d’acciaio e la vita ha divorato lui. Il fatto è che Alain aspirava ad abbracciare tutto. Si interessava di storia, il suo primo campo di studi, di filosofia, di pedagogia, di didattica, di letteratura. Sconfinava da un ambito all’altro e non si preoccupava se nei suoi sconfinamenti perdeva l’ancoraggio dello specialista. Aveva di sé un’idea da intellettuale umanista che si doveva occupare innanzitutto dell’umanità. La pedagogia serviva a questo, e a questo servivano la scuola e l’università, in cui si impegnava anche politicamente. Caldeggiava le pratiche istituenti, un’idea di scuola come comunità di pratica e di pensiero e di insegnante come agente autoriflessivo. Coniugava in questo la lezione della pedagogia istituzionale italiana e quella dell’intellettuale engagé francese. Forse perché coerente con questa vocazione, uno dei suoi libri più belli è Pedagogie dell’uguaglianza. Saggi di pedagogia politica e filosofica (2011).
Figlio di una tradizione, quella belga-francese, in cui l’intellettuale si autorappresentava come colui che deve dire la verità, Alain amava prendere la parola in pubblico, non si sottraeva alle polemiche, ai dibattiti, ai confronti anche aspri, dentro e fuori l’università. Così, senza far calcoli, ha detto molto chiaramente la sua opinione sui Bes, sul rischio di medicalizzazione della scuola, sulla riforma della scuola, sul progetto di riforma del sostegno. Ma sempre con civiltà, senza rabbia e senza eccessi. Passioni smisurate in un uomo misurato. A me, cresciuta dentro un orizzonte post-ideologico, a volte sembrava provenisse da un’altra epoca geologica, in cui ancora era immaginabile il coinvolgimento reciproco, in cui non esisteva il senso del ridicolo nel pronunciare valori e parole forti. Non vedeva la distanza tra sé e i suoi interlocutori e se la vedeva il suo primo impulso era cercare di annullarla.
Aveva dei maestri e si poneva come un maestro. In Italia ha studiato e diffuso Ovide Decroly, Philippe Meirieu, Georges Devereux, Antoine de La Garanderie, Charles Gardou. E ancora i pedagogisti della scuola nuova e delle pedagogie della liberazione. Cercava soprattutto di far conoscere i suoi riferimenti ai più giovani. In molti, compreso chi scrive, devono a lui questo intenso lavoro di mediazione culturale. Come La difficile storia degli handicappati, rimasta un punto di riferimento per questi studi, scritta insieme a Canevaro, suo maestro e amico. Alain aveva una marcata carica utopistica: non si rassegnava a ciò che giudicava sbagliato e ingiusto e agiva con slancio. Era così pieno di futuro che mi sembra impossibile non potergli più scrivere, chiedergli un consiglio, parlare con lui.
Dopo che la mia amica mi ha chiamato, volevo chiamare un altro amico comune per dargli la notizia e invece ho chiamato involontariamente Alain, che naturalmente non poteva rispondermi. Ho riattaccato. Avrà trovato la chiamata la moglie, di cui parlava sempre con amore, o qualcuno dei suoi quattro figli, di cui mi diceva: «se anche con mia moglie avessi fatto solo loro, avrei comunque fatto una grande cosa». E ora? Ora a me sembra inghiottito dalla vita proprio chi la vita voleva divorare, per una fatalità inesorabile verso la quale nessun uomo – neppure un uomo buono, colto e pieno di desiderio – è al riparo. Ma questo lo penso io, che appartengo ad un’altra epoca. Alain avrebbe pensato diversamente, come nell’ultimo intervento che aveva spedito per la laletteraturaenoi e che ancora non avevamo pubblicato. Nell’articolo Alain parlava di Sartre e della bruttezza, io invece dedico proprio questa frase di Sartre ad Alain e alla sua bellezza:
mai mi sono considerato proprietario di un ‘talento’: la mia unica preoccupazione era di salvarmi – niente in mano, niente in tasca- con il lavoro e la fede. Di colpo questa mia scelta non mi innalzava al di sopra degli altri: senza preparazione e attrezzatura mi sono interamente messo all’opera per salvarmi interamente. Se spedisco la Salvezza impossibile nel magazzino degli accessori, cosa mi rimane? Un uomo intero, fatto di tutti gli uomini, e che vale tutti e chiunque altro.
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NOTA
La fotografia è di Luigi Ghirri.
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Editore
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Grazie Alain!
Grazie Alain per l’ultimo augurio di Buon Anno 2016 con il quale hai voluto rinsaldare il rapporto con me. Grazie per la collaborazione, per i nostri intensi incontri ed importanti scambi avuti, sfruttando soprattutto i momenti del pranzo a Modena, Bologna e in particolare all’Università a Cesena. Il confronto con te è stato sempre fruttuoso, anche se fatto di avvicinamenti e di allontanamenti che, comunque, ci hanno sempre arricchito reciprocamente per l’apporto dei nostri punti di vista non sempre convergenti ma che, anche quando erano in parte divergenti, trovavano il modo di ricompattarsi nel comune denominatore della critica alla medicalizzazione della scuola e dei BES. Mi rammarico di non aver fatto in tempo a realizzare il progetto di una Università Popolare di Pedagogia che ti avevo proposto e che aveva sollevato il tuo entusiasmo. In tua memoria cercherò di portarlo avanti come mi sarà possibile. Serberò con amore pedagogico questi ricordi nella mente e nel cuore.