1992, cosa vostra
Ammonisce Matteo Bordone, dalle colonne di «Internazionale», di lasciare in pace Tea Falco (#lasciatestaretea), finita nel mirino (ironico e in fondo anche divertente) per la sua recitazione sbiascicata, sopra le righe, per lo più espressione di una retorica e di un linguaggio che non esiste ora, e non esisteva nemmeno vent’anni fa. Eppure il problema non è la sua recitazione, né meglio né peggio di altre all’interno della serie (anzi, per certi aspetti tra le più apprezzabili). Sono altri i motivi per cui sentiamo che 1992 non è una storia che ci riguarda; che quanto accade sullo schermo è faccenda che tocca altre razze, altre classi, altre categorie. Noi insomma non c’entriamo.
Le prime due puntate sono le più belle di quest’ultimo prodotto Sky: vi compaiono l’arresto di Chiesa, l’Aids, immigrati albanesi che aggrediscono una coppia, un border-picchiatore che interviene a loro difesa, l’ascesa della Lega, Publitalia, Dell’Utri, le veline. Insomma ci sono tutti gli elementi indispensabili affinché quello rappresentato sullo schermo sia un mondo riconoscibile e conosciuto, giacché veramente abitato, da noi e dai nostri padri, nel lontano 1992. Certo, in quel mondo così vero – anche Milano, perno della storia, ha l’elemento frizzantino di quegli anni – non può che consumarsi un polpettone cinematografico, così come è accaduto in passato per La meglio gioventù, Romanzo criminale, ecc. Ma in fondo il patto con lo spettatore prevede proprio questo procedimento: la descrizione di un mondo preciso, l’Italia del 1992 (e già con qualche occhio al ’94), nel quale si strutturano storie di amicizia, d’amore, di letto (e correlati nudi, compreso quello scultoreo di Stefano Accorsi, inserito in quasi tutte le puntate: ma anche questo elemento è un dato realistico, perché restituisce il culto del corpo che ha caratterizzato gli anni Ottanta).
Ma c’è dell’altro. Nella prima scena di 1992, quella appunto relativa all’arresto di Chiesa, Rocco Venturi (un poliziotto romano malamente interpretato da Alessandro Roja) spiega al collega Pastore che il motivo per cui Magni ha denunciato il «presidente del Pio Albergo Trivulzio» («amico di Craxi e Pillitteri») «è solo perché non aveva i soldi per pagare le tangenti»; e poi aggiunge «eh… c’è crisi». La stessa crisi è quella che fa perdere a Publitalia un appalto importante, poi prontamente recuperato da un aitante e vorace Stefano Accorsi; ma è soprattutto quella realmente vissuta dallo spettatore medio di 1992, che nell’estate di quell’anno, a luglio, vide penetrare la mano statale nel proprio conto corrente per un prelievo forzoso e indispensabile (a cui seguì una finanziaria di assoluta austerità).
Insomma nelle prime due puntate l’incontro con Di Pietro, Davigo e Colombo (e anche Borrelli), con Craxi, Tognoli e Pillitteri, con Dell’Utri e Berlusconi, con Bossi, Maroni e Patelli (quello che indagato dichiarò: «Sono stato un pirla!»), con la Cuccarini, con la crisi economica, con la Porsche di Accorsi, con l’eroina che lascia il campo alla cocaina, ecc. ci impone inequivocabilmente di riconoscere quello di 1992 come il nostro mondo: quello in cui compravamo serenamente i bot al 14%, chiedevamo all’uscere ministeriale la raccomandazione per il figlio diplomato, declinavamo la ricevuta (un po’ per risparmiare, un po’ per solidarietà con il commerciante), continuavamo imperterriti a guardare Domenica in (magari nella versione pseudo-riculturalizzata avviata nell’’86 da Mino Damato; e anche questo particolare è rievocato nella serie).
Poi tutto scompare. La vicenda di Di Pietro, che pure implicitamente dà il titolo allo sceneggiato, si colloca sullo sfondo (diventando non uno specifico contesto storico-geografico, ma uno scenario tra gli altri), rimpiazzata dalle esperienze private di Notte, Pastore, Minaghi, Castello, ecc. Ma soprattutto queste vicende, oltre ad essere inverosimili, eccezionali, fuori da ogni immaginabile ordinario (il poliziotto Pastore che va a letto con figlia dell’imprenditore ospedaliero, che comprando sangue infetto lo ha condannato all’AIDS; Notte che prima si sfoga con Venturi per l’omicidio commesso, e poi lo uccide; ecc.), si incrociano dando vita ad un mondo chiuso e impenetrabile, oltre che alieno perché incredibile; un mondo talmente immaginario che relega lo spettatore a mero osservatore dall’esterno.
In fondo non ci sarebbe nulla di catastrofico in tutto questo, a parte ovviamente l’occasione mancata. Ma il fatto che questa estraniazione dalle vicende raccontate si consumi in riferimento all’annus mirabilis et horribilis del 1992 assume una precisa valenza ideologica e politica. Lo spettatore infatti esperisce un senso di lontananza, e dunque di innocente estraneità, nei confronti di una vicenda che pur avendo avuto dei responsabili politici ben definiti, e dei colpevoli identificati, è comunque una tragedia collettiva, di cui – non fosse altro in rispetto ad un certo Zeitgeist che inevitabilmente ci guida – non possiamo non sentirci correi. 1992, costruendo un mondo chiuso e autoreferenziale, ci esime dal pagare questo dazio, consegnandoci invece l’illibata condizione di chi non ha colpe, di chi non c’era, di chi non poteva sapere, e in ogni caso di chi non aveva accesso al mondo in cui tali crimini si commettevano. Ci sarebbe tutto lo spazio mentale per dire che quanto accaduto nel ’92 (e per analogia nei quattro lustri seguenti) è “cosa vostra”, e che noi non c’entravamo: lo spazio insomma per riconquistare una beata verginità. Ebbene, è proprio questa verginità, frutto di voluta e immorale impotenza, che invece deve essere, in maniera risoluta, restituita al mittente.
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