Più applaudi, meno muori. Lettere dalla Corea del Sud/5
Quando aveva sei anni, CiderBough ha deciso di cambiare nome. Prima si chiamava AppleBough, ramo di melo, e si era trascinata questo battesimo fruttato lungo tutto il suo passato di bambina piccola piccola, ambientato in una California abbagliante, ma poi è successo qualcosa, qualcosa che non ha voluto dire, e di schianto il melo si è tramutato in cedro: CiderBough. Sì, proprio un cedro, perché i cedri hanno una proprietà speciale, che li fa assomigliare agli affetti del cuore, ha spiegato lei – e poi ha citato Khalil Gibran: «Se l’albero perde un ramo robusto soffre, ma non muore. Riversa tutta la vitalità nel ramo accanto, perché possa crescere e riempire il posto vuoto».
Vorrei averla conosciuta prima questa donna, pensavo ieri in autobus mentre mi raccontava la sua storia, che poi è una storia mutila perché non so niente del ramo seccato, non so niente delle sue lacune, niente. Quello che so è che a sei anni ha cominciato a firmarsi CiderBough invece di AppleBough e che poi piano piano tutti si sono dimenticati del suo nome vecchio e lei non ha avuto bisogno neanche di andare all’anagrafe e trasformare il capriccio in legge. Tanto ormai la memoria del melo era marcita per tutti.
E mentre parlava io cercavo di immaginarmi un ramo di melo e uno di cedro a confronto, in uno scontro di cortecce e linfa che dalla botanica si inietta nell’onomastica. Ma ieri non c’era neppure un po’ di traffico, la strada era liscissima e senza clacson, sembrava che pure i semafori fossero svaniti e siamo arrivate a Seoul in meno di un’ora e prima questo non era successo mai, proprio mai. Così incredule siamo scese, ma talmente in fretta che la scatola californiana dei ricordi è rimasta dentro l’autobus 1150 e quando abbiamo appoggiato i piedi sul marciapiede, un marciapiede sfregiato dalle otto corsie del raccordo di Hannam-Dong, siamo di colpo ritornate presenti.
C’era anche Sara con noi due, perché voleva vedere la caffetteria vegana idolatrata da Ciderbough. Essere vegani in Corea non è più così difficile com’era in passato, un passato neppure troppo remoto: quindici anni fa. Oggi al supermercato si trova anche l’aceto balsamico e il rosmarino secco, frantumato in tanti aghetti conservati in un’ampolla di vetro, ma quindici anni fa vivere qui e mangiare qualcosa che non fosse riso, kimchi e cubi di tofu era un’impresa suprema. Ciderbough vagava per Seoul con una borsa di tela, esplorava tutti i mercati alla ricerca assurda di lenticchie e olio d’oliva, e poi esausta mendicava alle porte dei ristoranti italiani per comprare direttamente da loro un po’ di sugo di pomodoro, un pugno di ceci, mezzo filone di pane. Ma niente, non avevano niente neppure i ristoratori, l’unica cosa esotica che potevano darle erano un po’ di foglie d’alloro secche, vieni, te le mettiamo in un sacchetto, le dicevano – e Ciderbough tornava a casa con quelle foglie sbrindellate in tasca, poi apriva il frigo e inghiottiva tofu, e poi riso, e poi kimchi e a volte anche gamberetti, perché altrimenti sarebbe morta di veganesimo.
Ma oggi non è più così, perché in un vicoletto di Itaewon c’è una caffetteria autentica vegana e ieri noi apposta non avevamo pranzato al dormitorio, così da poter fare lì una merenda gigantesca, alle quattro e mezza, una merenda con le tagliatelle alla zucca e la torta ripiena di patate dolci e pinoli. Non c’erano più tavoli liberi dentro però, perché questa caffetteria era nuova e conficcata in un angolino, ma già la assediavano mangiatori profani. Ciderbough era indignata e voleva scacciare una coppia di ciclisti foderati di tutine costosissime, giallo fosforescenti e bianche, uguali per lui e per lei – perché tutte le coppie coreane fanno così: si comprano i vestiti coordinati, o almeno le scarpe da ginnastica uguali, e quando esco ne vedo a decine di questi duetti con le magliette a righe e i jeans gemelli, che esibiscono la propria simbiosi attraverso il guardaroba, perché baciarsi per strada è ancora molto sconveniente, è proprio un tabù. Io infatti non ho mai visto nessuno, anche se fidanzati trasgressivi sono stati avvistati più volte, proprio da Ciderbough, inorridita custode della tradizione sbranata dall’estero.
La coppia di finti vegani e ciclisti innamorati se la stava prendendo comoda e proprio non voleva tornare a pedalare sopra quelle biciclette stellari, che non se le meritavano neppure un po’, sibilava Ciderbough, che li scorticava con gli occhi e intanto diceva alla commessa che no, lei la pasta nel contenitore del take out non se la sarebbe lasciata servire neanche morta, perché l’ambiente va protetto, gesto minuscolo dopo gesto minuscolo. Dobbiamo ribellarci, perché la Corea è un tripudio dell’imballaggio, diceva – e anche Sara era d’accordo, e forse anch’io ma con meno enfasi. E comunque è vero: qui i biscotti sono confezionati come monadi, i sacchetti della spesa si moltiplicano e non scompariranno mai, mai, moriremo incartati dentro sudari di plastica – e allora la commessa è rabbrividita e ci ha portato fuori due sgabelli, noi li abbiamo immaginati come tavoli e abbiamo mangiato lì, accovacciate sull’asfalto, con i parafanghi delle Kia a strofinarci le schiene.
D’altronde i coreani adorano il suolo e sempre si accucciano sulla terra friabile o la strada rugosa, fanno picnic sopra le rocce del fiume e poi si addormentano all’ombra dei sottopassaggi, sdraiati sul cemento, con il cappello abbassato sugli occhi. E noi ieri ci sentivamo moltissimo coreane, nonostante la merenda vegana e il ripudio del take out, perché la prossima destinazione della serata era un ciclo di performance tradizionali delle vacanze di Chuseok e già potevamo prevedere che saremmo state straniere rarissime in un anfiteatro fitto di nazionalismo.
Un’ora e mezza dopo ce ne stavamo sedute sugli spalti, in prima fila, con le ginocchia che scivolavano verso un’arena farcita di patrimonio intangibile dell’umanità. E se adesso fossi meno stanca vi racconterei anche questo, vi direi dell’epilessia delle percussioni, delle cantatrici di Pansouri con le gonne vaporose come fiori di papavero rovesciati e del funambolo con le ghette, che sulla corda sperimentava mille variazioni della camminata mentre io lo osservavo estasiata. Mi veniva in mente quell’altro funambolo Philippe Petit, che come un uccello a New York aveva attraversato l’aria tra le torri gemelle quando ancora svettavano in su, quando l’11 settembre era il futuro, e che sempre come un uccello aveva fluttuato anche nel cielo della sua Parigi, tra le guglie di Notre Dame, riposandosi ogni tanto sui bitorzoli di pietra delle chimere. Ma questo acrobata coreano era pure più audace di Philippe Petit, perché sulla corda non ci camminava e basta, ma ci saltellava e ballava addirittura – e mentre l’aria rabbrividiva attorno al suo corpo leggero e gommoso lui faceva il triviale, ridacchiava col pubblico che lo capiva e rimproverava quelli che erano avari di entusiasmo. “Chi mi applaude vivrà a lungo, più a lungo di Confucio – prometteva saltellante – non posso invece garantire quanti anni ancora camperà chi sta qui, mi rimira le chiappe e il coraggio e però quelle brutte mani al mio cospetto non se le spella. Più forte, più forte, cafoni!”
21 Settembre 2013
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