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Un delirio eugenetico-1

Un delirio eugenetico (in omaggio a Kim Jong Un). Lettere dalla Corea del Sud/3

A volte penso che potremmo generare una nuova stirpe umana, farci progenitori di una razza inedita, un calderone di lineamenti e accenti che combina mascelle puntute con fronti bombate, erre scamosciate e acca aspirate. Noi, gli abitanti di questo dormitorio, che in un agosto martoriato di piogge decidono di incontrarsi in un appartamento, uno dei tanti tutti uguali, e di lavorare insieme a una mappa eugenetica capace di produrre la creatura perfetta, il distillato di ogni tipo umano esistente sul globo. 

Di rimescolamenti effettivi finora ce ne sono stati ben pochi però. Innamorarsi e poi durare – eccola una sfida vera, forse la più grande.

Immaginate una coppia di esiliati che decida di vivere qui, in due stanze coatte che cercherebbe di personalizzare come meglio può, facendo spuntare dal piano del tavolo soprammobili estrosi: una bottiglia di avorio con disegni erotici giapponesi – vecchia ampolla per profumi ormai estinti da ogni memoria olfattiva, sgocciolati chissà quando su chissà quali polsi, quanto sottili e quanto bianchi, foderandoli di ciliegio, di pruno nipponico, di polpa d’albicocca. Oppure, se i soprammobili si impolverano e affaticano le domeniche – quando invece di strofinare si vorrebbe soltanto uscire, per cambiare scenario e rimpiazzare queste eterne baracche con grattacieli tutti nuovi, partoriti all’improvviso dall’asfalto – allora marchiare piuttosto un muro, incollarci sopra un manifesto di cinema con le scritte in vietnamita o un foglio corrugato, fatto di carta di riso cinese, che intrappola tra le fibre foglie anemiche e petali violetti. Oppure semplicemente stipare il frigo di feta bulgara e piramidi di parmigiano e appoggiarla lì la propria identità nazionale, su una griglia di plastica, a rabbrividire tra i cavoli e il tofu.

Qualcuno ci riesce. Lyudmilla e Ovidiu, per esempio. Lyudmilla è bulgara e Ovidiu è rumeno, come si capisce dalla coda del suo nome che ancora vibra di latino. Lyudmilla insegna la sua lingua a studenti che preferirebbero imparare l’inglese e che però pensano che chissà, questa Bulgaria in fondo è un altro oriente, è un piccolo mistero, un po’ come la Corea e allora se ci trovano affinità si abbandonano più volentieri alla grammatica e a quei suoni intinti nel russo. Ovidiu invece ha appena finito il dottorato in studi strategici: ipotizza scenari di guerra e missioni di pace e quando mesi fa quel pacioccone di Kim ci ha messo quella gran paura (da cui faccio riemergere solo il frullio degli elicotteri, colonna sonora di una perpetua uncinata angoscia) è stato consultato ripetutamente, per telefono o sui pianerottoli, e ci ha prospettato una vasta gamma di alternative, seguite dal consiglio sussurrato di fare scorte d’acqua e soprattutto di dollari. 

Forse Ovidiu troverà un lavoro attorno a qualche tavolo felpato di mappe, oppure continuerà a scrivere in rumeno romanzi di fantascienza seduto al bar Nescafé, perché nel suo appartamento non riesce a concentrarsi bene. È tutta colpa di Bruno, il canarino verde che sette mesi fa Otar, l’amico gay, gli aveva affidato durante una vacanza in Laos con il suo nuovo compagno, un parrucchiere dalle spalle esili conosciuto valutando cravatte nella boutique Healing Fashion. Bruno si è trovato così bene con Ovidiu e Lyudmilla che non ne ha voluto sapere di tornarsene a Seoul con Otar, in quel monolocale buio che dopo il Laos avrebbe dovuto condividere anche con un gatto di parrucchiere. 

È così che si cambia: padrone, casa, fidanzato, lavoro, sesso –  squadra di calcio addirittura. Tutto cambia a un certo punto, per una spinta sorridente  o perversa, molto spesso suscitata – perché il caso siamo noi che lo fecondiamo – ma che comunque sconvolge, sconquassa. Fino a che la vita non si riassesta.

Così Bruno si è trasferito a Mohyeon, e stando fuori dalla gabbietta tutto il giorno, a beccare chicchi di sesamo e dormire strofinato a Lyudmilla, incastrato fra scapola e guancia, si è naturalizzato al punto che ha imparato a volare. E questo ha inaugurato una tragedia degli arredi, perché volando Bruno becca, imbratta e impunito devasta tutto quello che trova: paralumi, lavandini, bonsai, citofoni e schermi del computer.

Per questo Ovidiu scrive i suoi romanzi al Nescafè, immaginando che le luci delle lucciole che pulsano nelle notti del prato siano in realtà le interiora di creature spaziali, dalla scorza trasparente e gli organi esibiti – protesta aliena alla gerarchia di superfici che condiziona noi umani. 

Oltre a produrre opere a tesi, Ovidiu fa anche un altro lavoro speciale: insegna Taekwondoo ai bambini. Il Taekwondoo è l’arte marziale coreana, patrimonio immateriale dell’Unesco, una coreografica lotta non proprio a distanza che prevede calci scagliati come lame furenti, sforbiciate di talloni che sbrindellano l’aria e a volte impastano le narici di sangue. 

È molto raro che uno straniero possa insegnare questa disciplina a dei bambini coreani, perché si tratta di un ammaestramento d’elezione, che prevedrebbe geni nazionali condivisi, provati dalle mandorle degli occhi e dalla predisposizione al diabete e all’acne rosata. E allora Ovidiu deve essere bravo davvero, se è capace di aggirare il comandamento della trasmissione nazional-lineare e di contaminare disinvolto il suo Hangul con vocali conservative latine.

Ma Ovidiu e Lyudmilla sono creature straordinarie e dunque capaci di condividere una vita e un futuro deliberatamente privo di figli umani, e di farlo in questo intarsio di appartamenti babelici. Si adattano docili a tutto, anche alle recenti restrizioni sull’uso dell’elettricità, che dalle 14.00 alle 17.00 impediscono il sussidio polmonare dell’aria condizionata e quello muscolare dell’ascensore. I trasgressori saranno puniti, è scritto sull’avviso appeso nella stanza delle lavatrici, anche se la natura e il grado della pena restano minacciosamente ignoti.

E a proposito di razze, di geni e di marchi nazionali. Quando Lyudmilla, Ovidiu o un altro qualcuno scoprirà che la feta è scaduta e il parmigiano sta per finire, invece di rassegnarsi alla territorialità del kimchi potrà rimediare così: mordicchiando una stecca di cioccolata extra-fondente, nera nerissima, e che perciò l’industria dolciaria coreana ha battezzato con il marchio Ghana

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