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diretto da Romano Luperini

Umano troppo umano. Sul finale di Pinocchio: rifiuto o accettazione. Da una riflessione di Giovanni Jervis

Premessa

Dopo aver lavorato gli ultimi due anni su Le avventure di Pinocchio, nelle classi prime durante il primo trimestre, mi sono definitivamente persuasa che sia una lettura al tempo stesso semplice e difficilissima da portare in classe. Che sia semplice lo dimostrano l’accoglienza del testo da parte degli alunni e le reazioni che si possono registrare durante la lettura, e tra queste in particolare quelle meno plateali: occhi divertiti e curiosi, sorrisetti e sogghigni, sia durante la lettura silenziosa, sia durante la lettura condivisa. Il libro piace. Ciò di là dalla veste linguistica del testo. Qualche elemento ostico si registra certamente sul piano lessicale, ma i pur abbondanti toscanismi non arrivano a inficiare la comprensione complessiva del testo né la possibilità di una lettura autonoma, magari di alcuni capitoli, per quanto siano sempre auspicabili momenti di riflessione in plenaria. Come si accennava, però, Pinocchio è al tempo stesso anche una lettura difficile, sin dalle primissime pagine, sin dallo stesso atto di nascita del personaggio burattino, e questa sensazione di difficoltà permane e si accentua anzi man mano che si procede con la (ri)lettura, nella misura in cui ci si rende conto a ogni pagina che il senso delle cadute e delle rinascite di Pinocchio non sta nella singola avventura come non si può fermare nemmeno alla parabola di superficie — che poi parabola non è — che delinea la sua vicenda e che si conclude con il premio dell’umanizzazione. Se questa infatti è la morale che immediatamente ne potrebbero ricavare gli alunni (ma si cercherà di dimostrare che non è esattamente così), decisiva resta l’interpretazione del senso complessivo di questa parabola, mentre Pinocchio si muove incessantemente in un caleidoscopio di immagini, personaggi, situazioni, in cui la dimensione realistica convive con quella fantastica e fiabesca, tra momenti di luce e notti di avventure gotiche terrificanti. Nel delineare il percorso didattico realizzato in classe, farò riferimento a due testi che hanno sostenuto le scelte operative, il saggio di Alberto Asor Rosa, nella Letteratura italiana da lui diretta, e la prefazione di Giovanni Jervis all’edizione Einaudi del 1968. I due saggi propongono anche due interpretazioni complessive dell’opera, che saranno messe a confronto facendo poi riferimento soprattutto alle reazioni degli alunni al termine della lettura. Questa riflessione vuole anche essere una critica indiretta alla lettura in definitiva rassicurante e sostanzialmente retorica data del testo di Pinocchio nel capitolo IV del recente libro Insegnare l’Italia, di Loredana Perla e Ernesto Galli della Loggia.

In classe

Il lavoro in classe ha privilegiato in un primo momento gli aspetti che concorrono a caratterizzare il burattino, sia sul piano fisico sia su quello caratteriale e del comportamento. Per questa prima fase del lavoro la lettura che dà del personaggio Alberto Asor Rosa offre spunti interessanti. Tra le altre cose Asor Rosa mette in evidenza come la natura di Pinocchio sia ontologicamente caratterizzata da una costante duplicità, è di legno ma contestualmente possiede caratteristiche umane (di questa duplicità parla anche Linda Cavadini in un articolo dedicato a un percorso didattico su Pinocchio, inquadrato come romanzo di formazione). Il passaggio dal polo, per così dire ligneo, a quello umano però non è mai mediato e Pinocchio può essere visto o può comportarsi alternativamente, a seconda delle circostanze, come un burattino o come un ragazzo, o presentare le caratteristiche del legno o quelle dell’essere umano. L’altro elemento decisivo che mette in evidenza Asor Rosa è il fatto che Pinocchio subisce nella storia una serie di metamorfosi: da pezzo di legno diventa burattino, poi viene trasformato in ciuchino, da ciuchino tornerà burattino e infine essere umano. E è proprio il verificarsi delle trasformazioni precedenti che in definitiva legittima la trasformazione finale in essere umano.

Quanto ai tratti del carattere e al comportamento, ho scelto di soffermarmi sugli aspetti a mio avviso decisivi della psicologia di Pinocchio, ossia il suo pensiero grandioso, che è una caratteristica tipica del linguaggio interno del bambino (ma non solo, si pensi alla grandiosità insita nel pensiero narcisista), e ovviamente la sua inclinazione a mentire. Gli altri aspetti su cui mi sono soffermata sono stati principalmente la sua impulsività, la tendenza a non valutare le conseguenze delle proprie azioni, la sua ingenuità e la difficoltà a assumersi davvero la responsabilità delle proprie scelte, se non precipitando nella lamentazione e in certa misura anche nel vittimismo. In diversi momenti mi sono soffermata sulle relazioni che instaura con gli altri personaggi, sia per realizzare alcuni lavori specifici anche sui personaggi secondari, come nel caso dell’episodio di Mangiafuoco, sia perché attraverso questo sistema di relazioni emerge la morale della realtà in cui Pinocchio è inserito. Le attività principali sono state:

  • rappresentare graficamente e motivare in forma scritta, seguendo il testo, i momenti emblematici di alcune delle metamorfosi subite da Pinocchio, rendendo conto della trasformazione in alcuni casi per quadri successivi (ho privilegiato quella iniziale, quando Geppetto “estrae” il burattino dal pezzo di legno, e la metamorfosi in ciuchino);
  • aggiornare durante la lettura una tabella in cui annotare tutti gli elementi/ tratti riferibili al campo del legno e quelli riferibili al campo dell’umano;
  • definire (insieme all’insegnante) le caratteristiche del ragionamento di Pinocchio all’inizio del capitolo IX («Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e doman l’altro imparerò a fare i numeri…») quando, al termine della sua riflessione, a riprova della assoluta inconsistenza del suo pensiero grandioso, finisce subito attratto dal teatrino dei burattini;
  • evidenziare (insieme all’insegnante) durante la lettura la ricorsività dei comportamenti tipici di Pinocchio di fronte alle tentazioni che lo portano inevitabilmente a cadere e poi a pentirsi;
  • raccontare in forma scritta e motivare episodi della propria vita in cui si è agito sulla base di un pensiero grandioso o in cui si è scelto di mentire, a seguito dei quali si sono create situazioni problematiche.

Le attività hanno consentito di lavorare sul rispecchiamento/ distanziamento con il personaggio e di mettere in evidenza i suoi tratti costitutivi, che verranno poi ripresi nella parte conclusiva del percorso.

Due linee interpretative a confronto

La duplicità di Pinocchio è inquadrata da Asor Rosa, nella parte conclusiva del suo saggio, in termini metaforici. A suo avviso la corazza lignea di Pinocchio rappresenta la sua resistenza a diventare uomo, la vocazione infantile che deve superare, proprio come ogni bambino oppone la propria resistenza a qualsiasi processo educativo. Da questa interpretazione fa discendere una morale elementare, perfettamente inscritta nel sistema cattolico dell’epoca, alla quale in definitiva aderirebbero sia il personaggio, sia l’autore: «Bisogna inquadrarsi, come che sia, perché i rischi in caso contrario sono di punizioni sociali pesantissime» (il rischio del vagabondaggio del resto era un pericolo concreto nella società dell’epoca). Questo sarebbe in ultima analisi anche il senso dell’umanizzazione. La resistenza deve essere vinta, costi quel che costi. Non c’è modo di sottrarsi.

Questa conflittualità è messa esplicitamente in evidenza da Giovanni Jervis, che sottolinea come le caratteristiche del processo di scrittura di Collodi — una scrittura non sistematica, priva sostanzialmente di progettualità, che «gode dell’innocenza della distrazione» — abbiano determinato il precipitare inconsapevole nel testo di una contraddittorietà e di uno scetticismo che erano propri dello stesso autore, ma che egli non aveva lasciato trasparire in opere più controllate. Anche per Jervis la morale di Pinocchio è elementare. Non è né sublime né elevata, è una morale soprattutto pratica. «Vi è una giustizia immanente — scrive — che ricompensa il bene e punisce il male: e poiché il bene è vantaggioso bisogna preferirlo. […] La morale sociale si riduce a una legge di scambi». I personaggi buoni o cattivi che Pinocchio incontra, secondo Jervis, rappresentano questa morale, non sono mai portatori di valori assoluti e anche laddove dovrebbero alludere al mondo delle «virtù adulte» risultano depotenziati dall’ironia. Ma a questo sistema Pinocchio non aderisce mai, le sue regole non le impara mai perché «l’utilitarismo lo sfiora continuamente ma non lo convince». Ne è prova proprio il carattere frettoloso e artificioso dell’ultimo capitolo. La metamorfosi finale pone fine alla serie ripetitiva delle sue avventure perché la storia narrata da Collodi prima o poi deve finire, ma non finisce perché essa abbia in qualche modo risolto la condanna di Pinocchio a ripetersi. Di qui il carattere tragico del personaggio, la sua contraddittorietà, la sua natura conflittuale, espressa in un movimento dialettico che caratterizza tutto il testo. Che il finale non risolva questa intima contraddizione secondo Jervis è dimostrato anche da elementi esterni al testo. Ad esempio, una testimonianza diretta riferisce che Collodi non ricordava di aver finito il libro in quel modo. Più ancora Jervis fa riferimento alla reazione che il finale suscita nel lettore, e segnatamente nei ragazzi: «Il loro frequente rigetto alla trasformazione finale di Pinocchio in un bambino indica che l’identificazione non si è tutta risolta nella ribellione vissuta, punita e superata, che il rischio psicopatico non è stato intieramente digerito e riassorbito nella fantasia di una favola lontana, e che Pinocchio è riuscito a trasmettere la sua contraddittorietà al lettore, lasciandogli un unico margine non risolto, lo stimolo alla libertà».

Di nuovo in classe

L’interpretazione proposta da Jervis, e cioè quella di un personaggio che non riesce a risolvere il conflitto tra il rischio insito nei suoi comportamenti asociali e l’istanza di libertà sottostante, è stata ampiamente confermata da una delle ultime attività proposte a conclusione della lettura.

Si tratta ancora di una produzione scritta. Questa la consegna:

Scrivi un testo in cui spieghi che cosa hai provato quando hai letto la parte dell’ultimo capitolo in cui Pinocchio, ormai bambino, guarda sé stesso burattino appoggiato a una sedia.

La quasi totalità dei ragazzi ha riferito sentimenti contraddittori. Quasi tutti hanno parlato di felicità per la nuova condizione di Pinocchio, ma quasi sempre unitamente alla tristezza o al dispiacere per la perdita del burattino. Alcuni hanno espresso anche malinconia e nostalgia, e perfino disgusto alla vista del burattino senza vita. Un paio di alunni ha manifestato una sorta di irritazione nei confronti di Pinocchio-bambino, accusandolo di rinnegare sé stesso. In definitiva, quindi, quella duplicità ontologica di Pinocchio, che è anche metafora della sua conflittualità, nella visione che emerge dal lavoro con i ragazzi sembra non possa essere soppressa, proprio perché costitutiva del personaggio, del suo essere, perché non risolta dalla storia. Pena il dolore non eliminabile per uno snaturamento troppo violento. E ciò risulta chiaramente nel momento in cui vengono rappresentate per sempre distinte le due dimensioni che per tutto il testo invece hanno convissuto nel personaggio e che i ragazzi hanno via via evidenziato, quella lignea e quella umana, non semplicemente giustapposte ma prodigiosamente compresenti.

Ecco di seguito alcune delle riflessioni dei ragazzi:

«Mentre leggevo il pezzo di quando Pinocchio ha visto il burattino appoggiato sulla sedia mi è venuta una tristezza incredibile perché è come vedere un pezzo di Pinocchio che se ne va e per questo non riuscivo a pensarci, perché quel burattino rappresentava tutte le cose che aveva fatto Pinocchio».

«[…] io ero sconvolto perché lì ho capito che Pinocchio non si era trasformato ma aveva cambiato corpo, e in quel momento avevo una sensazione di stranezza e tristezza. E in quel momento ho pensato che Pinocchio non era più lui ma un altro bambino con il suo animo».

« […] ho provato una brutta sensazione di ribrezzo e di dispiacere perché mi è sembrato come se Pinocchio fosse morto e il papà lo aveva appoggiato sulla sedia e lo osservava mentre pensava ai momenti che aveva passato con lui e accanto a Geppetto c’era l’anima di Pinocchio».

È proprio la presenza del burattino privo di vita che problematizza il finale, perché a differenza delle altre trasformazioni qui il burattino non è sparito. La cosa non sfugge ai ragazzi. In questo senso è interessante anche il ricorrere dell’immagine per cui Pinocchio-bambino rappresenterebbe l’anima di Pinocchio, in qualche modo reincarnato. Non trasformato. Appunto, in certa misura un altro.

L’attività è stata preceduta e seguita in classe da una riflessione collettiva, nella quale si è posta l’attenzione anche sull’altra polarità, quella della felicità, ragionando su come i sentimenti negativi possano essere anche messi in relazione alle tante perdite e rinunce che inevitabilmente la crescita comporta. Il burattino sarebbe il bozzolo.

Successivamente però ho chiesto ai ragazzi di pensare e scrivere un finale alternativo, in cui si potesse superare il sentimento di tristezza che avevano provato leggendo l’ultimo capitolo e che continuava ad aleggiare in classe. La maggior parte ha risolto eliminando l’umanizzazione: Pinocchio resta un burattino, ma un burattino che ha imparato dai suoi errori. Talvolta la scelta è deliberata, perché è Pinocchio stesso a decidere di restare burattino tra le due opzioni che gli propone la Fata. Altre volte le soluzioni sono state più articolate. In alcuni finali i ragazzi hanno cercato in vari modi di mantenere la presenza di Pinocchio-burattino nella vita di Pinocchio-bambino:

«Pinocchio si svegliò e trovò il proprio corpo sulla sedia. Lui prese il suo corpo e lo portò da Mangiafuoco e gli chiese se potesse lavorare come burattinaio. Mangiafuoco accettò. Pinocchio lavorò per molti anni come burattinaio […] un giorno andò a prendere un ciocco di legno, come faceva sempre, per costruire un burattino. Lo costruì ed era proprio come [era stato] lui, un burattino che parlava, camminava e si trasformò come Pinocchio in un bambino vero. Dopo tanti anni Pinocchio morì come Geppetto e questa cosa andò avanti di generazione in generazione portando a non dimenticare il vecchio Pinocchio».

Altre volte la rinuncia a una parte di sé, e si potrebbe dire all’istanza di libertà di Pinocchio, può essere superata solo attraverso l’eliminazione totale del burattino, in termini psicoanalitici si potrebbe dire rimozione:

« […] quando Geppetto provò ad accendere il fuoco non ci riuscì perché la legna era bagnata. Loro due stavano per morirsi dal freddo; dopo un po’ gli venne in mente un’idea sia a Pinocchio che a Geppetto. Presero il burattino del vecchio Pinocchio e lo bruciarono, ci fecero un grande fuoco e si riscaldarono».

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