La zeppa delle elezioni regionali
Chi ha vinto, chi ha perso?
Volendo usare il linguaggio da bar l’ultima tornata elettorale regionale è finita con un pareggio. Di sei regioni che sono andate al voto nell’ultimo biennio tre sono andate al Centro Destra (Piemonte, Basilicata e Veneto) e tre sono andate al Centro Sinistra nella sua versione di “Campo largo” (Toscana, Campania e Puglia). Era già finita uno a uno nel 2023 con Sardegna e Abruzzo. Se si guarda un po’ più da vicino, il conto non torna, perché le regioni in campo hanno un peso elettorale molto diverso: quelle andate al Centro-Sinistra (CS) sono più popolose. A un’osservazione più politica, poi, il divario diventa significativo. Consideriamo le ultime tre regioni al voto. In Campania il candidato del CS, il “grillino di sinistra” Fico, ha raccolto il 60% dei suffragi rispetto al 35% del Centro-Destra (CD), ricevuti da un esponente di primo piano del partito meloniano, il viceministro degli esteri Cirielli. La candidatura è stata giudicata “una scelta azzardata” (Il Manifesto, 25.11.2025), ma significativa: la Campania sembrava la regione più contendibile, stante l’incertezza della presa alle amministrative dei 5 Stelle anche in una regione storicamente forte per loro. Meloni ha voluto calare l’asso e la sconfitta è perciò più sonora. In Puglia essa è ancora più netta: il candidato del CS, Decaro, ha preso il 64% dei voti contro il 34% di Lobuono del CD. In Veneto la vittoria del CD era scontata: Stefani ha preso il 64%, contro un magro 30% di Manildo del CS. Ma nella coalizione di CD non si è ripetuto il risultato delle politiche del 2022 e delle europee del 2024, che segnava il vantaggio di Meloni su Salvini. La Lega ha addirittura doppiato il partito del presidente del Consiglio (38% contro il 18%). Nonostante i plateali segni di giubilo di Salvini, la vittoria leghista è un trionfo personale di Zaia, che si è presentato capolista in tutti i collegi, dopo il rifiuto di un suo nuovo mandato. Volendo fare un pronostico per le prossime politiche, se si confermasse il trend delle regionali (Istituto Cattaneo, Elezioni regionali 2022-2025), l’attuale maggioranza non porterebbe a casa neppure un seggio nei collegi uninominali della quota maggioritaria. Quindi non potrebbe contare su un governo iper-stabile come l’attuale, anche se vincesse nella quota proporzionale. Il colpo è così evidente che un esponente di spicco di Fratelli d’Italia come Donzelli — subito a ridosso della proclamazione dei risultati — ha invocato un cambiamento della legge elettorale, trovando l’immediata resistenza nella Segreteria del PD (Taruffi). È squallido che si cambino le regole del gioco in corso d’opera, ma è un luogo comune della politica italiana, dove il principio costituzionale della rappresentanza dei cittadini è costantemente piegato agli interessi di parte.
Una significativa conseguenza del voto regionale è anche una conferma delle possibilità di vittoria di una coalizione di “Campo largo”, che però deve trovare una leadership condivisa e soprattutto un programma unitario, che unisca il tema dei diritti civili e delle “diversità” a quello costituzionale dell’uguaglianza sociale e dei diritti dei lavoratori. È il nocciolo politico su cui si gioca la leadership di Elly Schlein, che avrebbe bisogno non solo di un vero spostamento a sinistra del PD, come lamentano i “moderati” dello stesso partito e vari opinion maker borghesi, ma di rompere l’antico pregiudizio togliattiano, giunto attraverso Berlinguer fino a Renzi, che in Italia si può “vincere solo al centro”, pregiudizio che è stato fonte di tante sconfitte dopo che la storia ha liquidato il collateralismo cattolico.
L’astensionismo e le due “destre”
Chi ha vinto davvero è l’astensionismo. La percentuale dei votanti continua a calare ben al di sotto del 50% degli aventi diritto. In Veneto è andato alle urne solo il 44,63%, contro il 57,60% di 5 anni fa; in Campania ha votato solo il 43,64%, a fronte del precedente 55,52%; in Puglia addirittura il 41,83%, quando i cittadini che si erano recati al seggio nel 2000 erano stati il 56,43% (fonte: Eligendo del Ministero degli Interni). L’astensionismo sembra essere un trend inarrestabile (36,2% alle politiche del 2022; 50,31% alle europee del 2024, dato che marcò per la prima volta lo sfondamento della soglia del 50%) e segna la distanza siderale tra il corpo elettorale e i suoi supposti rappresentanti. È l’aspetto centrale dell’attuale debolezza delle democrazie occidentali e la base più pericolosa delle tendenze autoritarie e guerrafondaie in atto.
Per spiegare il crescente astensionismo è stata ripresa l’ipotesi delle due destre, che risale al saggio omonimo di Marco Revelli, uscito da Bollati e Boringhieri nel 1996, all’epoca dello scontro tra l’Ulivo di Prodi e il Polo delle libertà di Berlusconi. Scrive oggi lo storico: «In Italia non si assiste affatto a una ‘normale’ competizione tra quella che si è soliti considerare una destra e una sinistra, ma lo spazio politico è occupato, al contrario, in forma prevalente, da due destre: una destra populista e plebiscitaria (“fascistoide”), da un lato, e una destra tecnocratica ed elitaria (liberale) dall’altro» (M. Revelli, Le due destre oltre il Novecento, in Aa. Vv., Contro le due destre, 2025, p. 25). Esse sono apparentemente in conflitto tra loro, ma hanno uguali obbiettivi (la precarizzazione del lavoro, l’erosione dei salari, il dominio del mercato, la privatizzazione dei servizi pubblici, a partire dalla sanità): l’elettore non le percepirebbe come scelte alternative e ciò accelererebbe la spinta all’astensione soprattutto nell’elettorato di sinistra, al di là della continua riproposizione dell’argomento del voto “utile”.
La battuta d’arresto di Giorgia Meloni e la questione del blocco sociale
L’ascesa di Giorgia Meloni non sembra perciò così irresistibile come ce la vendono i pennivendoli del regime in corso di instaurazione. Nei sondaggi il partito del Presidente del Consiglio oscilla negli ultimi mesi di pochi decimali intorno al 30%. In questo senso l’esito delle regionali è una zeppa che appesantisce la scalata alle istituzioni in atto da parte della destra, come diremo tra un attimo a proposito del premierato. Si capisce perciò la richiesta degli esponenti di FdI di cambiare la legge elettorale.
Il modello di interpretazione di Revelli mi sembra eccessivamente politologico e “fuori fuoco”, come ha scritto Andrea Pancani nella prefazione del libro del 2025, che riprende l’ipotesi e si cimenta nel compito arduo di delineare «un programma di governo per recuperare il voto degli astenuti e battere le due destre». È la questione più volte sollevata su questo blog del “blocco sociale”. Infatti per Revelli le due destre sarebbero riconducibili a «due blocchi sociali e culturali ascrivibili alla destra» (p. 26). Nota Pancani: «Qualcuno, forse sbrigativamente ma con efficacia, ha sintetizzato: i tutelati e i più istruiti stanno con il PD, la classe operaia con la Destra così come gli autonomi, gli artigiani, le partite IVA, mentre i disoccupati e i redditi più bassi stanno coi Cinquestelle». È un’analisi approssimativa per definire un blocco sociale per quanto in formazione. All’interno di un quadro di volatilità dell’elettorato, che ha caratterizzato almeno l’ultimo decennio, assumendo lo studio dei segmenti so-demografici del voto per le europee (Reset, 14.6.2024) di Swg confermato da You Trend, gli operai si esprimono al 39% per FdI, ma rimangono fedeli al vecchio insediamento sociale della sinistra con il 16% al PD. Il voto del ceto medio tende ad equivalersi (33% a FdI e 26% al PD). Il voto di chi ha difficoltà economiche al 58% va all’astensione, al 16% al M5S. Nel prisma distorto elettorale siamo lontani dalla saldatura di un blocco sociale. Ma soprattutto gli interessi degli strati più bassi del ceto medio (classicamente la piccola-borghesia) si saldano male con quelli della classe operaia. Se tale saldatura fosse avvenuta, attraverso il pervertimento ideologico degli interessi della classe con quelli della nazione — uno dei noccioli dalla linea politica della Meloni, che in proposito agita ancora il tema dei migranti, nonostante la richiesta di manodopera del mercato del lavoro — il regime autoritario sarebbe già un dato di fatto. Ma Giorgia Meloni ha chiaro il processo necessario a questa saldatura attraverso lo svuotamento per vie interne della Costituzione antifascista.
La legge elettorale e il premierato
La proposta del “premierato”, cioè lo svuotamento del potere di arbitrato della Presidenza della Repubblica e l’investitura popolare diretta del premier, è la prossima tappa dell’instaurazione del regime autoritario, dopo che la legge Nordio, che andrà presto al referendum ostativo, ha spazzato via il potere di controllo della Magistratura. Tale proposta implica l’elezione di un parlamento dove la maggioranza dei seggi è vincolata all’elezione diretta del primo ministro. Di conseguenza la legge elettorale, che il premierato comporta, sarà per forza maggioritaria, e con un premio di maggioranza più consistente di quello previsto dall’attuale “Rosatellum”, una clava che il CS ha messo improvvidamente in mano alla destra. In questo percorso i risultati delle regionali rappresentano una vera zeppa nell’ingranaggio, come si è già detto. Non solo è cominciato l’attacco alla Presidenza della Repubblica, ma la destra al governo sta lanciando messaggi che una legge iper-maggioritaria converrebbe anche al CS.
Le paure del centro-sinistra e il referendum ostativo contro la spaccatura della Magistratura
L’atteggiamento pavido del PD, che ha paura di perdere il referendum, ha condizionato la condotta di tutte le principali organizzazioni di massa (CGIL, ARCI, ANPI, ACLI, LIBERA ecc.), con la conseguenza che non è partita la raccolta delle firme ed è in notevole ritardo la costituzione dei Comitati per il NO della società civile. La raccolta delle firme, anche non raggiungendo le 500.000 necessarie come nel 2016 con Renzi (obiettivo più facilmente raggiungibile oggi con la raccolta elettronica), avrebbe allungato i tempi della campagna elettorale favorendo il NO, che pur partendo svantaggiato è in fase di crescita nei sondaggi. Infatti è prevedibile che Giorgia Meloni anticiperà il più possibile il voto refendario, che come nel caso di Renzi è fortemente personalizzato contro la sua leadership. L’errore del PD e dei suoi alleati è di nuovo quello di Letta del 2022: per paura di prendere uno schiaffo pubblico intestandosi il referendum, lo si perde senza battersi sul serio. Allora è assolutamente necessario e urgente che la società civile democratica si schieri a difesa della Costituzione antifascista, faccia da subito una campagna informativa di massa con banchetti in tutta Italia, mobiliti tutte le forze nei comitati per il NO, convinca gli indecisi e gli astenuti, richiami la “riserva della Repubblica”, quella che si è attivata ogni qual volta la democrazia costituzionale è stata messa in pericolo.
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