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diretto da Romano Luperini

Non più di 20 per classe – Il nostro sostegno alla proposta di legge per un’istruzione di qualità

La redazione de laletteraturaenoi sostiene le ragioni della proposta di legge di iniziativa popolare Non più di 20 per classe – Facciamo spazio a un’istruzione di qualità e appoggia convintamente l’adesione di tutti gli insegnanti alla raccolta firme. Oltre che ai banchetti in presenza, nelle strade e nelle piazze, è possibile firmare online, entrando con SPID, CIE etc., sul sito Non più di 20 per classe – Facciamo spazio a un’istruzione di qualità. Con questo contributo proviamo a spiegare alcune delle ragioni del nostro sostegno a questa decisiva iniziativa popolare, per il bene della scuola pubblica e democratica.

Un po’ di storia

Ci sono rispettivamente due nomi e una stagione quando si parla di “classi pollaio”: Gelmini, Tremonti, e la crisi economico-finanziaria che inizia nel 2008. È in quel contesto, con quel governo che viene varato il decreto-legge 112/2008: “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. È molto utile leggere l’art. 1 di quel provvedimento, perché tradisce, in maniera inequivoca, la ratio di quella che diventerà la Legge 133/2008. Si tratta infatti, ed esclusivamente, della necessità di contenere il debito pubblico in un momento in cui l’Italia ha i conti troppo in rosso: fare cassa, ovunque, dovunque, e con qualunque cosa. Lo si vede molto bene all’art. 64 (“Disposizioni in materia di organizzazione scolastica”): meno ore di scuola per indirizzo (i professionali e i tecnici, ma anche i licei, ne usciranno falcidiati), meno docenti (una riduzione complessiva del 17 per cento dell’organico da conseguire in tre anni), meno personale ATA; in compenso: più alunni per singola scuola e singolo preside e, appunto, più studenti per classe. 

Non vi è nessun ragionamento didattico a presiedere a quella che è la madre (recente) di tutte le magagne, perché la riforma Gelmini ha un solo obiettivo, ed è quello dettato dal Ministero delle Finanze: risparmiare a mani basse. Lo spiega molto bene anche il ricorso (invalso, come tante altre cattive prassi parlamentari) al decreto-legge: una misura che l’art. 77 della Costituzione pone viceversa e chiaramente sotto il vincolo di “casi straordinari di necessità e di urgenza”, sottolineando che questo tipo di provvedimenti provvisori viene adottato dal Governo “sotto la sua responsabilità”. 

È dentro questa cornice che esce, il 20 marzo del 2009, il DPR 81 sulla formazione classi, segnando a tutti gli effetti l’inizio del nuovo corso. Dall’infanzia alle superiori, il decreto innalza di una o due unità almeno il numero di alunni per classe, ma è anche dal punto di vista linguistico che è utile misurarne i suoi effetti. 

Il DPR 81/2009 si caratterizza infatti per l’uso di quella che Lombardo Vallauri ha chiamato “lingua disonesta”, definizioni pensate per scivolare via, in modo che la portata devastante di quanto in atto non sia percepita che sotto traccia nella sua autentica azione distruttiva. 

All’art. 16 si legge infatti: “Le classi del primo anno di corso degli istituti e scuole di istruzione secondaria di II grado sono costituite, di norma, con non meno di 27 allievi”: questo significa che la soglia dei 27 alunni è il dividendo, appunto, minimo, con cui frazionare il numero complessivo degli iscritti nelle classi cosiddette “iniziali” (che diventano, per l’occasione, non solo la prima superiore, ma anche la terza). Tutti gli “eventuali resti” conseguenti a questa bruta operazione di ragioneria spicciola vanno poi semplicemente riaggregati alle classi da 27 (che così diventano di 28, 29, 30, 31, 32 ragazzi…), se proprio non si è riusciti a ricollocarli, come pacchi, “in istituti viciniori”. 

La stessa opacità linguistica il decreto la riserva agli alunni con disabilità, per i quali l’art. 5 prevede che le classi siano “costituite, di norma, con non più di 20 alunni, purché sia esplicitata e motivata la necessità di tale consistenza numerica”. Perché “di norma” può volere dire tutto e niente e, soprattutto, che una certificazione di disabilità in nome di una legge quadro come la 104/1992 (“che tutti ci invidiano”) non è sufficiente a dare ragione del perché è molto utile, se non autoevidente – nel paese che celebra le parole “inclusione scolastica” a ogni piè sospinto – che le classi che “accolgono alunni con disabilità” siano almeno relativamente piccole. Per tacere del fatto che la declinazione plurale della parola “alunni” nulla dice di definitivo sul numero massimo di alunni con disabilità per classe. L’ingiustizia sociale e culturale che presiede al DPR 81/2009 è evidente (un’ingiustizia che si quadruplica quando si pensa ai numeri minimi, bassissimi, consentiti per creare una classe alle scuole paritarie). Eppure, in una opinione pubblica spesso ammalata di indignazione e facile progressismo, il DPR 81/2009 ha continuato a galleggiare, sostanzialmente sereno e indisturbato, fino al 2020, quando l’epidemia di Covid 19 ha perentoriamente riportato all’attenzione la questione delle classi pollaio, e di numeri esplosivi a tutti gli effetti. Il dibattito, lo ricordiamo bene tutti, fu amplissimo, fino a portare, nel Protocollo di Intesa siglato il 6 agosto 2020 tra Ministero e organizzazioni sindacali, a mettere nero su bianco l’”’impegno a lavorare ai fini dell’incremento delle risorse destinate al sistema nazionale di istruzione e formazione, con investimenti che consentano di intervenire sul fenomeno del sovraffollamento delle classi e a una revisione ragionata dei parametri del d.P.R. 81/2009”.

Eppure, quando, un anno dopo, vengono varate le 273 corpose pagine di PNRR, alla questione classi pollaio (e a quella delle scuole troppo grandi) vengono riservate 4 righe scarse scarse, anch’esse scritte con l’opacità della “lingua disonesta”: “la riforma consente di ripensare all’organizzazione del sistema scolastico con l’obiettivo di fornire soluzioni concrete a due tematiche in particolare: la riduzione del numero degli alunni per classe e il dimensionamento della rete scolastica”. Non una parola su come, quando, quanti investimenti: intenzioni buone solo per una lettera a Babbo Natale. 

E infatti la pioggia di soldi regalata alle scuole dal PNRR ha riguardato tutto, ma proprio tutto (dotazioni tecnologiche a go go, l’orientamento, corsi, corsini e corsetti di recupero declinati senza alcuna contezza delle reali esigenze didattiche, la filiera tecnico-professionale che riduce la scuola a quattro anni), tranne quello che era veramente necessario.

Un po’ d’esperienza

Abbiamo nutrito l’illusione che l’epidemia di Covid avesse definitivamente smascherato il re nudo: trenta, trentacinque studenti per classe sono uno sproposito, un controsenso, un deterrente doloso alla didattica intesa come cura degli allievi e delle allieve, ascolto, valorizzazione, inclusione del singolo nel gruppo, opportunità di dialogo, attenzione allo specifico disciplinare, costruzione calibrata e differenziata delle verifiche, valutazione organica e serena degli apprendimenti. Ma non avevamo avuto bisogno della pandemia per comprendere le ragioni economiche del provvedimento: meno classi meno docenti, meno classi meno aule, meno classi più accorpamenti tra istituti, meno classi meno DS, meno ATA, meno funzionari di segreteria… Un bel risparmio. Lo Stato fa il suo dovere: istruisce generosamente i suoi cittadini – senza distinzione di sesso, lingua, religione – per circa quindici anni: poco importa come, purché dimostri di farlo; se lo fa pure contenendo la spesa pubblica, bisognerà essergliene grati…

Ma non ci vuole Demostene per argomentare quanto quel risparmio economico ci stia costando in termini di perdite: della qualità dell’insegnamento, della ricchezza dei percorsi disciplinari, del benessere degli studenti, della loro preparazione complessiva. Non ci vuole Demostene: basta l’evidenza. Quest’anno ho nuovamente una prima classe liceale. Trentadue allievi e allieve di provenienze disparate: chi ha frequentato una scuola privata dalla primaria alla media con la maestra che, di fatto, non li ha lasciati mai, le recite natalizie per dieci anni nello stesso teatrino, gli stessi compagni, le stesse famiglie che si conoscono “da una vita”, chi ha frequentato una scuola pubblica e affrontato già un triplice passaggio, magari con un turn over incessante di docenti precari; chi ha entrambi i genitori laureati, chi nemmeno uno; chi può permettersi di acquistare il biglietto per il teatro e partecipare alla visita di istruzione, chi deve ricorrere al comodato d’uso per i libri di testo; chi è già pronto per riqualificare i suoi strumenti metodologici, chi ne è sprovvisto e impara tutto a memoria; chi è dislessico, disgrafico e disortografico (ma si sospetta anche discalculico), chi tira su la mano a ogni domanda dell’insegnante e pare Hermione Granger; chi parla correntemente l’inglese oltre l’italiano, chi l’italiano non lo comprende a pieno, perché è arrivato un paio d’anni fa dall’Albania, dall’Ucraina o semplicemente trascorre le ore in cui non è in aula con i genitori, originari del Bangladesh. E io sono l’insegnante di tutti e di ciascuno. Ma fossero pure tutti nella stessa condizione sociale, economica, culturale di partenza, resterebbe comunque un dato non aggirabile – per nessuno, ma soprattutto non per un docente: trentadue individui, ognuno col proprio stile cognitivo, ognuno col proprio vissuto familiare, affettivo, intellettuale, ognuno con le sue timidezze, ritrosie, istanze, potenzialità, ambizioni – tutte, tutte meritevoli di essere accolte, comprese, coniugate con le timidezze, le potenzialità, le istanze degli altri e delle altre.

In una classe di venti questo non è facile, ma si può e si deve fare: lavori in gruppi ragionati, prove calibrate e frequenti, attenzione dedicata e lavoro continuo di spola tra il singolo e la piccola comunità, profondità disciplinare. In una classe di trentadue questo diventa arduo e si finisce per fare frettolosi excursus trascina tutti anziché itinerari con tappe intermedie condivise e meditate; perché dieci, dodici, quindici studenti in più di venti significa ridurre di dieci, dodici, quindici volte la possibilità per l’insegnante di rafforzare chi è più fragile e di consentire a chi si sente forte di misurarsi non con la fragilità altrui, ma con compagni e compagne realmente alla pari, di condividerne fatiche e traguardi, tempi e strategie.  (Anche perché – sia detto per inciso – l’insegnante, nel frattempo, di allievi e allieve ne ha altri trentadue nelle altre due o tre o quattro classi in cui è suddiviso il suo monte-ore settimanale, cioè diciotto ore frontali – caschi il mondo, tutte da spendersi in aula; altre diciotto per studiare, preparare le lezioni, strutturare le prove, correggerle, fronteggiare la spaventosa burocrazia scolastica e gli extra mai contrattualizzati: fateci entrare dentro tutto, e vedete di quanto vengano sopravanzate le famigerate trentasei ore settimanali; ma questa è un’altra storia, o forse no). 

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