In «sbilico» tra malattia e realtà
Lo sbilico di Alcide Pierantozzi
«Dal 2020 prendo sette pasticche al giorno per sopravvivere, cinque la mattina e due dopo cena».
È il protagonista del nuovo romanzo di Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, a parlare, a raccontare una storia di sopravvivenza nella “melma” di giorni fatti di «continui episodi di dissociazione, allucinazioni, autolesionismo, corse al pronto soccorso, minacce e tentativi di suicidio» (p. 16).
Uscito per Einaudi a maggio 2025, Lo sbilico è il racconto che Pierantozzi fa della sua malattia mentale, ed è un libro, ci spiega l’autore nella nota conclusiva, scritto in presa diretta «quasi come un diario di bordo della malattia, [che] racconta una verità molto spesso alterata dai farmaci e dai miei scompensi emotivi […] Non è un libro di autofiction, anche se ogni tanto qualche invenzione è stata necessaria per esigenze drammaturgiche». Scritto in prima persona, con vari flashback e caratterizzato dal continuo passaggio tra presente e passato, la vicenda trova origine in un racconto pubblicato nel 2024 sulla rivista «Lucy. Sulla cultura» e intitolato Fare palestra per non impazzire, dove emerge già il tema della palestra e dell’importanza dell’esercizio fisico coniugato al motivo del disagio mentale: allenarsi può rappresentare un argine alla malattia.
Ma è con il romanzo che Pierantozzi affonda interamente nella quotidianità del disturbo psichiatrico con spettro autistico del protagonista, affetto da manie, fobie, allucinazioni, e costretto ad una medicalizzazione e ad una dipendenza farmacologica che, se da un lato gli consente di sopravvivere, allo stesso tempo è responsabile di molti effetti collaterali, come la difficoltà a concentrarsi, a scrivere, nonché a vivere da solo e ad avere una regolare attività sessuale.
Al centro della narrazione c’è la vicenda di Alcide Pierantozzi, quarant’anni, costretto a lasciare Milano per tornare nella casa di famiglia abruzzese, dove il solo rifugio e sostegno è la madre malata di cancro, mentre il padre, il Negazionista, si rifiuta di capire o di accettare la gravità della condizione del figlio. La storia racconta la quotidianità del protagonista, divisa tra la sua attività di scrittore, qualche mattinata al lido («è arrivata la fine di maggio e come al solito vado in spiaggia a scrivere», p.33), e le ore di allenamento intensivo in palestra («Dal 2020 mi alleno fino a tre ore al giorno, sei giorni su sette, e ho cambiato del tutto fisionomia», p.16). La madre è senz’altro il personaggio più importante nella vita di Alcide, e da lei ha inizio il racconto: «A quarant’anni dormo ancora con mia madre» (p. 3). È l’unico personaggio capace di rassicurare il protagonista nella malattia, addirittura di “duellare” con la malattia («A trentanove anni per tacitare i pensieri ho bisogno della mamma», p.21), gli ispeziona il corpo, lo visita, anche se non è un medico, riesce a confortarlo, e lo accoglie nel suo letto quando rischia di essere inghiottito dalla sua stessa mente. Ma è una madre che si ammala di cancro proprio quando i disturbi psichiatrici del protagonista stanno raggiungendo l’apice, provocando così una ferita ancora più grande e più difficilmente curabile nel figlio allora trentenne. Un dolore insanabile che fa riemergere quello vissuto da piccolo, quando, neonato, muore il secondo dei suoi fratelli a causa di malformazioni. Un trauma per la madre che si ripercuote su Alcide bambino, influenzandone la malattia. La donna, infatti, andava al cimitero portandolo con sé, e la montata lattea diventava incontenibile appena lei vedeva la foto del bambino sulla tomba «Ogni giorno per un mese, per due mesi, per tre mesi, il latte destinato a mio fratello si riversava per terra insieme alle urla di mamma, e ogni goccia bianca lasciata a marinare sul cemento veniva assalita dagli insetti» (p. 46). Ma non è, Lo sbilico, un romanzo di trama prima della storia per Pierantozzi c’è il linguaggio, ci sono le parole, quelle che consentono una ricostruzione fedele degli eventi, l’unico appiglio mentre si vede impazzire: «Vedersi impazzire è sentirsi tremare le gambe a furia di rimuginarci sopra, e io le ho sentite. Vedersi impazzire è sovrapporsi ad altri corpi, ad altre personalità, è cercare di ingannarsi da soli sulla consistenza di una paranoia. Vedersi impazzire è fare buon viso ai pensieri peggiori prima di crollare del tutto, è inventarsi sentieri sempre diversi per dare un giro di volta alle cose, è ripercorrere costantemente lo scritto e il cancellato della memoria. Vedersi impazzire è fare a botte con la luce, orientarla nei punti giusti del corpo, evitare che si sbrindelli tra le ombre» (p. 22-23).
L’importanza delle parole
Le parole sono una sorta di ossessione per l’autore, perché costituiscono l’unico ponte reale tra lettore e narratore, soprattutto quando il narratore, in un libro come questo, è poco attendibile a causa della patologia. E, proprio perché sono un mezzo per comunicare, le parole presuppongono una lunga ricerca, ed è quindi necessario ponderarle, metterle in discussione, affrontare ogni volta un lavoro di revisione affinché la realtà soggettiva dello scrittore, anche quando è preda di allucinazioni, possa avvicinarsi al lettore. Dietro questa lunga e accurata ricerca non si riconosce, tuttavia, nessuna volontà di stupire il lettore. Le parole di Pierantozzi non sono scelte per un gusto letterario e non sono evocate in preda all’ispirazione, nascono come esigenza personale dello scrittore ed interpretano il suo bisogno di trovare sempre la parola adotta all’interno della pagina, la parola capace di fare da perno per istituire e trasmettere un senso alla sua scrittura. La parola è, come ha dichiarato lo stesso autore in un’intervista, una sorta di carburante al suo pensiero, è uno stimolo che gli dà vita: i pensieri seguono le parole e non viceversa. La necessità di ricercare le parole in modo così ossessivo è forse da ricondurre al disturbo autistico dello scrittore, ma, continua Pierantozzi, è proprio nel disagio psichiatrico che è ancora più evidente la forza devastante delle parole, la loro capacità di provocare una crisi di panico profonda: «Le parole, le loro sillabe, le loro lettere pallottolose, il loro inchiostro schiacciato sulla pagina, il loro suono, funzionano da diserbante o da concime. Solo loro sanno ridurre l’irriducibile» (p. 62). E non potrebbe essere diversamente dal momento che le parole, termine abusato in questo scritto tanto quanto all’interno del romanzo, sono la cura ma anche la malattia per il protagonista, anzi sono all’origine del suo disagio, ne sono la “scaturigine” e il “reagente”. Se le parole non possono guarire, possono, però, aiutare a mettere ordine nel disordine dei pensieri: «Le parole, per i matti, sono feconde. Io ne conosco tantissime, perché sono l’unico strumento che mi consente una ricostruzione degli eventi fededegna. Sono sempre in cerca di parole assolute, che mettono il guinzaglio ai pensieri, che facciano un po’ d’ordine nella scompagine che ho in testa Ogni giorno le cerco nei dizionari, nei libri antichi, nelle traduzioni, e ne faccio dispensa» (p. 24).
Non siamo, pertanto, di fronte ad un romanzo manierista che insegue il culto dell’artificiosità del linguaggio fine a se stesso; ogni ricerca stilistica e linguistica è la premessa per una narrazione in presa diretta, per una verità che, sebbene alterata dai farmaci, urge di essere raccontata. Anzi, leggendo il romanzo si ha la sensazione che qualche parola più artificiosa sia utilizzata proprio per spiegare gli effetti farmacologici, nonostante i medici spesso non incoraggino questa esigenza: «Secondo gli psichiatri non dovrei dare così tanta importanza alle parole. Però è proprio con queste che i medici si salvaguardano dalla responsabilità, certe cose devono dirmele per forza con le parole: e che siano tecniche, specialistiche, altrimenti li incolperei di non essere stati chiari» (p. 62).
Il disturbo psichiatrico in epoca moderna
Le fonti da cui Lo Sbilico attinge il lessico sono molteplici, persino una cartella clinica può diventare motivo letterario, come esemplifica l’esordio del libro: «Mi chiamo Alcide Pierantozzi e sono un paziente lucido, vigile, collaborativo dall’eloquio fluido. La mia ultima cartella clinica dice che ho una mimica facciale mobile, modulabile, che sorrido solo a tratti, congruamente ai contenuti espressi, e che sono orientato nei quattro domini» (p.9). Tutto può diventare letteratura, persino una cartella clinica o un bugiardino medico possono contenere termini o espressioni idiomatiche che assumono un valore poetico e possono aiutarci a capire la condizione di chi vive «lo sbilico e nello sbilico delle cose» (p. 113).
Non siamo di fronte ad un libro che intende dare delle risposte, non è, questo, un romanzo di salvezza con intento consolatorio, e il protagonista continua fino alla fine ad aspettare «i corvi, e invece arrivavano i pensieri» (p. 108). Probabilmente la scrittura di questo libro non fa risorgere l’autore, come invece scrive Walter Siti recensendo il romanzo. Del resto lo stesso Pierantozzi ci informa che «la scrittura, per me, non è un progetto di salvezza. Tutt’altro. Io un progetto di salvezza non ce l’ho» (p. 195). Ma ciò non gli impedisce di compiere un atto di liberazione dalla vergogna della malattia mentale e dal disagio che il disturbo psichiatrico si porta dietro.
Accompagnandoci nella dimensione intima della malattia mentale, Lo sbilico ci guida anche nel mondo che sta intorno al disagio psichiatrico, restituendoci una società, ed anche un sistema sanitario, che continua ad avere molti problemi rispetto alla gestione della salute mentale. Una realtà dove i matti non hanno ancora il diritto della malattia e dove «la maggior parte delle persone non sa distinguere tra la disabilità psichica e quella intellettiva» (p. 26). Questo è il messaggio più significativo del libro di Pierantozzi, ed in questo risiede anche uno dei meriti principali, emblematicamente racchiuso nell’epigrafe iniziale scelta dall’autore: «La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi» (Todd Phillips, Joker). Insomma, Lo sbilico va oltrel’autobiografismo di una malattia psichica ela cura per il linguaggio e per le parole, rivelandosi un libro che riesce a mettere in discussione molte categorie o pregiudizi, e assumendo, in qualche modo, anche una dimensione politica. Riprendendo ancora una volta Siti, e questa volta condividendone il pensiero, questo romanzo ci «parla della fine del Reale in seguito alla sparizione dei Padri», di un nuovo realismo, quello dell’epoca del web, forse il solo possibile. E proprio la particolare condizione del protagonista potrebbe consentirgli di constatare da vicino l’impotenza e l’inganno che si cela dietro questa realtà. Non a caso, proprio lui, che ricerca l’autenticità ad ogni costo, che vuole essere preciso nel raccontare la sua storia, attenendosi «al proposito di non inventare niente», è costretto ad ammettere: «Io impazzisco e tutti mi dicono che la realtà è ancora qui, attorno a me, un po’ più indietro, un po’ più avanti, o come un vento laterale – ma imprendibile. Ho sempre pensato che lo scopo della scrittura fosse interrogare la realtà in cui viviamo – non di mettere in dubbio la realtà in quanto tale» (p. 16)
Se Il male oscuro di Berto, rappresentando la crisi del Novecento, svolge un’indagine sul male di vivere come condizione che accomuna, più o meno consapevolmente, il genere umano, Lo sbilico, si pone sulla scia presentandoci il disagio mentale di un’epoca estremamente violenta, ma allo stesso tempo fragile, dove la leggerezza sembra sostituire l’ideologia e le allucinazioni e i fantasmi sembrano vincere sulla realtà.
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