Walter Rosenblum: la fotografia come atto civile
Documentare e interpretare, a occhi aperti
La mostra dedicata a Walter Rosenblum (1919-2006) tra febbraio e maggio di quest’anno alla Galleria Civica Cavour, a Padova, dal Gruppo Mignon (il collettivo per cui, a partire dal 1999 Rosenblum diventa un maestro ispiratore), è stata l’occasione per riscoprire e parlare di questo artista, uno dei più importanti fotografi americani del Novecento, ancora troppo poco noto in ambito italiano, soprattutto tra i non addetti ai lavori (il catalogo, che è anche il titolo della mostra, Walter Rosenblum master of photography, a cura di Angelo Maggi, offre l’opportunità di approfondirne la conoscenza).
Un’altra importante occasione sarà la mostra che il CMC di Milano inaugurerà il 2 dicembre
Allievo di Paul Strand, influenzato profondamente da Lewis Hine e Walker Ewans, membro della Photo League, per oltre mezzo secolo è stato una figura di spicco della fotografia documentaria e della street photography, inaugurando un nuovo codice visivo o, meglio, una nuova etica della visione che coniuga perfettamente realismo sociale e comprensione estetica, in una prospettiva progressista, attraverso un senso classico della composizione. Le immagini testimoniano i grandi eventi storici (i profughi della guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale, il D-day, gli orrori di Dachau), denunciano miseria e condizioni di disagio (Pitt Street, East Harlem, South Bronx), raccontano la storia di popoli e di paesi (Haiti), la natura incontaminata di certi luoghi (Gaspé), il candore stralunato degli emarginati (Coler Hospital), l’Europa del dopoguerra, e lo fanno esplorando con discrezione e umanità. Non sembrano esistere momenti decisivi, la composizione rivela un processo continuo e distribuito in maniera uniforme, in una tessitura singolare di tempo e di spazio. Se è vero, come affermava Kafka, che «si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente» (e aggiungeva: «Le mie storie sono un modo di chiudere gli occhi»), per Rosenblum vale esattamente il contrario: davanti alle sue fotografie non siamo liberi di chiudere gli occhi, e, anche successivamente, i soggetti continuano a vivere con intensità, rafforzando la visione dello spectator (Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia).
Fotografia come «strumento di azione sociale»
Al contrario della fotografia pittorialista tradizionale che, puntando sul senso estetico, tenta di ammorbidire le immagini, conferendo loro un’atmosfera impressionistica e romantica per elevare il mezzo fotografico al pari delle arti maggiori, la tradizione in cui si inserisce Rosenblum vede la macchina come uno strumento per «invocare l’azione sociale» (Angelo Maggi, L’architettura della fotografia, in Walter Rosenblum, Master of Photography, SilvanaEditoriale, Milano, p.22), per documentare con un’onestà senza orpelli la realtà americana. Per dirla con la critica d’arte Elisabeth Mc Causland, lo scopo principale è «di ampliare il mondo in cui viviamo, farci conoscere la gamma e la varietà dell’esistenza umana, di informarci su orrori sociali inutili come la guerra, di renderci consapevoli della civiltà in cui viviamo» (Angelo Maggi, op.cit., p. 20). Rosenblum però va oltre, ad attrarlo non è solo l’urgenza di testimoniare, di denunciare, ma il desiderio di cogliere la poesia che si cela dietro la nudità dell’esistenza, catturare la bellezza del dramma non scritto della vita che si consuma negli spazi pubblici, rendere eterna la cruda umanità delle emozioni e delle esperienze. Basti pensare a Omaha Beach Rescue, D-Day+1 (Soccorsi a Omaha Beach, il giorno successivo al D-Day, 1944), l’iconica immagine scattata il 7 giugno 1944, il giorno successivo al D-Day, che immortala il sottotenente Walter Sidlowski inginocchiato su un soldato americano, di cui si intravedono solo i piedi, che ha appena aiutato a salvare dalle acque e che sembra volere proteggere con il proprio corpo. La sua uniforme è bagnata, stretta sulla parte alta del torace da un salvagente, il viso cristallizzato in una morsa di dolore; sullo sfondo, dietro, si stagliano altri uomini che, come lui, cercano di prestare soccorso ai sopravvissuti. Si pensi ancora agli struggenti ritratti scattati al Coler Hospital di New York, un istituto noto per il trattamento di pazienti affetti da malattie croniche e gravi disabilità: in Woman in Wheelchair Holding Bible (Donna su una sedia a rotelle con la Bibbia, 1955), una donna anziana, seduta in sedia a rotelle, è colta nell’atto silenzioso e concentrato della lettura. Il profilo delineato dalla luce radente, il capo chino e l’espressione assorta restituiscono una dimensione interiore sospesa, quasi meditativa. L’inquadratura laterale, sobria e composta, accentua il senso di raccoglimento, mentre la luce – mai invadente – scolpisce il volto e le mani con un rigore quasi pittorico. In netto contrasto con la compostezza di questa immagine, in Woman Holding Bible (Donna con la Bibbia, 1962) la figura femminile – anch’essa in sedia a rotelle, con la Bibbia aperta di fronte – solleva lo sguardo e incontra l’obiettivo. Il volto è segnato dall’età, ma gli occhi sono vivi, curiosi, attraversati da una vibrazione di intelligenza e attenzione; la frontalità dello sguardo rompe la distanza tra fotografo e soggetto, instaurando un dialogo visivo. Man with Prothesis (Uomo con protesi, 1962), invece, cattura un momento di tensione e determinazione: un uomo, dotato di protesi agli arti inferiori, si muove con visibile sforzo verso una sedia a rotelle, posta poco distante. Il corpo è contratto nello sforzo, ma l’espressione, pur non visibile in primo piano, emana volontà, desiderio di autonomia. Le scene sono prive di retorica, ciò che si impone non è il deficit, ma la forza dei piccoli gesti che diventano simbolo di affermazione, di presenza. Al di là della tragicità della situazione, Rosenblum sottolinea costantemente la dignità, la sobrietà di donne e uomini impegnati a mantenere una parvenza di normalità in condizioni estremamente precarie. Non vi è pietà nello sguardo, ma un’ombra luminosa che accompagna la fragile bellezza e la solitudine dei soggetti raffigurati.
«L’Architettura della Fotografia»
Il rigore della composizione e l’aspetto documentario vanno di pari passo. Seguendo gli insegnamenti di Strand, Rosenblum apprende che «è necessario prestare maggiore attenzione alla geometria della fotografia», e che la vera arte è quella di «disporre gli elementi all’interno dell’inquadratura in modo che l’immagine risulti non solo esteticamente gradevole, ma riesca anche a raccontare una storia, evocare sentimenti e incarnare il contenuto» (Angelo Maggi, op.cit., p. 10). In questo modo, la composizione diventa uno strumento per evidenziare ciò che si cela dietro alle immagini, rendendo visibili le emozioni e le circostanze vissute dai soggetti, la vita dei luoghi (gli ambienti urbani degradati, ma anche i paesaggi naturali incontaminati). Nasce così la serie dedicata a Pitt Street, cuore pulsante del Lower East Side di New York, un’area densamente popolata da famiglie della classe operaia, che vivevano molto spesso in condizioni precarie, e punto di arrivo di numerosi immigrati, soprattutto dall’Europa, che cercavano fortuna a New York.
Sono scatti che raccontano l’identità multiculturale del quartiere, la quotidianità, bambini che giocano, anziani seduti fuori le proprie case, venditori ambulanti, scene di lavoro e di socialità. A colpire sono le geometrie, le traiettorie visive, spesso oblique o inaspettate, che sottraggono le immagini a ogni convenzionalità documentaria, mentre l’uso sapiente e teatrale della luce e delle ombre richiama le soluzioni luministiche del caravaggismo e della pittura di Velázquez, conferendo ai volti e ai corpi una densità quasi sacrale. Ne risulta una narrazione visiva in cui l’ordinario assume valore emblematico, e la marginalità si trasfigura in testimonianza silenziosa e potente. L’artista non si limita a registrare la realtà, ma la interpreta restituendo con rara intensità gli affetti, le emozioni inscritte nei corpi e nei volti dei suoi protagonisti.
La stessa cosa accade per tutte le altre serie, in modo particolare in quella dedicata ai profughi spagnoli (dice Rosenblum: «Quando la Seconda guerra mondiale finì, tutti i rifugiati tornarono a casa, tranne coloro che erano stati le prime vittime della guerra, i rifugiati dalla Spagna fascista. Non sono mai riusciti a tornare»): nell’uomo anziano che guarda dritto nell’obiettivo, all’interno del campo per i profughi mutilati, l’autore riesce a fermare l’istante con intensità evocativa, rendendone visibili, le memorie e le stratificazioni esperienziali; egli non è colto solo come attore di un contesto sociale, ma anche come portatore di un’identità privata, di un’interiorità complessa e profondamente umana (Old Man, Camp for Mutilated Spaniards, Toulouse, France – Uomo anziano, campo profughi spagnolo per mutilati, Tolosa, Francia, 1946).
Uno sguardo politico e relazionale
Come scrive Angelo Maggi, «le immagini sono create attraverso processi di semplificazione e sottrazione, eliminando qualsiasi elemento compositivo disturbante per focalizzarsi unicamente sulle forme essenziali e sullo spirito che queste trasmettono» (op. cit., p. 26). In tal senso, le opere di Rosenblum si collegano, secondo la prospettiva teorizzata da Ariella Azoulay al concetto di «civic gaze», in cui la fotografia si pone come atto politico e relazionale che non si limita a osservare, ma instaura una relazione etica con il soggetto ritratto, riconoscendone la vulnerabilità, la storia e la piena cittadinanza umana. Laddove il documentario rischia di reificare il soggetto, l’estetica di Rosenblum lo restituisce nella sua pienezza ontologica, costruendo un archivio visivo della dignità e della resistenza. Se Barthes aveva individuato nel punctum il momento di contatto emotivo tra immagine e occhio, Rosenblum sembra operare proprio su quella soglia, rendendo visibile l’invisibile, sottraendo all’oblio e alla marginalità per restituire presenza e densità, senza mai esibire ed estetizzare la sofferenza. In questo processo, come ha insegnato Susan Sontag, non si tratta solo di mostrare, ma di assumersi la responsabilità dello sguardo. È proprio attraverso tale responsabilità che Rosenblum riesce a restituire l’intimità profonda dei suoi soggetti, offrendo a chi guarda non un’immagine da consumare, ma una presenza da incontrare.
(Foto in copertina per gentile concessione ©Estate Walter Rosenblum)
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