La verità, in modo obliquo. Su Elisa Biagini
L’intravisto
Nel 2024 è uscita, per Einaudi, l’ultima raccolta poetica di Elisa Biagini, L’intravisto, un’opera che la conferma come una delle voci più rilevanti del panorama italiano.
La scrittura della poetessa fiorentina, come afferma lei stessa, non è mai «sentimentale, compiaciuta, rassicurante» e, soprattutto, è estranea alle tendenze contemporanee («Troppe cose già dette, / troppo già respirato»); partendo dalla realtà del modo fisico, dal corpo delle cose, si addentra nelle crepe (parola fondamentale e ricorrente in Biagini) del visibile, ripercorre con cruda ed essenziale esattezza le rotture della quotidianità, fissandole in immagini asciutte, nitide e dense di significato, in visioni oblique che scompaginano l’ordinario («Posso parlare del mondo in tanti modi senza necessariamente descriverlo. Come dice Dickinson: “Tell all the truth but tell it slant”, dì tutta la verità ma fallo in modo obliquo, non deve essere un racconto didascalico […]. Si tratta piuttosto di un attraversamento mediante l’esperienza e di una reinvenzione»; questa e la precedente citazione, sono tratte dall’intervista, a cura di Annachiara Atzei, uscita in «Poetarum Silva» il 27 novembre 2023, Ogni scrittura onesta parte dal corpo: intervista a Elisa Biagini). La lingua sembra partire dal frammento di un’esperienza personale (i viaggi, i festival, le residenze studio, le strade familiari di Firenze, i luoghie della Maremma) per poi superarsi e allargarsi, così, ad una dimensione universale, in una riflessione continua alla ricerca di un senso ulteriore; la citazione in esergo è già una dichiarazione di intenti: «qui lo sguardo / si apre / come un’arancia sbucciata». Tanto più lo sguardo si apre, tanto più scivola nell’«altrove», più è possibile un ri-trovarsi, ri-allinearsi, ri-orientarsi: «Qui, eppure, sempre altrove di sguardo, l’occhio appoggiato alla crepa. Spostamento di sé e di senso, tensione che inquieta, che scuote e che apre. Si salta la linea del proprio orizzonte. Cercando l’ombra dell’altro ci si allontana, si prende dimora non-qui, le spalle voltate. La lingua bagnata nel suono del rompere, risuona fuori da sé. Dove più fortemente percepisco l’altrove, lì affondo in me stessa, ripesco la bussola, sollevo lo specchio» (E. Biagini, L’intravisto, p. 3).
A colpire è soprattutto il movimento delle parole, come se quello della poetessa fosse un viaggio nei sotterranei dell’inconscio, della memoria, una discesa che riflette progressivamente, e in modo rovesciato, il riemergere al conscio, il ritorno a se stessa; basti pensare all’ultima poesia, La discenderia: «È alla radura che si apre il fotogramma: / il tuo viso che vira al cinabro del rimpianto, / io con la mia goccia di mercurio già sul labbro. / Dal cupo della gola cerchiamo / quanto è in fondo allo specchio. // Le querce e i cerri sono qui capovolti: puntellano / un sotto / che minaccia una frana ad ogni passo, gallerie / che ci portano a serrature senza porte. / L’acqua che era seccata ritrova ora il suo punto di / rugiada / nel tuo polmone sinistro: / ti si riempie al ritmo della voce, porta la luce scivolata via dagli occhi / in questi torti trafori nel passato, riporta quel verde / alle foglie. / Sono vene affaticate che a volte non reggono l’ago / del ricordo / che è come fulminato tra due mani che scavano radici // e allora inciampiamo per la luce infittita e / raccogliamo certi sassi / che spremuti ci riportino a gocce dentro casa» Miniera del Siele.
Il rapporto con le arti performative
Come in altre opere di Biagini, anche in L’intravisto è fondamentale la dimensione testuale/installativa, il dialogo costante con l’immagine visiva e l’arte contemporanea. A partire dalle cinque foto ingrandimento di sassi (dell’autrice) il cui aspetto è plasmato dalla corrente e dall’attrito fluviale o dall’azione dell’uomo nella miniera della Siele (corrispondono ad altrettante sezioni del libro), che confermano la costruzione stratigrafica dei testi e l’importanza dell’elemento minerario (che sembra rimandare alla storia famigliare, a un avo proprietario di una miniera, si legga Bidental). L’attenzione all’aspetto figurativo è ancora più evidente in Prendere dimora, il cui testo ha origine da Yellow girl, la scultura in ceramica di Kiki Smith del 2003 (esposta come installazione permanente, dal 2019, alla Galleria continua di San Gimignano, nel Torrino Rocca di Montestaffoli) e ne amplifica, dilatando sonoramente l’aspetto cromatico, l’esperienza immersiva: «è l’acuto del giallo che apre / il corpo, ci pesca / la bussola e si avvia // tra i sassi spaccati le / briciole gialle di un / pasto di luce // su questa carne di carta / si traccia la gialla / misura dello sguardo. // nei bulbi senza luce / vibra il tuorlo / di un corpo sospeso. // qui si raccoglie un muschio / giallo di attesa, lento / come nebbia. // tra l’albero e la sua ombra / tu resti nell’occhio giallo, / tra cane e lupo». A completare, il paratesto iniziale, di Folgore da San Gimignano, che sembra anticipare la prima terzina («ché non ci ha miglior vita, in veritate: / e questo è vero, com’è ‘l fiorin giallo») e il frammento finale, et pipere et croco, di origine medievale («poi ti rifai un orecchio, /riappendi le foglie // e prendi dimora / nell’onda dell’ombra».)
Il viaggio di Biagini incrocia anche l’opera dell’artista concettuale Graciela Sacco: gli occhi dipinti sugli scalini del Museo Nacional de bellas artes diventano uno strumento potente per testimoniare gli orrori della dittatura e tramandarne la memoria, in Esma: «Una pioggia che non lava / la memoria. Gli scalini / hanno occhi e una trave / ti battezza a ogni passaggio. / Cappucci neri in un bosco di / fucili, piedi ai vetri» (in generale, l’importanza dell’immagine nelle sei poesie scritte durante un soggiorno a Buenos Aires è stata spiegata dalla stessa Biagini nell’intervista, a cura di Franca Mancinelli, in «Le parole e le cose²»).
Il tentativo di indagare le potenzialità di altri tipi di narrazioni è avvenuto anche con la musica; basti pensare a Fiato. Parole per musica (Edizioni d’If, 2006), un adattamento delle sue poesie in ballate (i modelli sono Fabrizio De André e Leonard Cohen), e alla collaborazione con il musicista Filippo Gatti, culminata, nel 2013, nella pubblicazione del libro/album Intreccio di ciglia.
Si tratta, come ha già avuto modo di notare Fabio Zinelli nella recensione a Nel bosco, «non di uno sfondamento degli steccati tra i linguaggi di tipo neoavanguardista, ma di proposte per un rinnovamento della lingua della poesia a contatto con esperienze portatrici di innovazioni sensibili o comunque vicine a linguaggi più socialmente condivisi» (F. Zinelli, recensione a Nel bosco di Elisa Biagini, «L’Indice dei libri del mese», 2008, 2, XXVI, p. 20).
Una voce novecentesca
Nonostante l’importanza delle arti performative, la poesia di Biagini non si esaurisce in un semplice gioco di suggestioni visive e sonore, ma è capace di coniugare pensiero e liricità radicandosi in un chiaro sistema di coordinate intellettuali. La poetessa lavora i propri componimenti in modo plastico, come un oggetto, accumulandovi sensi e soprasensi, fino a farne un definito correlativo della propria esperienza interiore, in cui non mancano evidenti richiami alla lirica del Novecento. A partire dal titolo della raccolta che sembra fare riferimento ad una chiarezza non definita, incostante, di estrema precarietà e fragilità che richiama, in un certo senso, i bagliori montaliani de Le Occasioni, e la poesia, infatti, nasce dal tentativo di cogliere ciò che non apparentemente visibile, «l’inclinato, la vita / al confine del piede» (Un istrice); Montale, come ha già notato Zinelli, è presente anche altrove, nelle «scaglie lessicali e metriche», nei «senhals animali», nei «tanti endecasillabi schietti o embedded» che rimandano più precisamente ai Mottetti. Più in generale, però, è il tono a ricordare il poeta genovese: il modo di immergere il lettore in medias res, in un continuum narrativo frammentato e cristallizzato in singole immagini o situazioni in cui non è possibile alcun tipo di linearità, di sviluppo. Siamo in presenza di un diario lirico nato dai sussulti della memoria volontaria e involontaria, il cui tentativo è quello di immobilizzare classicamente una verità simbolica concentrata in un gesto o un sentimento. La paratassi, come accadeva nella seconda raccolta poetica di Montale, è l’unica forma possibile di organizzazione dello stile e della realtà: «Dalla pianta del piede sale / il vibrare di scaglie, il soffiare della polvere al tempo» (Terra di Mezzo, p. 24); «Più giù, lo schioccare di pneumatici / sui sassi, il fremere di uccelli senza / nome, l’odore di un raccontare denso / come un miele futuro. // Ma è qui, nell’ansa d’ombra / e sole che mi tiene, c’è tutto / un crepitare, un dire / che non riesco a intendere: // l’orecchio è una conchiglia fonda / che solo di sé risuona» sotto quel tiglio, ancora, Gerfalco, p. 27; «Se alla volpe stranita / dai fanali o all’asino / che all’infinito aspetta / un poco d’acqua, non so / a chi oggi io somigli: // mi sale nella gola come un suono / d’animale già estinto o che / spera, nascosto, di sfuggire» … e un falco. Colline Metallifere, p. 40; «passo il riarso / ed entro la gola delle / anguille, dei nidi / nella roccia – con le scarpe / affondate nel fiume sento / la voce ritornare suono» Madonie, p. 60.
È molto probabile che le tracce montaliane non suggeriscano, o non suggeriscono affatto, una derivazione quanto il riconoscimento di uno sfondo, di una continuità dinamica e dialettica con la tradizione di stile alto; quella di Biagini sembra essere una memoria pratica che registra le voci del vocabolario montaliano come parte di una più ampia koinè novecentesca, di cui fa parte anche Vittorio Sereni come dimostra una delle poesie più interessanti della raccolta, in cui è possibile intravedere echi e allusioni:
«Ancora?» mi dici
e l’orma del
fumo ti sembra
la stessa, la
porta di nuovo
sbattuta
Ma qui
il riso mantiene
la buccia, non perde
l’amaro anche dopo
il lavaggio
degli anni, le travi
si incastrano agli
occhi, il cemento
rimbalza il respiro.
«Ancora», ripeto,
diverso ma
sempre lo stesso
pulsare di un sangue
di altri ad un collo
che è il nostro.
Risiera di San Sabba
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