Inchiesta sulla letteratura Working class/1 – Ferruccio Brugnaro
Da qualche anno si è affermata anche in Italia l’espressione letteratura working class per designare i testi che mettono al centro l’autorappresentazione di lavoratori a basso reddito, di figli di operai nonché di esponenti della classe lavoratrice precaria dei servizi, delle pulizie, della ristorazione, della logistica, della cura alle persone anziane. Non è un pranzo di gala (2022) di Alberto Prunetti, curatore tra l’altro della collana “Working Class” per Alegre, è il saggio che ha contribuito in modo decisivo ad aprire un dibattito in questo senso. La categoria in questione riabilita le nozioni di classe e di conflitto, da lungo tempo rimosse, e si distingue dal generalizzato interesse che l’editoria e l’accademia hanno rivolto alle tematiche del lavoro. Apriamo l’inchiesta con un uno dei padri della scrittura operaia italiana: Ferruccio Brugnaro (1936), operaio a Porto Marghera a partire dagli anni Cinquanta, protagonista delle lotte del Consiglio di fabbrica Montefibre e poeta, tradotto in Francia, in Germania, in Inghilterra e in Spagna. Negli Stati Uniti ha partecipato al Poetry festival di San Francisco nel 2007 e nel 2009 ed è stato tradotto da Jack Hirschman.
Le pubblicazioni dell’inchiesta continueranno con cadenza quindicinale.
D. L’etichetta Letteratura working class non esisteva quando hai iniziato a scrivere. Come ti rapporti a questa categoria?
R. Letteratura Working class è un termine venuto molto dopo. Io sono nato lo stesso giorno in cui i franchisti a Granada hanno catturato e fucilato Garcia Lorca. La mia spinta a scrivere origina dalle condizioni materiali che, fin da ragazzino, vedevo intorno a me. Ero il penultimo di dieci fratelli, avevo uno zio che aveva fatto la prima guerra mondiale e mi narrava di aver rischiato la vita per aver sbagliato una parola d’ordine, ho visto i fuochi della seconda guerra mondiale su Marghera, l’enorme nuvola di fumo che s’innalzava su Treviso bombardata, e la condizione di lavoro di mio padre ai forni della Montecatini e la sua tuta picchettata dalle scintille dell’altoforno. Sentivo dentro di me il bisogno di raccontare questa sofferenza e non mi ritrovavo nelle letture. Mia madre, che aveva la quinta elementare, amava la letteratura, mi leggeva Omero, Dante, Pascoli, sapeva a memoria le poesie di Carducci legate alle stagioni. Ma io avvertivo la necessità di trovare parole per oppormi alla sofferenza, alla povertà, alla solitudine. Dal 1954 sono entrato in fabbrica: prima in una piccola fabbrica di chiodi e reti metalliche, dove le macchine facevano un rumore terribile, schizzando olio sui muri e spesso qualcuno perdeva una mano; il ferro veniva cotto ad alta temperatura e passava in vasche di zinco fuso, i lavoratori erano quasi tutti ammalati e soprattutto le ragazze, con le mani rovinate, erano pesantemente maltrattate. Poi sono passato al Petrolchimico, una fabbrica molto più grande dove pensavo che le condizioni di lavoro sarebbero state migliori, invece anche lì gli incidenti con l’acido solforico e l’ammoniaca erano molto frequenti. Infine sono stato assunto alla Montefibre: non avevo una preparazione politica ma ho subito verificato le condizioni concrete di sfruttamento. Ho accettato di far parte della Commissione interna, eletto a pieni voti. Il mio primo atto è stato quello di fermare la produzione perché nel reparto non si respirava e non hanno avuto il coraggio di licenziarmi perché ero nella Commissione interna.
D. Come hai conciliato il tuo lavoro operaio con l’attività di scrittura? Perché fra i diversi generi di scrittura hai scelto la poesia?
R. Leggevo molto ma la prosa non mi soddisfaceva: la poesia nella sua concisione invece andava dritta al cuore dei problemi, mi pareva un’arma più diretta. Il critico Aldo Camerino si era dato da fare perché pubblicassi un piccolo libro dall’editore Rebellato: L’enigma e il vero (1965). Anche se ha avuto qualche riconoscimento, quella mia scrittura mi lasciava insoddisfatto. La stessa forma-libro del resto non mi pareva adeguata ad arrivare agli operai. Così ho iniziato col mettere nella bacheca della fabbrica delle poesie: anonime perché temevo che i miei compagni pensassero che approfittassi del mio ruolo per far passare le mie cose. Ma sono stati i compagni stessi a invitarmi a firmare le mie poesie e a distribuirle in fabbrica nella forma del volantino: in particolare, un giorno tornando dalla mensa una ragazza mi ha detto che ero la voce di tutti e mi ha convinto. Parte di questi componimenti, tirati al ciclostile e diffusi come volantini, sono stati poi pubblicati nel 1975 dall’editore Bertani (Vogliono cacciarci sotto). Hanno avuto un enorme successo: non solo a Marghera, ma in tutta Italia, dalla Fiat alle Fonderie di Brescia fino al Sud. In una manifestazione a Firenze contro la guerra del Vietnam ho portato un migliaio di volantini e tutti li leggevano in cerchio. È stata una grande soddisfazione.
D. Qual è stato il tuo rapporto con il campo culturale italiano? Ci sono autori e autrici che sono diventati per te dei punti di riferimento? Hanno contato o contano di più autori italiani o stranieri?
R. Il mondo intellettuale in generale non ha riconosciuto la mia poesia. Zanzotto, con Roversi e Majorino, sono stati tra i pochi ad aver capito il senso di ciò che scrivevo. A esempio, nel 1963 partecipo a Vicenza al premio Alte Ceccato con la raccolta breve Il gelo dell’acciaio, in giuria ci sono Isgrò, Zanzotto, Gino Nogara, e altri; secondo alcuni, nella mia poesia c’era troppo ferro, troppo metallo, troppi monomeri, troppi acidi. Zanzotto mi ha difeso, riconducendo i versi alla mia condizione concreta di lavoro e vedendone tutta la novità. Molto più tardi, durante la prima Intifada, una mia poesia per i giovani palestinesi in lotta è stata fraintesa da Barberi Squarotti come un discorso antisemita. In Italia ho pubblicato con gli editori Bertani, Campanotto e altri; miei testi sono presenti in diverse antologie, tra cui Il pubblico della poesia, Poesie e realtà, Poeti del dissenso. La ricezione più consapevole però c’è stata e c’è ancora in ambito francofono o negli Stati uniti: nel 1998 sono stato alla libreria di Lawrence Ferlinghetti e poi al Festival di San Francisco, al teatro dove ha cantato Caruso, colmo di gente. Leggevo i miei testi in italiano e Jack Hirschman li traduceva in inglese.
I poeti della beat generation o i versi di Brecht, che apprezzo, non sono tra i miei modelli. Nei miei versi credo circoli piuttosto François Villon e il suo appello ai “fratelli umani”. La poesia per me è un atto che va contro la “famigerata morte”: e non solo quando svela l’orrore dell’ingiustizia e della guerra. Nel mio Ritratto di donna (Campanotto 2001) c’è un atto d’amore per la donna, credo fuori dagli stereotipi poetici che ne limitano la libertà.
In Italia ci sono stati poeti che hanno condiviso la mia stessa esperienza: Luigi Di Ruscio a esempio ha scritto versi dalla Norvegia dove lavorava anche lui in una fabbrica di chiodi. Dentro l’esperienza di fabbrica è nata nel 1980 la rivista abiti-lavoro a cui ho partecipato assieme a Giovanni Garancini, a Sandro Sardella e ad altri che, come scrive una brava ricercatrice come Monica Dati, ha pubblicato per una decina d’anni poesie e prose operaie, interviste e dibattiti letterari, canti di popoli in lotta per la liberazione, musiche, vignette, recensioni, versi in dialetto, pitture alternative e rubriche internazionali.
In generale posso affermare con forza che non ho obiettivi estetizzanti: la parola deve piuttosto essere un contributo per liberare dalla miseria e dalla guerra. La mia poesia insomma non ha la radice nella parola ma nel sogno e nel lavoro per un cambiamento della condizione umana, sempre più segnata dalla vergogna della sopraffazione e della guerra.
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Le colpe dei figli che ricadono sui padri, forse anche sulle madri…
M’è parso davvero strano che scrivendo di working class LN sia partita da Ferruccio Brugnaro. Seppur io non conosca l’opera del poeta operaio mi riecheggiano alla mente le polemiche e le mezze frasi che in anni di frizzante contestazione operaia, e ben oltre, si inserivano nei discorsi dei duri e puri. Loro, meglio, anch’io con loro disdegnavamo la protettiva appartenenza ad un sindacalismo garantito. Di fatto allora, ma anche oggi, esiste un sindacalismo che vive grazie alle garanzie concesse dal sistema industriale. Suo, e nostro, malgrado.
L’argomento è decisamente controverso e di difficile collocazione, me ne rendo conto.
Qualcuno diceva che per fare letteratura, per dedicarsi allo scrivere bisognava aver tempo, quel tempo che la classe operaia non poteva avere a disposizione. Soprattutto quella classe operaia di Porto Marghera, quella composta dal cattolico mio padre assieme a migliaia di altri padri comunisti, socialisti o democristi che fossero.
Far parte del CDF, spesso sollevato a tempo pieno (dipende dalla potenza numerica espressa dalla fabbrica) era un vantaggio importante, intrigante al tempo stesso, rispetto agli altri lavoratori.
Si, certo c’erano pure lavoratori che ruffianamente potevano imboscarsi, essere destinati dai capi a lavori meno tossici secondo equilibri di gestione del reparto, oppure isolati perché intrattabili e minacciosi. Ma di tutti questi piccoli numeri non c’è risultato di produzione culturale tout-cour.
Sappiamo bene il prezzo pagato dalle vittime di azioni scellerate degli anni ’80, pure quelle de “La fabbrica dei veleni”.
Per una rivista di cose letterarie è sacrosanto suscitare interesse, anche di andare in profondità prendendosi dei rischi polemici. Ben vengano le interviste ai viventi, credo sia opportuno aggiungere anche alcune note riferite anche a chi non c’è più come Gabriele Bortolozzo e seppur “lontano dal mondo industriale” il Vitaliano Trevisan.
…e sto parlando limitatamente della parzialità veneta.
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IL PERSONAGGIO «Io, poeta operaio e comunista libero
non ho voluto indottrinare mio figlio»
Ferruccio Brugnaro, padre di Luigi, si racconta: la fabbrica, le navi e Zanzotto
MESTRE «Sono nato la mattina in cui i fascisti ammazzarono Federico Garcia Lorca nell’agosto del 1936». Ferruccio Brugnaro inizia così. Pacato e appassionato insieme. Un operaio. Un poeta. Un uomo libero. Un «comunista non dogmatico» sottolinea «e tale resterò sempre». E padre, sì, del sindaco di Venezia, Luigi, il suo primogenito. Il minore è Gabriele e di mestiere fa l’imprenditore pure lui. Quando si ritrovano a casa, insieme, discutono i tre Brugnaro, anche animatamente. Ed è il sale di una famiglia venuta su a pane e principi libertari. «Perché il comunista non dogmatico è quello che sa mediare ». Si stupisce, Ferruccio,penultimo di dieci fratelli, nato in una famiglia semplice, con chi gli ha contestato la recente lettura pubblica nell’hotel a sette dicasi- sette stelle di Venezia, l’Aman organizzata da Diana Marrone e Paolo Graziano di Slow Words People and Stories from this World. «Pochi mesi fa ho fatto la stessa cosa in carcere, a Santa Maria Maggiore. Non è importante dove, purché la poesia arrivi a tutti, è il nocciolo dell’essere umano. Non si compra e non si vende».
L’autoritratto del leader sindacale della Federchimici Cisl (quando la Cisl dribblava a sinistra la Cgil) è conciso e programmatico: «Gioisco della vita, non capisco chi si lagna dell’autunno, adoro il cambiamento delle stagioni perché è sinonimo di vita». Ha iniziato negli anni ’60 con un’idea rivoluzionaria in tempo di rivoluzioni: ciclostilare non solo volantini in cui si chiedeva assistenza sanitaria in fabbrica ma anche poesie. «Non ho mai smesso, – spiega – ora uso le email. Ho trovato così il mio primo traduttore francese, uno studente della Sorbona che si è imbattuto in una mia poesiavolantino contro la guerra nel 2002». Da allora Brugnaro è stato pubblicato su 150 testate dal Canada all’Algeria. La sua prima raccolta di poesie è del ‘75: «Vogliono cacciarci sotto». «Una signora mi ha detto che dovrei ripubblicarla intitolandola ‘Ci hanno cacciato sotto’. Ho risposto ‘Mai!’». Negli anni successivi escono «Dobbiamo volere» e «Il silenzio non regge».
Seconda metà degli anni ’70: «Cominciava il riflusso – ricorda il poeta operaio – e con il Job’s Act si è consumata, quarant’anni dopo, la vendetta dei padroni». Disilluso? Amareggiato? Arrabbiato? Macché. «Se ci sarà lievitazione di un pensiero progressista si può riavvicinare la gente al voto ». Della politica veneziana, implicitamente, del figlio, preferisce non parlare. È nato 79 anni fa e non ieri, l’ultima cosa che vuole è essere messo in contrasto con il sindaco: «Ho cresciuto i miei figli nella massima libertà, venivano alle manifestazioni da piccoli solo se lo desideravano. Li ho visti poco a quel tempo – ero sempre alle prese con le lotte sindacali – li ha tirati su Maria (la moglie n.d.r.). Ho ritenuto di non operare nessun indottrinamento su Luigi e Gabriele. Sono uomini liberi e io rispetto la loro libertà ». A Ferruccio sfugge solo un «Si è trovato un bilancio….Chi l’ha preceduto non ha certo lavorato per la cosa pubblica». La lealtà alle proprie convinzioni tocca anche i temi ambientali, sua cifra poetica: «Quando passo davanti alla Montefibre penso a come sarà quando rinascerà con altre aziende che non impattino sull’ambiente. Le polemiche sulle grandi navi? Sono in parte strumentalizzate come molti altri temi. Non scendo nel merito». E da ex sindacalista aggiunge soltanto: «Dico che cinquemila posti di lavoro vanno tenuti in considerazione». Da Marghera dove ha lavorato per decenni, l’operaio poeta ha girato il mondo, incluso un tour negli Stati Uniti che l’ha lasciato basito: «Nelle librerie la letteratura italiana è quasi del tutto assente. Eppure i libri sono il primo veicolo di cultura». Di altri libri, quelli delle polemiche suscitate in laguna per il gender non vuole parlare «sono sciocchezze». Parla invece con calore delle battaglie e delle convinzioni di una vita.
Di Papa Francesco dice: «E’ una brava persona ma parliamo di una Chiesa che non tiene conto della sessualità umana. Contrabbandiamo ancora l’idea che l’omosessuale sia un malato! Siamo eterosessuali, omosessuali, transessuali, lesbiche. Sul dato naturale non c’è altro da aggiungere». L’ultima fatica di Brugnaro è del 2014, «Le follie non sono più follie» (edizioni Seam), raccoglie versi di periodi diversi, spuntano ancora le desolanti altezze degli altiforni ma anche l’invettiva contro l’«Ordinanza che vieta l’elemosina» a Venezia, nel 2008. E poi ci sono le grida di giubilo, pochi versi, quasi scheggiati, ma potenti, per ciascuno dei nipotini nel giorno in cui sono venuti al mondo. L’aveva intuito Andrea Zanzotto, in una recensione del ’73 sul Giorno, che lo stesso Ferruccio segnala: «La sua è una scrittura troppo forte per ridursi a mera narrazione, a cronaca della vita di fabbrica».Una citazione, quella del grande cantore del Paesaggio, che è motivo di vanto:«Andrea per me era un fratello maggiore. – dice Brugnaro – Lo conobbi negli anni ’60, mi disse ‘Vieni a trovarmi’. E così ho fatto, inforcando il ‘motone’ rosso per arrivare a Pieve di Soligo. Non parlava molto ma quando parlava, tagliava ». Affinità elettive fra il poeta di fabbrica e il maestro, a quanto pare entrambi uomini silenziosi visto che Maria lo rimbrotta ancora oggi: «Non parli mai». E Lui: «Credo che in un bosco sia meglio star zitti». O lasciar parlare la poesia, come questa, dedicata a Garcia Lorca: «Le tue grida intrise di sangue giunsero lontano, si incrociarono, si strinsero alle mie grida in un’alba d’agosto senza eguali per bellezza e ferocia».
19 ottobre 2015
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