Calvino pubblica Calvino
Per Carocci editore è da poco uscito Calvino pubblica Calvino. Edizioni, indici, varianti, di Virna Brigatti. Pubblichiamo una parte del secondo capitolo, dedicata alle vicende editoriali del Sentiero dei nidi di ragno, ringraziando autrice ed editore.
A partire da questo secondo capitolo l’analisi critica si concentrerà su alcuni libri pubblicati da Italo Calvino, senza la pretesa di esaurire in termini assoluti il potenziale ermeneutico di ciascuno, quanto piuttosto suggerendo una modalità di lettura e di appropriazione dei significati dei testi in essi contenuti che potrebbe poi essere trasferita anche sugli altri libri, cui non sarà dedicata una attenzione specifica.
Prima di approdare dunque a queste indagini puntuali, è però utile tracciare una mappa cronologica delle prime opere di Calvino che metta al centro la loro storia editoriale, in particolare in rapporto agli anni Quaranta e Cinquanta, dall’esordio nel 1947 con Il sentiero dei nidi di ragno ai bilanci poetici operati tra 1958 e 1960, con la pubblicazione dei Racconti e dei Nostri antenati, arrivando fino alle ultime sistemazioni dei racconti realistici nei primi anni Settanta.
Il debutto con Einaudi nel 1947 con Il sentiero dei nidi di ragno è infatti emblematico e accentra su di sé sia le questioni che riguardano i rapporti tra forme narrative lunghe e brevi, sia quelle che coinvolgono il grado di consapevolezza del valore della mediazione editoriale nel costituirsi dell’identità letteraria di un autore: «I racconti non si vendono, bisogna che fai il romanzo», queste le parole, secondo testimonianza di Calvino stesso, con cui Cesare Pavese incitò il giovane scrittore a presentarsi ai lettori e ai critici all’insegna della forma letteraria che ormai a quell’altezza cronologica si era indelebilmente «insediata a fondo nel sistema di produzione dell’editoria libraria», sostenendo il consiglio con ragioni prettamente pragmatiche, in coerenza con la sua ormai più che decennale esperienza di funzionario editoriale presso la casa editrice Einaudi.
Calvino, che aveva già dato su periodici vari qualche prova narrativa interessante solo nella forma breve o brevissima di racconti e apologhi, accolse l’energico invito dell’autorevole letterato editore, pubblicando nell’autunno 1947 Il sentiero dei nidi di ragno, nella collana I Coralli di cui è direttore dal 1941 – anno anche della sua apertura – proprio Pavese. Un romanzo, dunque, emerso faticosamente da un rovello teorico e stilistico tutt’altro che transitorio, di cui si ha una prima sintesi in una emotiva lettera a Silvio Micheli dell’8 novembre 1946, contemporanea alla fase di stesura del testo:
So che tu rovesci tonnellate di romanzo ogni giorno, che scrivi romanzi con l’intreccio, con l’incesto, romanzi gialli, rossi, turchini, romanzi con l’acqua corrente e l’acqua fredda.
Questo mi fa crepare d’invidia perché io sono sempre lì che me lo meno. Io speravo di fare un librettino di racconti, tutto bello pulito stringato, ma Pavese ha detto no, i racconti non si vendono, bisogna che fai il romanzo. Ora io la necessità di fare un romanzo non la sento: io scriverei raccontini per tutta la vita. Racconti belli stringati, che come li cominci così li porti a fondo, li scrivi e li leggi senza tirare il fiato, pieni e perfetti come tante uova, che se gli togli o gli aggiungi una parola tutto va in pezzi. Il romanzo invece ha sempre dei punti morti, dei punti per attaccare un pezzo all’altro, dei personaggi che non senti. Ci vuole un altro respiro per il romanzo, più riposato, non trattenuto e a denti stretti come il mio. Io scrivo mangiandomi le unghie. […]
Ora non devi credere che io non abbia idee per romanzi in testa. Io ho idee per dieci romanzi in testa. Ma ogni idea io vedo già gli sbagli del romanzo che scriverei, perché io ho anche delle idee critiche in testa, ci tutta una teoria sul perfetto romanzo, e quella mi frega.1
Il sentiero dei nidi di ragno è un libricino in sedicesimo, di 209 pagine, pubblicato con un finito di stampare del 10 ottobre 1947, meno di un anno dalla lettera appena citata. Un romanzo sì, ma breve, in merito al quale però l’autore non mette in discussione lo statuto di genere.
Nella lettera del 3 gennaio 1947 a Eugenio Scalfari, Calvino dichiara infatti di aver finito «in questi giorni» il suo «primo romanzo […], un’esperienza di malvagità e schifo umani, ma con una speranza di redenzione cristiana (terrena, però), più dichiarata che raggiunta. Un romanzo terribilmente mio, una rischiosa aspirazione di serenità».
Il tormento stilistico-compositivo da cui Il sentiero emerge,2 si aggancia in termini esattamente speculari al tormento relativo alle modalità di pubblicazione, alla ricerca di un editore con cui farsi notare. Infatti, in quella stessa lettera, si ritrovano alcuni obiettivi precisi per l’anno appena iniziato, tra cui «far fuori il libro, vincere un premio letterario grosso». Il riferimento al premio sottintende il fatto che il romanzo, nella sua redazione dattiloscritta, è già stato mandato in quegli stessi primi giorni dell’anno al premio Mondadori e, come giustamente fa notare Andrea Dini, «la spinta al romanzo era stata indotta [anche] dal desiderio di vincere un premio letterario».
Ho finito in questi giorni un romanzo Il sentiero dei nidi di ragno molto scabroso e difficile e l’ho mandato al premio Mondadori. C’è Ferrata nella prima commissione, ma adesso ho saputo che ci sono anche tipi come Gotta, Brocchi e se è vero lo ritiro. È un grosso problema: Einaudi adesso non può pubblicare che cose di sicura vendita e non si sa come fare. (a M. Venturi, 5 gennaio 1947)
Da queste ultime righe si ricava da un lato quasi una contraddizione rispetto al proposito espresso per il nuovo anno, per quanto riguarda il premio «grosso», il quale risulta essere a un tempo auspicato e però poi disprezzato, di fronte alla possibile presenza nella giuria di scrittori di riconosciuta fama e successo al livello della narrativa di intrattenimento. Trovare la giusta sede di pubblicazione pare infatti problematico in quei mesi, non solo per il romanzo, ma anche per i racconti: «escluse le “Unità” non si sa dove accidenti scrivere» (a M. Venturi, 19 gennaio 1947). La collocazione editoriale del suo primo testo sembra quindi non così prevedibile a priori e le ragioni si comprendono in rapporto a quanto dichiarato nella contemporanea corrispondenza agli amici, nella dedica del libro e sulla base di quanto affermato successivamente.
La partecipazione al premio Mondadori risponde infatti senz’altro alla ricerca di notorietà, per quanto Calvino sia consapevole che il suo testo sia «un boccone un po’ amaro da ingoiare per palati conservatori e benpensanti» (a M. Venturi, 19 gennaio 1947), quali i giurati sopra citatie complessivamente la comunità di lettori che si riconosce nell’insegna Mondadori e cui esplicitamente da sempre si rivolge Arnoldo.
A partire dagli anni della guerra, tuttavia, proprio il figlio, Alberto Mondadori, stava cercando di progettare la possibilità di una diversa apertura della casa editrice paterna e, in particolare nel 1944 aveva avviato «la stesura di un programma editoriale completo e innovativo per la Mondadori, che prese il nome di “piano svizzero” in ragione del fatto che si originò durante i mesi di esilio: prevedeva un allargamento della parte più nettamente culturale e un maggiore spazio dato alla politica e alla divulgazione con l’intenzione di collocare l’attività libraria della Mondadori nella prospettiva di una crescita civile e politica del paese». In questo ordine di idee, successivamente, a conflitto concluso, alcune iniziative si realizzarono:
Una delle iniziative in cui Alberto svolse un ruolo da protagonista fu il “capitolo” riguardante i giovani narratori italiani, che prese avvio nel 1946 con la creazione del Premio Mondadori, destinato a nuovi scrittori per opere inedite di narrativa, a cui seguirono «La Medusa degli Italiani», collana varata nel 1947 e concepita per ospitare giovani scrittori italiani, e il Premio Hemingway, anch’esso rivolto ai giovani autori nostrani. Ognuna di queste proposte si rivelò un sostanziale insuccesso: la vena sperimentale che avrebbe dovuto caratterizzarle fu pregiudicata dal contesto mondadoriano e nella fattispecie «La Medusa degli Italiani» rimase molto lontana dalle ambizioni di scoperta e di sperimentazione perseguite inizialmente, quindi fallì in quanto non fu una collezione in grado di definirsi come contenitore di nuove proposte.
Il fallimento fu causato da questioni interne, addirittura personali, in quanto lo stesso Arnoldo riuscì a depotenziarne in modo sostanziale la carica innovativa ricercata da Alberto, poiché non la condivideva affatto e la considerava estranea all’identità editoriale del proprio marchio.
Le reazioni di Calvino in rapporto al Premio Mondadori attestano sostanzialmente il fatto che non fosse percepita una distanza di quell’iniziativa dall’insieme delle attività del grande editore milanese e infatti, in fase di attesa del giudizio, il giovane aspirante esordiente già manifesta un certo disagio nell’essere in valutazione presso Mondadori, astiosamente definita «la casa più schifosa d’Italia» (a M. Venturi, 19 gennaio 1947). Nel marzo 1947 poi afferma: «In fin dei conti preferirei non vincere, pentito del corno fatto ad Einaudi», lasciando intendere che la partecipazione al premio Mondadori sia stata forse una sua propria idea, non concordata con il gruppo Einaudi e ancora aggiunge: «Ma ormai il lavoro non posso ritirarlo e d’altra parte a essere uno dei “tre” alcuni sicuri vantaggi li avrei: 1) pubblicazione immediata entro luglio (E.[inaudi] chissà quanto mi farebbe aspettare) 2) contratto sicuramente migliore (a meno che M.[ondadori] non si trovi in cattive acque) 3) gran chiasso attorno al mio nome» (a M. Venturi, 22 marzo 1947).
Si evincono dunque chiaramente le ragioni della propria candidatura, tutte legate ad aspetti economici o promozionali, cosa del tutto comprensibile di fronte alla volontà di emergere nel panorama letterario del proprio tempo, soprattutto in confronto con una fisionomia autoriale che già si dimostra non solo ambiziosa ma anche consapevole del valore del proprio risultato: «non è cosa si possa passare sotto silenzio, e credo saranno obbligati a includerlo nei tre prescelti, o a motivare il perché dell’esclusione […] sono sicuro di aver scritto un romanzo, un romanzo che, tranne qualche punto morto qua e là, corre sicuro dalla prima all’ultima pagina» (a M. Venturi, 19 gennaio 1947). Caratteristica quest’ultima, possiamo notare en passant, tipica in realtà della forma racconto, così come altre dimensioni strutturali del testo, già individuate dalla critica e in particolare da Claudio Milanini:
Anche l’opera più ambiziosa composta da Calvino negli anni Quaranta, cioè Il sentiero dei nidi di ragno, conserva un’intelaiatura e si avvale di procedimenti tali da farla ascrivere più al genere del racconto lungo che al genere romanzo breve.
Insomma, l’autore non mette in dubbio l’identità di genere del proprio testo (né in quel momento né poi, anche a partire dal fatto che Il sentiero non sarà mai “aggregato” editorialmentead altri testi ma sarà sempre pubblicato singolarmente), per quanto dal punto di vista critico alcuni limiti siano da riconoscere.
Restando però sul binario della questione editoriale, l’oscillazione tra Mondadori ed Einaudi si giustifica anche in una dimensione più profonda di quanto emerso fin qui e sembra rappresentare a sua volta la maturazione di una identità letteraria e professionale a un tempo: la ricerca cioè di un posto nel mondo non solo per i propri testi, ma anche un’ulteriore prova che conduce all’età adulta e alla definizione di sé come intellettuale.
Sempre nella lettera del 19 gennaio 1947, infatti, Calvino manifesta a Venturi l’intenzione di fare leggere il romanzo a Pavese, per vedere se riceverà «qualche proposta per Einaudi», e aggiunge: «In fondo sarei molto più contento che uscisse da Einaudi, e solo per ragioni sentimentali, ché oltre le ovvie ragioni economiche anche ragioni di strategia politica consiglierebbero di lasciarlo a Mondadori» (a M. Venturi, 19 gennaio 1947). Sempre a Venturi, il 5 marzo conferma (utilizzando, in avvio, lo stesso sintagma): «In fondo, se fallisce da Mondadori, non ne sono scontento. Preferisco, da un punto di vista morale, se non di stretta convenienza, che esca da Einaudi». Da notarsi che “qualcosa” – non solo nell’ordine del sentimento e della moralità – ha suggerito all’esordiente che uscire da Einaudi sia conveniente.
Questo “qualcosa” è indubitabilmente la lettura di Pavese, della quale Calvino ha già dato conto all’amico in una precedente lettera del 7 febbraio, in cui il discorso si sofferma su una riflessione di poetica:
Ma forse è bene che smettiamo di scrivere di partigia [sic], se no cadiamo nella cifra. E cosa scriviamo poi? Dove potremo avere un’esperienza tanto completa come quella della resistenza? […] Io col romanzo ho dato fondo all’esperienza partigiana. Tutto quello che avevo da dire l’ho detto. Ma non tornerò a batterci ancora in un altro romanzo? Cesare Pavese ha definito il mio romanzo come «il primo che faccia poesia dell’esperienza partigiana» e se fallirà da Mondadori andrà da Einaudi ma chissà quando. (a M. Venturi, 7 febbraio 1947)
La citazione potrebbe essere direttamente estratta dal parere di lettura che Pavese ha scritto per i colleghi di casa editrice o, ad ogni modo, quella frase è stata riportata al giovane esordiente esattamente come scritta da Pavese, magari anche da questi stesso in un incontro o conversazione personale.
Come noto, il parere di Pavese rappresenta un passaggio determinante per quanto riguarda la scelta della sede di stampa della prima edizione del Sentiero dei nidi di ragno, congiuntamente all’impossibilità di ottenere la vittoria al premio Mondadori:
Dunque il mio romanzo uscirà da Einaudi “subito”, cioè entro il ’47. Di fatto Ferrata me l’ha stroncato per M.[ondandori]; mi ha scritto una lettera con una completa stroncatura del lavoro, definendolo mancante d’invenzione, troppo “tranche de vie”, scritto in gergo. Tutte ragioni che non mi convincono affatto; posso benissimo capire che il mio romanzo sia da stroncare, ma le ragioni addotte da F.[errata] mi sembrano quanto mai peregrine. A ogni modo sono più contento così: tu sai già che mi ero pentito d’averlo mandato al conc.[orso] Mond.[adori]. (a M. Venturi, 23 aprile 1947)
Nel frattempo però era stato bandito il Premio Riccione, che intendeva premiare un «lavoro drammatico di almeno tre atti» e «un’opera letteraria narrativa di contenuto sociale», e la cui proclamazione era stata programmata per l’agosto 1947.
La partecipazione a questo premio, come mostra Andrea Dini, aiuta a «dipanare il bandolo complicato dell’esordio […] alla ricerca del sostrato fondamentale di questa prima stagione di romanziere e novellatore di guerra, sfondo progressivamente adulterato, sepolto dai vari detriti e i molti depistaggi delle correzioni retrodatate»; da questo punto di vista, «Il recupero del testo inviato al concorso, conservato nell’archivio riccionese, ne ha avviato finalmente l’indagine ravvicinata degli stadi di composizione»: lo studio condotto da Dini sui dattiloscritti autografi ha infatti consentito per «la prima volta» di indagare «una redazione ante-princeps […] con strumenti filologici». Non solo:
L’intermezzo riccionese – vuoi per la scarsa importanza che tale premio rivestiva, vuoi per il deludente ex aequo – non segnò mai le corde dello scrittore, neppure come calmante. Il Sentiero continuerà a bruciare Calvino, nel tempo, per molti altri, e più consistenti, motivi. Non solo per il pari merito, Riccione stessa è una vittoria dimezzata: dalle segnalazioni a pioggia del verbale, indice di mediocrità dei prodotti, il libro si stacca a fatica. Al giudizio negativo dei giudici Mondadori faceva dunque ruota quello non esattamente lusinghiero dei riccionesi, che donava a Calvino un successo di stima, solo un segnale di incoraggiamento.
Soprattutto però il giudizio limitativo coinvolge elementi strettamente testuali:
Sul piano critico non vi furono benefici immediati e evidenti. Riccione fu anzi la prova generale dei contrasti che segnavano il libro e che dovevano investire a più riprese il volume einaudiano. Furono anche la riconferma delle “stonature” contenute nel libro che Pavese aveva rilevato, cancellate poi di colpo nella lettura pubblica.3
L’indagine sui dattiloscritti consegnati nell’estate 1947 ai giurati di questo secondo premio, mostra con chiarezza quanto sia stato complesso il trapasso dalla scrittura dei racconti alla costruzione di un romanzo e quanto questo risenta, nella sua identità stilistica e narrativa, della vocazione più spontanea di Calvino, che indubitabilmente «nasce come scrittore di guerra», ma soprattutto come scrittore di racconti e brevi prose che mostrano una inclinazione a «scrivere sospeso tra il saggistico e il narrativo».
Il debutto al romanzo si porta subito dietro per Calvino uno strascico di irrequietudine e di disagi. Il passaggio dai racconti non fu facile, disinvolto, come lo scrittore vorrebbe nelle sue rivisitazioni à rebours, un colpo di coda dello “scoiattolo della penna”, cavalcantiano schivatore d’ostacoli di carta e inchiostro; non fu di getto, e comunque non fu facile. Il risultato deludente contò molto nella biografia di Calvino, il quale si affrettò a rimuoverlo, rimuovendo al contempo il parziale successo riccionese, corollario degno del fallimento mondadoriano (di cui invece nel disegno mitografico ebbe bisogno).
Un bisogno che si giustifica in modo evidente sulla base del fatto che essere rifiutato da Mondadori (e da quei giurati) diventa per contro un certificato di distintiva differenza, di elettiva acclamazione nel gotha einaudiano. Lo stesso non valeva per il Riccione, che proponeva invece una giuria ben diversa – Corrado Alvaro fu eletto presidente per la sezione che riguardava i romanzi, ed era composta da Sibilla Aleramo, Guido Piovene, Elio Vittorini e Cesare Zavattini) – nella quale sono comprese figure che rappresentano una «interazione di diverse filosofie di scrittura e di stile, cui dovrà aggiungersi anche una forte componente di militanza letteraria e politica», quest’ultima apertamente schierata nell’area dei «compagni». E va detto en passant, che tra le molte condizioni dalle quali Calvino dovrà compiere uno sforzo di emancipazione, ci sarà precisamente anche quella dall’appartenenza all’area culturale comunista, uno sforzo questo da compiere primariamente all’interno dell’Einaudi stessa.
In chiusura di questo percorso occorre dunque definire i punti che ormai sono stabilmente acquisiti dalla critica e che invece per i lettori contemporanei di Calvino potevano non essere così evidenti. Innanzitutto, Il sentiero dei nidi di ragno nasce dai racconti: lo studio di Andrea Dini compie analisi minute in rapporto alle diverse redazioni testuali trasmesse dai due dattiloscritti del premio Riccione, confrontandole con alcuni racconti scritti precedentemente, mostrandone i processi di diretta derivazione e interpretandone criticamente i significati in rapporto a come poi il romanzo sarà pubblicato nella princeps:
Cronologia alla mano, moltissimi pezzi già risultavano all’attivo di Calvino alla scadenza del concorso che aveva visto la frettolosa nascita del Sentiero; e ben tredici di essi, con pecche e pregi, sarebbero entrati a far parte della silloge di Ultimo viene il corvo orientandone gli esiti.
La direzione del tirocinio letterario dello scrittore (e i suoi soggetti) era stata dunque male interpretata: la valutazione della narrativa calviniana – le conferme, i mutamenti – riposava su di un grosso equivoco (e solo pochi recensori furono colti da qualche dubbio). […] Per quanto ovvio possa apparire oggi, non è il romanzo a fornire materiale per i racconti, ma l’esatto contrario.
Già Falcetto infatti aveva sostenuto come «nonostante l’esordio editoriale all’insegna del romanzo, l’immagine più fedele della personalità flessibile e inquieta del giovane scrittore la offre proprio Ultimo viene il corvo» e, tenendo conto di ciò, Dini mette bene in evidenza come sul piano strettamente testuale, interpretando le correzioni condotte da Calvino nel mettere a punto il testo del Sentiero, sia proprio la «battaglia tra dimensione di saggio e di racconto», che dà conto del primordiale «interesse verso una forma di narrativa ibrida, certo pseudo-saggistica, o cronachistico-memoriale». Tutto ciò implica un «impegno letterario […] chiaramente scelto (come scelto è l’impegno politico e civile, suo retroterra culturale necessario) per il valore eminentemente morale da cui deriva in parte anche l’approccio “dimostrativo”, o pedagogico-deduttivo, se si vuole chiamare così, di parti della sua narrativa». Volendo indagare «come insomma Calvino curi il trapasso tra racconto breve (e giornalistico) e racconto romanzesco», si osserva che «Nell’attimo del riporto dei materiali […] l’autore dovrà fare i conti con personaggi impastati di spiegazioni e postille»:
Kim entra in ballo con intento scopertamente didascalico […] le didascalie accuratamente espunte dai racconti col passaggio dei personaggi al romanzo tornano […] concentrate e trionfanti nel capitolo IX che rende servizio di chiosa. […] La nuova macchina narrativa mostra tutte le sue pecche e l’esperimento calviniano (d’oggettività, di recit induttivo, ergo pienamente “narrato”) si conclude in fallimento strutturale.
Nonostante dunque in molti autori del Novecento l’oscillazione tra romanzo breve e racconto lungo rappresenti una peculiarità costitutiva, nel caso di Calvino questa incertezza appartiene in particolare a una fase che va dal 1947 del Sentiero dei nidi di ragno al 1963 della Giornata di uno scrutatore, anno in cui Calvino pubblica anche Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, il libro – di cui già si è detto – che apre la stagione della sua narrativa modulare. In questa fase di transizione Calvino trova la sua identità stilistica, in un altro parallelo ‘duello’, quello cioè tra la narrativa realista (prima neo-realista, poi quella che ne supera in parte le premesse, definendosi ‘letteratura industriale’ e che pone sotto osservazione l’ondata di industrializzazione che sta trasformando la società, la dimensione del vivere collettivo e il rapporto dell’individuo con se stesso e con il mondo a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta) e la narrativa di derivazione favolistico-fantastico-avventurosa, che risulterà poi essere la direzione elettiva per i successivi decenni:
qual è infatti in quegli anni d’esordio, la «sua vena più spontanea d’affabulatore»? Si tratta veramente di una componente fiabesca innata […] o invece risulta progressivamente “costruita” e cercata come via d’uscita dal vicolo cieco imboccato del racconto-saggio, del racconto “sociale” o comunque del racconto che prende di petto […], nella narrazione, «l’interesse morale, la ricerca d’una completa integrazione dell’uomo nel mondo» che, sebbene tema caro allo scrittore, per la modalità stilistica da lui stesso scelta, nell’acerbità della propria tecnica, non piace ai suoi maestri?
Tre libri raccolgono e scandiscono le tappe di questa transizione: l’edizione di Racconti del 1958, in cui confluisce (insieme ad altri testi inediti) una accorta e meditata selezione e sistematizzazione in termini di dispositio dei racconti realistici, apparsi nel decennio precedente in due volumi e su riviste; la trilogia I nostri antenati del 1960 che definisce e valorizza il senso della produzione delle storie «inverosimili» nel contesto culturale degli anni Cinquanta; e, nel mezzo di questo percorso editoriale, il fondamentale lavoro per le Fiabe italiane apparse nel 1956 nei Millenni Einaudi.
1 Lettera di Italo Calvino a Silvio Micheli, 8 novembre 1946, in Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 2000. Tutte le lettere di Calvino successivamente citate, di cui a testo è indicata solo la data, sono tratte da questa edizione.
2 A questo proposito è fondamentale rimandare al lavoro di Andrea Dini, Il premio nazionale “Riccione” 1947 e Italo Calvino, Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 2007, da cui sono ricavate molte delle citazioni presenti in questo capitolo; per i riferimenti agli altri contributi critici con cui si entra in dialogo, si rimanda al volume edito: le note sono state infatti qui notevolmente alleggerite rispetto all’originale per facilitare la lettura su supporto digitale.
3 Il riferimento è alla celebre recensione di Cesare Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno, «L’Unità», edizione di Roma, a. IV, n.s., 26 ottobre 1947, p. 3.
Articoli correlati
-
L’interpretazione e noi
-
A che serve la poesia? Parole da Gaza -
La pigra potenza. Filmare Sandro Penna tra documento, cinema sperimentale e televisione -
La Cina nelle pagine di un dissidente letterario: Yu Hua -
La trasformazione di un mito: Robinson da Defoe a Vittorini -
-
La scrittura e noi
-
Storie di famiglie. Su Una famiglia americana di Joyce Carol Oates -
Inchiesta sulla letteratura Working class /4 – Fabio Franzin -
Sono comuni le cose degli amici. Su “Platone. Una storia d’amore” di Matteo Nucci -
Inchiesta sulla letteratura Working class/3 –Sandro Sardella -
-
La scuola e noi
-
QUASI DISCRETO = 6/7 = 6.75 = VA BENINO? -
Tradire Manzoni? Una proposta didattica su “The Betrothed” di Michael Moore -
Costruire un laboratorio di scrittura interdisciplinare: diritti del lavoro e diritti umani al centro della formazione critica -
Vivere e riappropriarsi del territorio -
-
Il presente e noi
-
Su Il sentiero azzurro (O Último Azul) di Gabriel Mascaro -
Un “collegio” dei docenti nazionale per Gaza -
Fermiamo la scuola: la protesta degli insegnanti dell’Alto Adige -
“Un crimine impefetto” (Franck Dubosc) -
Commenti recenti
- Stefania Meniconi su La trasformazione di un mito: Robinson da Defoe a VittoriniGrazie a te, Barbara! Come pensi di lavorare su questi spunti? Mi hai incuriosito…
- Rinaldo su QUASI DISCRETO = 6/7 = 6.75 = VA BENINO?Questo è un articolo magistrale. Chissà se Corsini lo leggerà mai.
- Il Giorno della Memoria ai tempi di Gaza – La porta su Viviamo ormai dentro una logica di guerra? Su Antisemita. Una parola in ostaggio di Valentina Pisanty[…] LEGGI L’ARTICOLO […]
- PAOLO MAZZOCCHINI su Fermiamo la scuola: la protesta degli insegnanti dell’Alto AdigeSottoscrivo ogni parola del comunicato sindacale di questi coraggiosi colleghi e auguro alla loro iniziativa…
- Veronica su Vivere e riappropriarsi del territorioCaro Matteo, ti ringrazio per il tempo che hai voluto dedicare alla lettura del mio…
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Giulia Falistocco, Orsetta Innocenti, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore

Lascia un commento