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diretto da Romano Luperini

“L’unico modo che abbiamo per non precipitare nel terrore”. Intervista a Edoardo Vitale

Ne Gli straordinari, romanzo d’esordio di Edoardo Vitale, già autore di interventi su musica e letteratura per diverse riviste, si racconta la vita di Nico ed Elsa, una coppia dalla vita apparentemente ideale: i due millennial sembrano aver conquistato una dimensione felice facendo carriera nell’agenzia di comunicazione di una multinazionale green, ma qualcosa si incrina nel momento in cui si trovano a dover gestire un grande evento internazionale in una Roma stretta tra incendi tossici e proteste dei movimenti ambientalisti.

Senza arrivare mai alle connotazioni distopiche o apocalittiche proprie dei romanzi di Bruno Arpaia (Qualcosa, là fuori, 2016) o della Bologna tratteggiata nei racconti di Silvia Tebaldi (Quattro lune di Giove al Capo delle Volte, 2021), lo scrittore mette in scena con un’attenzione al realismo l’ansia per le condizioni di lavoro annichilenti nel contesto delle catastrofi legate al cambiamento climatico, a cui si oppone invece una vita di coppia equilibrata e rassicurante, anche in questo caso distante dalle molte rappresentazioni di amore e relazioni come cuore del conflitto che, a partire da Sally Rooney (Persone normali, 2018), sembrano conquistare attualmente tanto le classifiche quanto l’interesse della critica.

D1. Fin dal titolo, nel suo doppio senso, Gli straordinari allude alla cosiddetta letteratura del lavoro, che nel giro di pochi anni è diventata uno dei filoni al centro del dibattito editoriale, tanto che in più di una recensione sembra scorrere fra le righe l’implicito che il tuo romanzo dovesse in qualche modo confrontarsi col tentativo di essere il testo definitivo sull’argomento.

È vero che nel tuo romanzo si parla tanto di lavoro, ma mi chiedo se il tema fosse questo fin dall’inizio. Volevi inserirti in un sottogenere o il rischio di finire, appena da esordiente, già classificato è qualcosa che avresti preferito evitare?

R1. La mia intenzione era sin da subito quella di raccontare la storia d’amore di una coppia immersa in una quotidianità sfiancante e per certi versi feroce. Il loro rapporto è indistruttibile, ma la sua stessa esistenza è legata a doppio filo con le carriere dentro le quali sono cresciuti anche come coppia. Quindi il lavoro, o meglio, la corporate nella quale lavorano i due protagonisti, è un’ambientazione che è emersa in maniera naturale mentre scrivevo. Non mi sono preoccupato di essere “classificato” né di nulla di simile. Sarebbe stato fatale. Non sapevo neanche se il romanzo sarebbe mai stato pubblicato. Qualunque opera viene in qualche modo equiparata più o meno grossolanamente ad altre e poi inserita all’interno di varie categorie di riferimento. Se non lo fanno la critica o i lettori, ci saranno comunque gli algoritmi di Amazon a occuparsene e, se ci pensi, non esiste la voce “nessuna categoria” dove finiscono i romanzi che non sono riconducibili a nessun filone letterario. E comunque anche quella finirebbe per essere una categoria! Non lo decido io, ma per me Gli straordinari è un romanzo caratterizzato in grandissima parte dal presente, se fosse stato ambientato anche solo dieci anni fa sarebbe stato totalmente diverso. Si dà il caso che il lavoro oggi sia una componente estremamente invasiva, che incide sulle nostre relazioni e sulla nostra esistenza in una forma inedita. Io ho cercato di raccontare un frammento di tutto questo nella maniera più dettagliata e attendibile possibile, perché è quello che mi interessa fare quando scrivo, oltre a impegnarmi per scriverlo con delle soluzioni di parole che mi provocano euforia e appagamento e spero facciano lo stesso effetto su chi legge.

D2. Raccontando due senior e non tirocinanti o neoassunti, hai potuto lasciare da parte tanto la struttura del romanzo di formazione quanto il paradigma vittimario che una parte della critica rileva come dominante nella letteratura contemporanea: per quanto si dimostri più volte sensibile a temi sociali, Elsa non si fa problemi a minacciare ‘i suoi’ i stagisti.

Eppure l’impressione è comunque quella di trovarci davanti a una storia ‘piccola’, periferica rispetto a quelle dei romanzi di De Lillo o Dave Eggers.

È stata una scelta narrativa volontaria o è il contesto italiano a renderlo inevitabile? Pensi sarebbe stato possibile un “The Circle”, in cui la protagonista avanza velocemente dalla posizione di tirocinante a quella di volto ufficiale di un sistema dai tratti dittatoriali, ambientato a Roma?

R2. Non ho visto il film di cui parli, per cui non so di preciso a cosa fai riferimento. È chiaro che il contesto italiano – quando si parla appunto di corporate, di big tech, ma anche di trend e se vogliamo esagerare di “spirito del tempo” – è ai margini dell’impero. Non poteva trattarsi di una scelta, ovviamente non sarei in grado di ambientare la stessa storia nella Silicon Valley, dove, probabilmente, tutto avrebbe potuto assumere dei contorni più grandiosi. Tuttavia, mi chiedo se le vite di due dipendenti di una grande azienda di New York o di San Francisco, siano effettivamente più grandiose di quelle di chi lavora per una multinazionale a Roma o a Milano. Secondo me no. Più o meno negli stessi giorni in cui è uscito il mio romanzo, La nuova frontiera ha pubblicato Qui non c’è niente per te, ricordi? di Sarah Rose Etter, lo sto leggendo ed è un bellissimo romanzo. Mi ha fatto pensare che il grande sogno è diventato miserabile anche nel cuore pulsante delle cose, oggigiorno. Le prospettive si sono azzerate ovunque. Se invece leggi Americana di DeLillo, la prima parte è ambientata in un network televisivo a fine anni Sessanta, equiparabile a una grossa agenzia pubblicitaria alla Mad Man – dove del resto lavorava DeLillo prima di licenziarsi e mettersi a scrivere – e quella sembra una promessa di futuro elettrizzante ancora nel 2024. Secondo me la differenza risiede in gran parte lì. Poi, figurati, è perfino superfluo specificarlo, ma il motivo per cui Gli straordinari non ha la portata di un romanzo di DeLillo è semplicemente dovuta al fatto che DeLillo gioca totalmente un altro campionato che ha a che fare con la maestosità della sua voce, con la capacità di governare i mondi che contiene una storia e di sconvolgere chi legge attraverso la costruzione dei personaggi e concatenazioni di parole che prima non sembravano possibili. Non penso dipenda dal fatto che sia americano – sicuramente la nostra cultura e il nostro panorama editoriale sono totalmente succubi della letteratura anglosassone – ma i grandi scrittori e le grandi scrittrici emergono dappertutto come dei giganteschi suoni baritonali. E così le loro storie. Sono implacabili. Io non c’entro niente con tutto questo!

D3. Anche se si avrebbe la tentazione di assimilarle a narrazioni distopiche, le descrizioni degli incendi a Roma, della multinazionale pAngea, le attività dei movimenti ecologisti così come i rapporti paradossali che li legano, rispecchiano fedelmente la cronaca recente, al punto da risultare fra gli elementi che maggiormente contribuiscono all’effetto di realtà del romanzo.

Quali autori e autrici pensi siano stati maggiormente influenti sulla rappresentazione del cambiamento climatico? I tuoi riferimenti tendono al realismo o ad altre forme letterarie?

R3. Un po’ mi rammarico quando sento dire che Gli straordinari ha degli echi distopici perché – anche se capisco la tentazione, come dici – credo abbia a che fare con un processo di rimozione un po’ inquietante che applichiamo costantemente alla realtà in cui viviamo. Se domani uscisse un romanzo in cui centinaia di persone muoiono nel parcheggio di un centro commerciale durante un nubifragio in una qualsiasi città occidentale, verrebbe considerato ancora “vagamente distopico”. Forse è l’unico modo che abbiamo per non precipitare nel terrore o per non dover fare i conti con quanto possiamo essere ottusi. Hai presente quel meme in cui c’è la foto di un paesaggio incontaminato con la scritta “l’umanità ha visto tutto questo e ha pensato comunque di inventare Deloitte”?

Ad ogni modo, non sono un grande appassionato di letteratura di genere, distopie appunto, fantascienza, fantasy, horror, non sono decisamente per me, prediligo il realismo sia nei classici che nei contemporanei, sì. Per questo mi viene molto difficile rispondere alla tua domanda: nella narrativa la crisi climatica è quasi sempre trattata con dei toni apocalittici che la rendono molto poco reale e molto poco declinata al presente. Sicuramente ho delle carenze ma adesso mi vengono in mente solo due libri recenti, peraltro molto diversi tra loro, Tasmania di Paolo Giordano e Il tempo e l’acqua di Andri Snaer Magnason, che non è neanche un romanzo ma una raccolta di racconti di narrative non-fiction. Secondo me parlano di crisi climatica in una maniera molto seria e rilevante. Per il resto, sul tema, prediligo inevitabilmente i saggi e i reportage.

D4. Verso la fine del romanzo l’ansia che già si era manifestata nei protagonisti tra insonnie risolte con passeggiate notturne e iperpuntualità al lavoro, esplode in Nico tra emicranie e attacchi di panico ricorrenti, oltre che, sul piano della scrittura, in una prosa sempre più vorticosa, non più compensabile dalle fitte descrizioni degli spazi, debitrici di un Perec filtrato da Vincenzo Latronico, né dalle prese di coscienza che emergono nei dialoghi.

Come si sono intrecciate queste tre dimensioni della narrazione – monologo interiore, descrizione degli spazi, dialoghi – sul piano della scrittura? In altre parole, come si fa a tenere insieme i diversi pezzi di un romanzo?

R4. Mi fa molto piacere quando Gli straordinari viene in qualche modo collegato a Le perfezioni di Vincenzo Latronico perché lo considero uno dei romanzi più pregiati usciti in Italia negli ultimi anni. Capisco il collegamento: le due coppie di protagonisti potrebbero avere molte cose da dirsi in un’ipotetica cena, senz’altro condividono lo stesso paesaggio culturale, che sì, ovviamente ha a che fare anche con il consumo e con il riconoscersi nelle cose in proprio possesso, negli oggetti, direi che è una caratteristica piuttosto comune dei millennial. Più che altro leggere Le perfezioni mi ha aiutato a capire che io stavo scrivendo la storia di chi invece di andare via, è rimasto. Visto che lo citi, mi torna utile anche per rispondere alla tua domanda: Le perfezioni è un romanzo raffinatissimo nella lingua, teoricamente molto etereo, senza dialoghi, eppure molto concreto, fatto di materia viva. Per me questo è il risultato più difficile da ottenere e una formula alla quale spero di poter ambire in futuro. Invece, non per eccedere di modestia, ma utilizzare insieme monologhi, descrizioni e dialoghi è una scelta piuttosto basilare, sono tre colonne portanti che si sostengono facilmente a vicenda e per loro stessa definizione tengono insieme il romanzo. Mi viene in mente un’immagine organica, tipo ossa, muscoli e tendini. Può avere senso? Invece quanto è difficile scrivere bene un romanzo di sole ossa o fatto soltanto di tendini? Prima o poi ci proverò. Per come scrivo io nello specifico, non so, una volta che sono tranquillo della credibilità del contesto, mi interessa troppo di più dedicarmi alle singole frasi o ai singoli paragrafi, ai dettagli o a un’immagine specifica attorno alla quale poi mi costringo a scrivere una scena o, appunto, un dialogo solo per poter approdare alla pagina successiva e ricominciare da capo. Chissà che penserebbe la mia editor se leggesse quest’ultima frase…

D5. Altro grande tema del romanzo, che forse rischia di passare in ombra dinanzi agli argomenti di attualità, è il rapporto di coppia. A differenza di quanto accade in altre narrazioni più o meno recenti, la relazione tra Nico ed Elsa non costituisce il motore del dramma interno alla narrazione ma appare invece come l’unica luce sana da contrapporre a quella accecante che inonda costantemente il posto di lavoro.

Ma quest’amore è davvero bello o risulta tale solo in quanto isola separata dal resto della giornata?

R5. Non ho grandi risposte su questo, perché non è un aspetto del romanzo sul quale mi interessa imporre la mia opinione. Anzi, mi diverte tantissimo conoscere il punto di vista esterno su questo. Ognuno leggendo può stabilirlo da sé e trarre delle conclusioni in base al proprio trascorso, alle proprie ferite, alla propria idea di amore. Per me era prioritario inserire l’unità di misura “coppia” in un contesto molto specifico, in un periodo storico molto specifico e farlo funzionare, con tutto quello che significa. Per vederlo nitidamente dovevo isolarli il più possibile da altri elementi di disturbo. Per questo, per esempio, non ci sono scene di sesso, anche se Nico ed Elsa non mi sembrano una coppia che non fa sesso.

D6. Nel romanzo si parla però d’amore anche in senso politico, inteso come l’innamoramento per una causa o una possibilità di cambiamento: se buona parte della narrazione si snoda attraverso la prospettiva dei protagonisti, nel finale si avverte un’apertura al collettivo: volenti o nolenti, i due si trovano a seguire la folla di manifestanti.

Nelle ultimissime righe mi sembra però che si ripieghi nuovamente sull’individuale, quando Elsa chiede a Nico “riusciremo mai a perdonarci quello che ci siamo fatti?”, trascurando ancora una volta la dedizione disinteressata a una causa che pure dichiarava di invidiare ai giovani attivisti.

Ti va sciogliere questa ambiguità? Volevi chiudere il romanzo con un moto d’ottimismo?

R6. Beh, la frase finale è al plurale. Può essere letta come un noi-coppia o un noi-collettivo. Anche su questo aspetto, non dico di voler rimanere ambiguo, ma credo sia la natura stessa delle cose ad essere tale. Provo a spiegarmi per quanto mi riesce possibile. Volevo che ci fosse una moltitudine nel finale, avevo chiara in testa quella scena ben prima di scriverla. È stata una delle pochissime che ho scritto di getto, praticamente in un’unica soluzione, e che è rimasta quasi del tutto invariata nelle varie riscritture che applico in genere a ciò che scrivo, oltre a quelle dovute al lavoro che ho fatto con Linda Fava di Mondadori, che è stato preziosissimo. Volevo un’inerzia, qualcosa di inesorabile. Ma non so dire quanto sia in chiave ottimistica. Dove stiamo andando? Abbiamo la forza per deciderlo? Avremo ancora la possibilità di farlo o è già troppo tardi? E soprattutto, fare parte di quella moltitudine –  volenti o nolenti come dici, giustamente –  significa davvero farne parte?

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