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diretto da Romano Luperini

Anatomia del personaggio romanzesco

Pubblichiamo l’introduzione del recente volume di Gloria Scarfone, Anatomia del personaggio romanzesco (Carocci, 2024), ringraziando l’autrice e l’editore.

Questo libro è un tentativo, inevitabilmente parziale, di riflettere sulla categoria di personaggio romanzesco attraverso le idee che l’hanno trasformata e le principali teorie letterarie che, a partire dal secolo scorso, hanno provato a pensarla. Chiaramente parlerò di alcune idee e di alcune teorie: non ho la pretesa di poter prendere in considerazione un campo di studi potenzialmente sterminato, ma ho la fiducia che proprio la parzialità di alcune scelte possa dire qualcosa di generale sulla categoria di personaggio. L’intento è costruire un percorso pensato e coeso a partire da una serie di concetti (mimesis, eikòs, hòmoios, homalòs, diànoia, ethos, carattere, tipo, persona, funzione, identità narrativa, mente trasparente, parola bivoca) con cui cercherò di afferrare una categoria refrattaria agli schemi e alle astrazioni.

Nel 1972 Oswald Ducrot e Tzvetan Todorov, alla voce Personnage del Dictionnaire encyclopédique des sciences du langage, scrivevano che «la categoria del personaggio è restata, paradossalmente, una delle più oscure della poetica» (Ducrot, Todorov, 1972, p. 246). Se la loro affermazione può essere considerata valida ancora oggi, nonostante il grande mutamento avvenuto da allora nel panorama critico, è perché ciò che veniva denunciato come paradossale non lo è poi sino in fondo.In modo simile a quanto succede per il concetto di realismo, la nozione di personaggio rappresenta «una di quelle tipiche cose che riconosciamo automaticamente ma di cui non sapremmo mai fornire una definizione univoca e condivisa» (Bertoni, 2007, p. vii). Certo, sul realismo di una narrazione si può discutere a lungo e spesso senza esito, mentre di rado lo statuto di personaggio di una creatura romanzesca può essere messo in dubbio, persino quando quel personaggio è un’entità sfuggente e metamorfica come il Qfwfq di Calvino. Se il mondo interiore e la psicologia sono aspetti dell’esistenza che solo da un certo momento in poi entrano nel dominio del rappresentabile (e che da esso possono sempre essere banditi1), l’antropomorfismo difficilmente può essere aggirato. Ma come una definizione univoca di realismo sarebbe limitante, lo stesso vale per quella di personaggio, nozione che i vecchi dizionari di semiotica pretendevano di circoscrivere senza nemmeno riconoscerle il diritto di cittadinanza all’interno degli studi letterari2.

Perciò, a dispetto dell’innumerevole serie di studi che un tema del genere ovviamente può annoverare, la categoria di personaggio rimane ed è destinata a rimanere sfuggente. In questa inafferrabilità risiede d’altronde la sua forza; perché quest’impossibile concettualizzazione è il correlativo di un fatto essenziale: pur essendo un luogo specifico della letteratura, il personaggio è uno degli spazi in cui più la letteratura esce dai suoi confini, in cui più mondo reale e finzionale si incontrano. La nostra tendenza a pensare gli esseri romanzeschi come persone reali non è infatti solo il prodotto della deriva psicologista insita nell’atto interpretativo, ma la risposta più naturale di fronte alla natura anfibologica del personaggio.

«La sostanza della letteratura si disperde se facciamo finta che i personaggi non abbiano nulla a che fare con le persone», affermava Baruch Hochman nel 1985 (p. 7), quando l’entusiasmo strutturalista si era ormai quasi del tutto smorzato. Che sia stato infatti lo strutturalismo a proclamare la vacuità concettuale e l’inefficacia ermeneutica della categoria è noto, e sul finire del secondo capitolo cercherò di ripercorrere alcune delle tappe essenziali di questa “serrata” teorica per comprenderne meglio gli intenti e le motivazioni. «Il pregiudizio – continua Hochman – era per la letteratura contro la vita; per la letterarietà contro la personalità» (ivi, p. 17). Sostituire all’ideologia della persona quella del testualismo è stato uno degli obiettivi principali di chi, notoriamente, con la mimesis ha preferito tagliare i ponti3. Ma l’idea di mimesis che si tentava di smantellare era un’idea ingenua di mimesis, quella cui ancora oggi qualcuno si appella in questi termini: «una visione mimetica del personaggio, inteso come diretta imitazione della vita reale (e, in particolare, di quella del suo autore) e come ricalco preciso di una persona concreta» (Testa, 2009, p. 4). Al contrario, la concezione mimetica del personaggio che verrà qui più volte chiamata in causa non ha nulla a che vedere con quella di cui Enrico Testa denuncia a ragione l’inadeguatezza.

Non a caso, la prospettiva e il percorso di queste pagine sembrano muoversi controcorrente rispetto all’orientamento che oggi più si rifà a un’idea intuitiva di mimesis e che oltretutto sembra predominare l’ambito degli studi sul personaggio: il cognitivismo4. È noto che negli ultimi anni questo campo d’indagine ha giocato un ruolo importante nella rivalorizzazione della categoria, attraverso la centralità attribuita al concetto di coscienza, la nozione di embodiment e la proposta di un «approccio analogico» fondato sull’analisi dei processi mentali dei personaggi5. L’estensione del cosiddetto mind reading6 ai personaggi si fonda proprio sulla possibilità di postulare un’analogia tra il funzionamento delle menti reali e quello delle menti finzionali. Eppure, come ha notato benissimo Françoise Lavocat, le teorie cognitive finiscono per erodere le frontiere della fiction proprio mentre tentano di rivendicare l’importanza di quest’ultima. La finzione diventa importante non solo perché parla dei destini degli individui, ma perché i suoi meccanismi non sarebbero poi tanto diversi da quelli di cui gli esseri umani si servono nella vita reale. I personaggi dovrebbero interessarci non solo perché offrono un’immagine dell’uomo, ma perché i loro attributi sarebbero in fondo simili a quelli delle persone reali. Abolendo il discrimine tra realtà e finzione, l’utilità della fiction diventa meramente pragmatica e la sua legittimità finisce per fondarsi sulla sua scomparsa. È «il nuovo paradosso della finzione» (Lavocat, 2016, p. 448).

Ma la specificità del personaggio finzionale non può essere abolita. Al massimo può diventare il punto di partenza per riflettere su ciò che la trascende. Appellarsi a una concezione mimetica del personaggio significa rispondere alla più generale domanda «che cosa è il personaggio?» attraverso la più specifica «che cos’è il personaggio in quanto immagine di una persona possibile?» (Margolin, 1990b, p. 457). Significa considerare insieme un doppio problema: come un testo costruisce un’immagine verosimile di individuo e cosa vuol dire verosimiglianza per una determinata epoca. Quello che per gli strutturalisti era un limite da superare è d’altronde una certezza inaggirabile: il personaggio non è affatto riducibile alla sua condizione linguistica. Prenderne atto non significa condannarsi allo psicologismo più banale, ma provare a dare senso e ragione a questo sovrappiù con mezzi che, se non sono quelli del formalismo o della semiotica, non sono però affatto ingenui.

Il posto centrale che viene qui riservato a lavori come quelli di Käte Hamburger e Dorrit Cohn, studiose che hanno legato a doppio filo la loro teoria degli individui romanzeschi a una teoria della finzione, è forse la spia più eloquente dell’importanza che nell’economia di questo lavoro riveste un’idea non ingenua di mimesis. Quest’idea, si sa, ha origini antiche: nell’accezione in cui ricorrerà qui, risale ad Aristotele, a chi per primo disse in modo chiaro che il problema dell’arte non è duplicare la realtà, ma riprodurne l’essenza e la verità strutturale. È il noto problema dell’eikòs, del verosimile, di una concezione di somiglianza complessa e forte (l’essere hòmoion di cui parlerò nel primo capitolo) che si costruisce nel campo della possibilità. La letteratura è mimesis non in quanto copia ma in quanto creazione, e in particolare in quanto creazione di individui che agiscono: mimesis praxeos significa, innanzitutto, mimesis prattonton7.È il segno di una continuità con il mondo degli uomini che anni di riletture strutturaliste della Poetica hanno invano tentato di abolire, facendo leva – lo vedremo (parr. 1.5, 2.4) – su un’interpretazione fuorviante del concetto di ethos. Nell’ethos, infatti,risiede il problema della caratterizzazione del personaggio, dei requisiti che gli sono richiesti per essere verosimile. Servendoci di un termine dell’antica retorica (su cui torneremo), potremo chiamare questo processo di caratterizzazione etopea: la descrizione del carattere e delle qualità morali di un individuo8.

La teoria letteraria del secolo scorso – quella Teoria con la maiuscola che ha avuto il suo apice nello strutturalismo degli anni Sessanta e Settanta – ha provato a negare uno degli assunti principali su cui un intero genere letterario chiamato carattere si era fondato: il legame tra être de papier e costumi degli esseri umani, tra personaggio ed ethos. Tagliare i ponti con la realtà significava infatti anche recidere il rapporto tra fatto letterario e vita pratica, tra letteratura e doxa. Per uscire da queste dicotomie ci sono voluti anni, e il trionfo degli studi culturali – interessati, per reazione, quasi esclusivamente al polo dei costumi e della vita pratica – ci dimostra che ancora oggi paghiamo le conseguenze di quell’errore.

I tre capitoli che compongono questo libro rappresentano tre diversi sguardi gettati sulla categoria di personaggio all’interno di un percorso unitario che cerca di ragionare sulla lunga durata senza appiattire i fenomeni ma senza nemmeno negare l’implicito prospettivismo da cui sono guardati e, anzi, a volte usando un dichiarato anacronismo per osservarli9. Se gli estremi sono Platone e Aristotele da un lato e il paradigma psicologico dall’altro non è per creare una macchiettistica opposizione tra antichi e moderni. Il tentativo è osservare le continuità platonico-aristoteliche a partire dallo sguardo di chi, quando pensa al personaggio, pensa al personaggio della tradizione del novel culminata nel realismo e nel modernismo. Lo sguardo, d’altronde, non è solo il mio, ma anche quello di chi – come Paul Ricœur e Dorrit Cohn – ha tentato nel modo più convincente di uscire dalle impasse dello strutturalismo. Il fatto che, ancora oggi, le loro riflessioni appaiano tra le più valide per riflettere sulla categoria di personaggio non ha potuto che confermare il disegno di questo libro.

Il primo sguardo è lo sguardo sui concetti fondativi. A partire da una rilettura di alcuni passi capitali di Platone e Aristotele, cerco di riflettere su cosa il personaggio di una narrazione realistica è sempre stato: la rappresentazione (mimetikè) verosimile (eikòs) di un individuo che ci somiglia (hòmoios), che è in sé credibile (homalòs) e che è dotato di carattere (ethos) e pensiero (diànoia). Questi concetti del mondo greco costituiscono un primo tassello per pensare il personaggio in diacronia, osservando continuità e rotture rispetto a un modello che, se pure non è più il nostro, ci parla ancora tantissimo.

Il secondo sguardo è lo sguardo su alcune tappe importanti della teoria novecentesca e sui diversi concetti attraverso cui tanto singoli studiosi quando interi orientamenti critici hanno pensato il personaggio: 1. il carattere (Smeed), 2. il tipo (Lukács), 3. la persona (Jouve), 4. la funzione (Barthes, Hamon, Chatman, Genette), 5. l’esistente (Pavel, Margolin). Questi concetti sono a loro volta storicizzati, problematizzati e, in alcuni casi, anche sottoposti a una serrata revisione, a partire dalla convinzione che individuare l’anello debole delle teorie tanto di alcuni dei più importanti critici del secolo scorso quanto delle nuove prospettive critiche possa aiutare a ripensarli e a integrare dei sistemi che pure, in alcuni casi, restano a ragione dei punti fermi (penso soprattutto a Genette). Il criterio che orienta questo capitolo non segue la cronologia degli autori o degli orientamenti discussi (Smeed 1985; Lukács 1946; Barthes-Genette 1966-1983; Pavel 1986; Margolin 1990a, 1990b; Jouve 1992), ma quella del concetto chiamato in causa: il personaggio è da sempre legato alle nozioni di carattere e tipo, intese etimologicamente come marchio (1-2); lo sviluppo del romanzo moderno dà forma narrativa all’idea che un personaggio sia tanto più vero quanto più ci somiglia (3); lo strutturalismo degli anni Sessanta decreta la sua riduzione a funzione (4); a partire dagli anni Ottanta, le nuove teorie dei mondi possibili lo riabilitano a esistente (5). Da un massimo di generalità che fa da sempre del personaggio un carattere e un tipo passiamo progressivamente alla specificità della singola teoria che lo trasforma in funzione o in esistente.

Il terzo sguardo è lo sguardo sulla vita psichica e sulla fiction come luogo gnoseologico. Identità narrativa, esperienza di finzione, mente trasparente e parola bivoca sono i concetti principali di quella che costituisce la parte più propriamente construens del libro, dove viene presentato un punto di vista sul personaggio romanzesco a partire da una serie di edifici teorici che sono insieme esposti, contestualizzati, discussi e messi in dialogo tra loro. Qui, come in tutto il libro, gli aspetti di ciascuna teoria vengono scelti alla luce di questo dialogo: se per esempio il Lukács di cui parlo è quello che riflette su Dostoevskij e Tolstoj piuttosto che su Balzac o Stendhal è perché mi interessa vederlo alla luce delle riflessioni di Jouve, che a loro volta vanno lette in prospettiva a quelle di Cohn e viceversa. Anche per questo il percorso è di nuovo non cronologico: si parte dalle riflessioni di Ricœur sulla temporalità narrativa per ripensare le categorie genettiane di personaggio e narratore in una prospettiva più propriamente etica in grado di integrare l’orizzonte della doxa allo studio narratologico; si torna indietro alle teorie della Fiktionalität di Hamburger e Cohn per imparare a riconoscere un personaggio a partire dalle tecniche narrative che vengono impiegate per dargli voce e raccontarlo; si procede verso gli anni Zero con Alan Palmer e il suo ripensamento delle categorie di Cohn, per poi chiudere infine su un nome canonico: Bachtin. Di fronte alla solidità di alcune riflessioni, l’idolo dell’aggiornamento bibliografico non regge: tanto la teoria della parola bivoca di Bachtin quanto quella del tipo di Lukács restano due dei modi più intelligenti di pensare il personaggio guardandolo alla luce di una dialettica (quella tra autore ed eroe per Bachtin e quella tra individuale e generale per Lukács).

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1 «Agli scrittori che come me non sono attratti dalla psicologia, dall’analisi dei sentimenti, dall’introspezione, si aprono orizzonti che non sono certo meno vasti di quelli dominati da personaggi dalla individualità ben scolpita o di quelli che si rivelano a chi esplora dall’interno l’animo umano» (Calvino, 1968, p. 228).

2 È sintomatica la definizione lapidaria che si trova nel dizionario di semiotica curato da Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtés, il cui primo volume è apparso nel 1979: «Personaggio, n.m. Personnage, Character, Personaje: Impiegato, fra l’altro, in letteratura e riservato agli esseri umani, il termine personaggio è stato progressivamente rimpiazzato dai due concetti – più rigorosamente definiti in semiotica – di attante e di attore» (Greimas, Courtés, 1979-86, p. 240). Il breve capoverso è seguito dall’altrettanto lapidario segno tipografico con cui si è rimandati alle voci di attante e attore, cui sono dedicate intere pagine: «Attante, n.m. Actant, Actant, Actante: L’attante può essere concepito come colui che compie o subisce l’atto*, indipendentemente da ogni altra determinazione […]» (ivi, pp. 17-8); «Attore, n.m. Acteur, Actor, Actor:Storicamente il termine attore si è progressivamente sostituito a quello di personaggio (o di dramatis persona) per maggiore scrupolo di precisione e di generalizzazione […] (ivi, pp. 20-1).

3 È un aspetto che ricostruisce bene Antoine Compagnon parlando di mimesis «denaturalizzata»: «il rifiuto della realtà proclamato dalla teoria letteraria non è stato forse nient’altro, appunto, che un rifiuto, o quello che Freud chiamava disconoscimento» (Compagnon, 1998, p. 147 – ma cfr. in generale tutto il terzo capitolo del libro, Il mondo, pp. 100-48).

4 «Si è passati dal primato linguistico a quello che definirei un primato cognitivo […] gli studi che prevalgono oggi sul personaggio, come su altri aspetti del testo letterario sono, quanto meno in Francia e in aerea anglosassone, di stampo cognitivista» (Luglio, 2020, pp. 215-6).

5 Cfr., tra i tanti, Schneider, 2001; Zunshine, 2003 e 2012. In Italia, sono stati soprattutto Marco Bernini e Marco Caracciolo, con Letteratura e scienze cognitive (2013), a introdurre queste nuove prospettive. Cfr. anche Caracciolo, 2013 e 2016.

6 «Mind-reading è un termine usato dagli psicologi cognitivi per descrivere la nostra capacità di spiegare il comportamento delle persone sulla base dei loro pensieri, sentimenti, convinzioni e desideri» (Zunshine, 2003, p. 614).

7 «La tragedia è imitazione di azioni» (ἔστιν οὖν τραγῳδία μίμησις πράξεως, Poet., VI, 1449b) e «coloro che imitano imitano persone che agiscono» (μιμοῦνται οἱ μιμούμενοι πράττοντας, Poet., II, 1448a). Se non diversamente indicato, le citazioni dalla Poetica saranno tratte da Aristotele, 2008b con la sigla Poet. e l’indicazione del luogo citato a testo.

8 Recentemente è stata Barbara Carnevali a portare all’attenzione questo concetto, guardando all’etopea come al luogo di incontro privilegiato tra letteratura e filosofia morale. Cfr. Carnevali, 2009 e 2010.

9 Per l’idea di «euristica dell’anacronismo», dove il concetto di sguardo gioca un ruolo fondamentale, devo molto a Didi-Huberman, 2000.

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