“La tempesta e l’orso” di Claudia Boscolo – Un estratto
È uscito il volume di Claudia Boscolo, La tempesta e l’orso, Industria & Letteratura, 2024. Ne pubblichiamo un estratto, ringraziando l’autrice e l’editore.
All’inizio era qualche goccia, poi divenne un rivolo. Scendeva in modo uniforme lungo una trave e ricadde sull’intonaco che se ne imbevve rapidamente. Si formò una chiazza umida mentre da un’altra trave, una di quelle portanti, il getto si riversava sul bambino. Erano circa le undici di sera e il piccolo era addormentato, di un sonno profondo. Fu risvegliato dal terrore di aver bagnato ancora il letto e corse fuori controllandosi il pigiama. La madre lo sentì lamentarsi e lo raggiunse, ma il cotone degli indumenti era asciutto. Tornarono assieme nella camera e accesero la luce. Un fiotto precipitava sulla parte superiore del materasso, all’altezza del cuscino. La madre spostò il piumone e lo trovò inzuppato.
Pioveva da quattro giorni e il tetto aveva già dato segni di cedimento. In più ci si mettevano quei maledetti ghiri. Si sentivano correre tutta la notte nella piccionaia, il baccano a volte era insopportabile, ma la famiglia non aveva voluto chiamare l’azienda della disinfestazione. Ne conoscevano e non condividevano i metodi, così preferivano tenersi le tegole spostate e chiamare di tanto in tanto un operaio per rimetterle al loro posto. Quell’ottobre non era venuto nessuno. Quando iniziò a piovere si aspettavano che l’acqua sarebbe gocciolata lungo le travi, era già successo. Delle infiltrazioni così, però, non le avevano mai viste.
Ci vollero due ore per spostare il letto, asciugare il pavimento, girare il materasso, cambiare le lenzuola. Nel frattempo il vento si era fatto più violento. Arrivarono le notifiche sui cellulari. State bene? Guardate i notiziari.
Entrarono nei canali dei social media, dove già intorno alla mezzanotte venivano segnalati danni nella zona. L’oscurità non permetteva di vedere cosa stava accadendo lì fuori, ma alcuni tonfi, dei rumori sordi anticipavano lo spettacolo che si sarebbero trovati di fronte al mattino presto. Le chiamate alla protezione civile iniziarono subito a causa del crollo di alcuni alberi nella zona. Nonostante il buio pesto si potevano vedere sulla statale le luci blu delle sirene, che non smisero di brillare per tutta la notte. Erano come puntini azzurri nel nero pece, quasi un Van Gogh, ma del terrore. Il vento divenne così imponente che a stento le case stavano fisse al suolo, mentre le imposte e i balconi tremavano con forza e i primi tetti iniziavano a scuotersi. Appoggiando la mano sul vetro delle finestre si sentiva vibrare la superficie. In un tempo che parve brevissimo sembrava che la casa scoppiasse per aria, tanto divenne violenta la tempesta.
Il bambino non volle tornare nella sua stanza. Era terrorizzato dai rivoli, non voleva rimanere solo. La camera matrimoniale era meno esposta e, benché sull’abbaino si abbattesse un torrente di pioggia causando un frastuono assordante, gli pareva più sicura. Si rannicchiarono sotto il piumone e tentarono di riprendere sonno. Il risveglio fu drammatico.
Fra le notifiche vi era quella della madre di due compagni di scuola del bambino, con cui la famiglia aveva stretto amicizia negli anni sereni del nido. Il loro tetto si era scoperchiato. Doveva mettere al sicuro i bambini per tornare a recuperare ciò che era rimasto delle cose. L’appartamento era ricavato nella mansarda, ricoperta da un soffitto ligneo di travi precarie. Il vento aveva strappato via tutto.
Sotto la casa della famiglia c’era un piccolo ruscello. Nonostante piovesse da qualche giorno, non si era ingrossato. Una squadra rimase a monitorarlo per tutta la notte, mentre alcuni uomini erano risaliti lungo la corrente alla ricerca di una causa per l0 scarso defluire. Sopra il paese in mezzo al rigagnolo trovarono dei macigni che non si erano mai mossi prima: assieme a dei tronchi sradicati avevano formato un accumulo che ostruiva il corso d’acqua. Lo spettacolo fu spaventoso: il vento e la pioggia torrenziale erano riusciti a cambiare ciò che neppure l’erosione aveva mai spostato di un centimetro. Tale era la forza di Vaia.
Quei suoni sordi, dei rombi, si scoprì solo dopo che erano stati causati dagli alberi mentre crollavano al suolo gli uni sugli altri, formando un letto di legname. Ma erano provocati anche dai sassi che si spostavano sul terreno infradiciato, fra le pozze d’acqua, scavando solchi che si riempivano e intercapedini che fratturavano il terreno allentando la presa delle radici e facilitando il crollo degli abeti.
Gran parte di quegli alberi era stata piantata sul suolo dilaniato della prima guerra mondiale. Solo il quindici per cento dei boschi dell’Altipiano rimase indenne alla fine del conflitto. Quando nel 1919 si fece la conta dei danni, la constatazione che 4.700 ettari di bosco nelle zone delle battaglie al confine fra il Veneto e la linea austriaca erano spariti nel nulla gettò la gente del luogo in uno stato di sconforto. I boschi che rimasero in piedi fornivano appena il dodici per cento del legname ricavato prima della guerra. Furono rase al suolo intere sezioni di foreste per fare spazio ai sentieri e alle batterie e per costruire i ricoveri.
Il rafforzamento delle linee nella primavera del 1917 sconvolse gli equilibri idrogeologici e compromise il naturale rinnovamento boschivo. Le trincee scavate da italiani e austriaci avevano impresso cicatrici sul territorio e l’artiglieria aveva butterato boschi secolari. Il danno era stato riparato cucendo toppe di vegetazione troppo uniforme, che non aveva avuto tempo a sufficienza per radicarsi. La poderosa opera di rimboschimento portata avanti negli anni ’20 cambiò radicalmente la proporzione fra latifoglie e conifere. La preferenza fu accordata all’abete rosso per la sua grande capacità di attecchire e riprodursi in tempi brevi.
A distanza di un secolo esatto dalla fine della Grande Guerra, il bosco artificiale, ricreato sulla base di un ragionamento di tipo economico e non considerando la biodiversità, non ha retto davanti al più devastante evento meteorologico mai scatenatosi sull’arco alpino. Alla guerra degli uomini si è sostituita quella dell’atmosfera contro le decisioni scellerate dovute alla fretta e alla necessità di ricostruire un ambiente che potesse ricalcare quello perduto. Un secolo per un albero è un dopopranzo fra amici, sufficiente per raccontarsi delle storie, ma non per attecchire in una foresta.
Vaia si abbatté su queste pezze post-belliche di abeti rossi con la furia di un parente escluso dalla festa che si sia ubriacato per conto suo. La strage fu atroce: le riprese dall’alto degli elicotteri della protezione civile, su cui furono sorvolate le foreste, mostrano gli abeti come scatole intere di stuzzicadenti sparse su un tappeto di muschio.
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