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diretto da Romano Luperini

Su Stella Maris di Cormac McCarthy

Un dialogo tra inconscio e linguaggio

Il 27 ottobre del 1972 la ventenne Alicia Western si fa internare, di sua volontà, alla Stella Maris, struttura aconfessionale e casa di cura per pazienti psichiatrici medicalizzati del Wisconsin. La paziente, ebrea caucasica, affetta da anoressia e da una grave forma di schizofrenia paranoide con presenza ricorrente di allucinazioni visive e uditive, è una dottoranda in matematica dal QI non calcolabile, probabilmente tra i dieci matematici più importanti al mondo.

È all’interno di questa struttura che si ambienta l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy Stella Maris, uscito in Italia per Einaudi nella traduzione dall’inglese di Maurizia Balmelli nel 2023 e collegato al precedente The passenger, dal quale apprendiamo, fin dalle prime pagine, la morte della giovane Alicia per suicidio. I due romanzi costituiscono infatti un dittico che vede, come protagonisti, Bobby e Alicia, fratelli e figli di uno scienziato coinvolto nel progetto Manhattan finalizzato alla realizzazione della bomba atomica.

Non c’è linearità cronologica tra i due romanzi, e i due personaggi, sebbene legati intimamente – si potrebbero definire due facce della stessa medaglia – non sono destinati a incontrarsi nelle pagine di McCarthy. Se nel primo romanzo troviamo soltanto Bobby, in quanto la sorella è già morta suicida e vive esclusivamente nei ricordi del fratello, in Stella Maris troviamo solo Alicia, che già nelle prime pagine dichiara che suo fratello è «in morte celebrale» in seguito ad un incidente con un’auto da corsa. Mentre lei resterà convinta fino alla fine che suo fratello sia ormai destinato a morire, leggendo Il passeggero, ambientato anni dopo, sappiamo invece che Bobby si salverà. Aspirante fisico, sommozzatore di salvataggio e incapace di accettare la morte della sorella, Bobby è un passeggero della vita che vaga in un mondo desolato alla ricerca di risposte che non avrà mai e che lo indurranno a continue fughe. Intento a riflettere e a indagare il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione, Bobby anticipa il personaggio di Alicia, ma è lei la vera novità del dittico, una delle poche figure femminili che compaiono nella letteratura di questo scrittore e alla quale viene dedicato l’intero secondo romanzo, diventando una sorta di alter ego attraverso il quale McCarthy prende congedo e nelle cui mani sembra volere affidare il proprio testamento.

La scrittura come contemplazione assoluta e astratta delle cose del mondo

Ma perché proprio ad una giovane donna, malata psichiatrica, e tuttavia dotata di una mente geniale, McCarthy sceglie di affidare le sue ultime riflessioni sul senso dell’esistenza umana e del mondo? Forse perché nell’ultima parte della sua vita lo scrittore ha collaborato con il Santa Fe institute (New Mexico), un istituto di ricerca scientifica multidisciplinare, e attraverso Alicia riesce a indagare i grandi temi filosofici e scientifici che hanno occupato la sua riflessione in questi ultimi decenni. Anni in cui è stato centrale il dialogo intrapreso dallo scrittore con studiosi appartenenti ai diversi campi del sapere: fisici, matematici, neuroscienziati, incontrati per cercare di afferrare quella realtà sfuggente e nascosta che è la struttura fondante dell’essere e che ha a che fare con la natura del linguaggio e dell’inconscio, con la matematica, con la fisica quantistica e con la filosofia.

Sempre meno interessato alla letteratura e alla scrittura in sé, McCarthy dedica dunque le sue ultime parole al ragionamento filosofico e matematico, portando alle estreme conseguenze quel processo di abbandono della forma narrativa già iniziato con Il passeggero, e scegliendo il dialogo per dare spazio alle sue riflessioni e per condividere la descrizione dell’oggetto e del pensiero in sé, piuttosto che nella realtà, come invece accade con la letteratura e con il linguaggio. Del resto il dialogo è il genere attraverso il quale, da Socrate-Platone in poi, si sviluppa la maggior parte del pensiero occidentale. Stella Maris è infatti interamente costruito sui dialoghi (in realtà si tratta di sette sedute cliniche) tra Alicia e il dottor Cohen, lo psichiatra che ha in cura la giovane matematica. In questo lungo colloquio emergono i deliri allucinatori della protagonista, popolati da un eidolon, ovvero un fantasma identificato come il Talidomide Kid, rappresentato come un nano deforme e pinnuto che capeggia uno stuolo di saltimbanchi che le fanno visita da quando ha dodici anni ed esasperano il suo disperato tentativo di trovare una possibilità di senso nel mondo. Ma Alicia, oltre alla matematica e alla scienza, si rivela sensibile anche alle arti, e in particolare alla musica, a proposito della quale manifesta la passione per lo studio del violino: «La prima volta che ho sentito Bach ho avuto un’esperienza extracorporea. Avrò avuto dieci anni» (p. 100). Insomma, Alicia possiede attitudini in molteplici campi della conoscenza, e sa padroneggiarle con estrema disinvoltura, citando all’occorrenza Gödel, Wittgenstein, Platone, Schopenhauer, Joyce o Bach, dei quali si serve per portare avanti il proprio discorso. Il ragionamento di Alicia, però, non si rivela sempre lineare, procede spesso per antitesi, aggrovigliandosi e costringendo il dottor Cohen a faticare per comprendere. Non poche volte deve infatti dichiarare: «Mi scusi. Mi sono perso» o «Non capisco cosa vuol dire».

Nonostante questi dialoghi, Alicia non riesce a salvarsi dai suoi demoni, eppure non si ha la sensazione, leggendo il libro, di un fallimento definitivo. Il ragionamento è servito, ha lasciato spazio al pensiero, confermando, così, la validità dell’impresa di McCarthy di prendere le distanze dalla letteratura e dall’invenzione narrativa, per privilegiare l’aspirazione alla contemplazione assoluta e astratta delle cose, dove il linguaggio e la riflessione matematica e scientifica, costituendosi come una sfera della conoscenza umana che si oppone all’esperienza concreta, consentono la percezione della realtà tramite le operazioni della mente.

La scoperta del linguaggio

Uno dei temi principali affrontati nel libro è proprio il rapporto tra la realtà e la sua possibile rappresentazione linguistica e conoscibilità oggettiva, argomento che torna più volte nelle riflessioni di Alicia, facendo anche esplicito riferimento agli studi e alle ricerche dello stesso autore. Prendendo, infatti, spunto da una pubblicazione accademica di McCarthy, The Kekulè Problem (il primo e unico saggio di McCharty, scritto per il Santa Fe Institute e uscito sulla rivista scientifica «Nautilus», online, nel 2017), Alicia discute le potenzialità dell’inconscio facendo riferimento all’aneddoto secondo il quale il chimico Kekulè avrebbe individuato la molecola del benzene grazie a un sogno nel quale gli compare un serpente che si morde la coda, permettendogli in questo modo di individuare la struttura circolare della molecola. Ecco che McCarthy ripropone il conflitto irrisolto tra inconscio e linguaggio, che a sua volta apre la strada a quello tra realtà e sua rappresentazione. Il mondo, sembra dirci riprendendo una visione di Wittgenstein, equivale a ciò che possiamo dirne, esiste e può essere spiegato soltanto attraverso il linguaggio, ma in questo modo diventa impossibile accedere alla realtà se non attraverso l’astratto («Il punto è che centomila anni fa qualcuno è saltato nel letto in veste da camera e ha detto Porca merda. Si fa per dire. Ancora non possedeva un linguaggio. Ma quello che aveva appena capito era che una cosa può essere un’altra. Non somigliarle o agirla. Esserla», p.137)

La scoperta del linguaggio è simile a un’invasione, un virus che si è appropriato del cervello degli uomini e si è diffuso «in tutte le sacche più remore dell’umanità» producendo un’elevazione nelle funzioni conoscitive del cervello, depotenziandone però altre che esistevano già prima. In questo modo il linguaggio non ha contribuito ad arricchire l’uomo, semmai lo ha soltanto impoverito: «Ma bisogna capire cos’è stato l’avvento del linguaggio. Per un bel po’ di milioni d’anni il cervello se l’era cavata piuttosto bene senza. L’arrivo del linguaggio è stato come l’invasione di un sistema parassitario» (p. 177). L’inconscio, invece, essendo «un sistema meramente biologico […], un dispositivo per far funzionare un animale» (p. 132) e dunque capace di evolvere di pari passo con la specie per rispondere ai suoi bisogni – salvo talvolta anticiparli – è molto più antico del linguaggio («È stato da solo per un sacco di tempo. Naturalmente non ha accesso al mondo se non attraverso il nostro sistema sensoriale. Diversamente si limiterebbe a operare al buio. Come il nostro fegato. Per ragioni storiche è restio a parlarci. Preferisce il dramma, la metafora, le immagini. Ma ci capisce molto bene. E non ha altra ragion d’essere all’infuori di noi», p.103)

Viene quindi spontaneo chiedersi se esista un senso del mondo che vada oltre la sua rappresentazione, questione metafisica, questa, sulla quale si è sempre interrogato il pensiero occidentale, e uno dei tanti temi e nodi problematici che affronta Stella Maris. Mentre ci induce a ripensare il ruolo della mente e il legame che essa intrattiene con la realtà, ci suggerisce che in fondo quest’ultima potrebbe essere molto più complessa rispetto alla nostra capacità di rappresentarla. Dunque la realtà percepita da Alicia, frutto delle sue allucinazioni, e capace di spingerla al suicidio, è forse una conseguenza della malvagità e del condizionamento del linguaggio e della mente sulla realtà? Del resto, nelle ultime pagine del libro, McCarthy, citando il Finnegans Wake di James Joyce, scrive che «eravamo júngani e facilmente freudlietate», intendendo forse dire che «la realtà esiste perché traduciamo l’inconscio freudiano in archetipi junghiani, ovvero in un linguaggio che ci fornisce una visione comune del mondo» (A.P. Palumbo, Oltre i limiti della verità del mondo, Stella Maris di Cormac McCharty, in «Magma Magazine»). E più le nostre capacità conoscitive diventano significative, più ci rendiamo conto della implacabile distruttività del mondo, che nega ogni possibile orizzonte di speranza.

«Credo che il nostro tempo sia scaduto»

Affidarsi a questa lettura di Corman McCarthy significa riconoscere che non c’è soluzione al dolore, alla sofferenza e alla violenza che abitano il mondo. Tuttavia, se Meridiano di sangue, Non è un paese per vecchi, o La strada, sono libri capaci di dialogare con grandi temi come la morte e le catastrofi apocalittiche, The passenger e poi Stella Maris costituiscono un’ulteriore evoluzione nel pensiero di McCarty. Sono il compimento di questo affresco della fine, dalla prospettiva di una nuova epoca, quella di un XXI secolo dove sembra definitivamente esaurito il tempo dell’uomo. Perché «non c’è mai stato un secolo altrettanto feroce di questo» (p. 50), e ogni illusione rispetto all’esaustività delle «funeste eruzioni di questo secolo» – dice Alicia – è «semplicemente una scemenza». In fondo «sotto la superficie del mondo c’era e c’era sempre stato un orrore mal trattenuto. Che al cuore della realtà alberga un abissale ed eterno demonium» (p. 156).

Anche se «il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere» (p. 24), in tutto questo dolore, tra le macerie e la devastazione illimitata del male, l’ultimo gesto di Alicia, delicato e commovente, sembra suggerirci che una possibilità di affrontare la realtà e il male è affidandoci alla solidarietà umana, magari scegliendo di prendere per mano un altro essere umano:

«Credo che il nostro tempo sia scaduto.

Lo so. Mi tenga la mano.

Tenerle la mano?

Sì. Voglio che lo faccia

D’accordo. Perché?

Perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa» (p. 194)

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