“Luce d’estate ed è subito notte”: bagliori di latino nel cielo d’Islanda
Stavamo quasi per scrivere che la particolarità del paese consiste nel non averne nessuna, ma in effetti non è del tutto vero. (…) Qualcosa di diverso rispetto ad altri luoghi, però, sembriamo averla: qui non c’è una chiesa. E nemmeno un cimitero. Eppure hanno tentato più volte di ovviare a questa anomalia e una chiesa inciderebbe senza dubbio sull’ambiente, i placidi rintocchi potrebbero rianimare chi è giù di corda, le campane portano un annuncio d’eternità. Nei cimiteri crescono alberi, su cui gli uccelli si posano e cantano. (…) Ovviamente moriamo come chiunque altro, anche se tanti di noi raggiungono in realtà un’età molto avanzata, in percentuale. Non c’è posto in tutta la nazione con più abitanti sopra la ottantina, cosa che forse potremmo definire la particolarità numero due. (…) Per il resto, non c’è niente di particolare da dire su di noi.
Il paese è composto da qualche decina di case per lo più di medie dimensioni e progettate da architetti o geometri poco ispirati, strano le poche pretese che abbiamo nei confronti di chi lascia una tale impronta sul nostro paesaggio. Ci sono anche un condominio di sei appartamenti e un paio di belle case di legno della prima metà del ventesimo secolo, la più antica risale a novantotto anni fa, è stata costruita nel 1903, ed è così marcia che le automobili rallentano prima di passarle davanti. Gli edifici più imponenti sono i Macelli, la Latteria sociale, la Cooperativa, il Maglificio, nessuno di qualche valore estetico, ma poi c’è pure il moncone di un bel pontile edificato verso il mare cinquant’anni fa. Da noi non attraccano mai navi né barche, ma è divertente pisciare dal pontile, fa un rumore buffo quando il getto finisce in mare.
(J.K. Stefánsson, Luce d’estate ed è subito notte, Iperborea 2013, pp.7-8)
Natio borgo selvaggio
«Un villaggio di quattrocento anime, più forse altre cinquecento nelle campagne vicine» (p.253) in Islanda, su un piccolo fiordo della costa sudoccidentale. È qui che Jón Kalmann Stefánsson, insegnante, bibliotecario e poeta di Reykjavík, ambienta le vicende di Luce d’estate ed è subito notte (Premio Islandese per la letteratura nel 2005; traduzione e postfazione di Silvia Cosimini per Iperborea, 2013). A percorrerne le strade o (più spesso) i sentieri, a visitarne le case e i magazzini, ad ascoltarne gli abitanti, si ha l’impressione costante di esserci già stati, anche senza aver mai messo piede sull’isola di ghiaccio. Sì, ci siamo già stati, ma passando per Aci Trezza di Verga, Spoon River di Masters, St. Mary Mead di Christie, Crosby di Strout, Holt di Haruf e perfino Brescello di Guareschi e Sant’Ilario di De André. Ci siamo già stati passando, cioè, per ogni borgo selvaggio che sia stato raccontato con amore o ferocia, con rimpianto o cinismo da scrittrici e scrittori affacciati al balcone della storia da cui, grosso modo dal XIX secolo in poi, hanno assistito – sbigottiti o disillusi, battaglieri o impotenti – al lento scomparire dei villaggi, entità risolutamente resistenti alla modernità, eppure infine inesorabilmente risucchiate dalla città e dalle sue dinamiche. Più ancora e ancora prima che dalle parentele letterarie, le somiglianze sono dettate probabilmente dalle dimensioni circoscritte di questi luoghi, capaci – com’è esperienza di chiunque abbia un trascorso provinciale – di fungere da lente di ingrandimento e di rendere dunque di evidenza macroscopica relazioni, aspirazioni, frustrazioni, slanci e cadute che, nel tessuto metropolitano, stratificato e rizomatico, rimangono sottotraccia o si annullano del tutto – salvo riemergere in forme esagitate ed enfatiche nei contesti contrassegnati dalle stimmate della economia postindustriale. La chiave di accesso (al paese e al racconto) ci è data del resto dalla stessa voce narrante, un io che è un noi, una sorta di aedo contemporaneo (l’ambientazione abbraccia gli anni Novanta del Novecento) che non esita a farsi portavoce delle vicende dei singoli e delle reazioni di tutti, perché «a volte nei posti piccoli la vita diventa più grande»:
Per quale motivo ho vissuto? Che questi racconti di vita e di morte nel nostro paese e nelle campagne intorno siano una sorta di risposta a quella domanda, e al senso di incertezza che ne deriva? Parliamo, scriviamo, raccontiamo di piccole e grandi cose per cercare di capire, di arrivare a qualcosa, di afferrare l’essenza che però si allontana sempre più come l’arcobaleno. (p.159)
Ma per quante affinità si possano rintracciare (amori, amicizie, tradimenti, affari…), da questo piccolo paese adagiato lungo un fiordo d’Islanda non si riesce poi ad allontanarsi sbrigativamente appellandosi al déjà-vu; perché non è affatto vero che tutto, lì dentro, sia così familiare e scontato, a cominciare proprio dalla luce: che è luce solo d’estate, perché – poi – è subito notte.
Un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé
Tre mesi di luce d’estate che inonda giornate interminabili, quasi senza sera; con tutto quel che può significare: folgorazione e dilatazione. E poi buio, o quasi, per i mesi d’inverno «che tende a essere lungo e inerte» (p.67); con tutto quel che può significare: latenza ed estenuazione. Impossibile prescindere da questa scansione del tempo, che sfugge alla percezione ordinaria e sembra avvicinarsi a un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé, come direbbe la imperturbabile Natura all’islandese leopardiano. È un tempo che non consente di essere ingannato, aggirato, rintuzzato negli spazi convenzionali degli orari d’ufficio, delle fabbriche, delle messe (del resto, non c’è neppure una chiesa!), surrogati ridicoli sui quali scaricare la responsabilità delle sconfitte e delle frustrazioni o trampolini traballanti e grotteschi del successo. È un tempo che deve essere vissuto, vissuto distesamente; che non vuol dire sempre serenamente, ma in tutta la sua estensione. E che non può essere fuggito. Matthìas, per esempio, ci ha provato, ma ha finito per tornare nello stesso fiordo, dalla stessa amante, la affascinante Elìsabet:
Perché non te ne sei mai andata, come ho fatto io? Elìsabet alzò le spalle, il mio destino è qui.
Matthìas: Non sappiamo niente del destino.
Elìsabet: Allora ho aspettato.
Matthìas: Che cosa?
Elìsabet: Non lo so, e se lo so non te lo dirò adesso. Ma a volte mi piace proprio vivere qui, è bello, è tranquillo, posso entrare in contatto con me stessa.
Matthìas: ma è un dannato stambugio.
Elìzabeth: dipende da te, da quello che vuoi, da quello che sei.
Matthìas: uno stambugio è uno stambugio, punto e basta. Qui non succede mai niente, un inverno intero entra dentro una sola cartolina, la gente dorme sempre, chi cerca un po’ di movimento se ne va, chi resta è kaputt!
Elìzabeth: no, se uno basta a se stesso. E non è affatto vero che non succede niente, il tempo cambia sempre, il cielo si muove, a volte sembra perfino inclinarsi e allora non c’è più nulla di sicuro nella vita, non c’è mai la stessa luce, qui… (p.174).
Ci prova Benedikt, che va a Londra per pochi giorni e «magari ti stupirai che questo contadino solitario, questo contadino dal naso grosso vada a Londra, per quale motivo, e allora le pecore, e il cane, non è forse vero che i campagnoli non si spingono mai più lontano di Reykjavík, al massimo Oslo?» (pp.267-268). E forse si stupisce anche lui, e prova spiegarlo su di una cartolina alla donna di cui, quasi suo malgrado, si sta innamorando: Vado a Londra. Punto, niente punto esclamativo. Poi bisogna dare qualche spiegazione, scrive: Il mondo è grande. Punto, che dopo averci pensato parecchio trasforma in una virgola: ed è ovvio che uno voglia vederne almeno un pezzo (p.271). Ma poi in quel pezzo di mondo scopre il tempo segnato dalla storia, e decide di tornare al suo tempo sconfinato e ai suoi interminati spazi:
Noi abbiamo un museo della civiltà agricola, un trattore del 1936, attrezzi del 1920, una pipa di cent’anni fa e cose del genere, ma a Londra puoi vedere la storia del mondo, una mummia egiziana di quattromila anni, reperti ancora più antichi dall’Assiria, da là hanno governato il mondo per interi secoli, i Romani aprirono una strada che è oggi una delle vie dello shopping più importanti al mondo (…). Benedikt (…) pensa alle dimensioni della città, alla storia, alla mummia, beve la birra ed è completamente spiazzato perché tutto questo, la mummia, la moltitudine, la storia, non è che una scemenza, niente di niente in confronto a un’unica donna in un minuscolo paese in una terra lontana da tutto ma vicina all’inverno eterno e al buio soffocante… (p.274)
Ventiquattro ore dopo che era seduto in un pub di Londra non molto distante dalla mummia egiziana, monumento alla vita di quattromila anni fa, si trovava nell’aia della sua fattoria, il cane stretto a lui (…) e intorno a loro solo aria (…), poteva correre in lungo e in largo senza scontrarsi con nient’altro che aria, incredibile, a Londra era raro poter allungare una mano senza urtare qualcuno, c’era una ressa tale che a volte era difficile voltarsi, doveva pur esserci ossigeno sufficiente nelle strade più trafficate, in ogni caso a volte non riuscivo a respirare, raccontò al cane che alzò il muso e capì tutto. (p.276)
Il latino come hard disk
Difficile stabilire il tempo del racconto: il nostro aedo, parlando, al solito, a nome di tutti e tutte, ci dice apertamente che a loro non interessa rispettare la giusta sequenza temporale, o che, addirittura, forse non ne sono proprio capaci (p.251). Tuttavia – come si accennava più su – un tempo della storia c’è e grosso modo corrisponde a un arco che va dalla fine degli anni Ottanta alle soglie del Duemila – la soglia cruciale, cioè, che segna il passaggio epocale alla informatizzazione e alla digitalizzazione. Anche in questo paese, quindi, sono arrivati i computer e si inviano le email:
Le lettere che ci scambiamo con la posta elettronica finiscono in niente in pochi anni e ci sentiamo rodere dal pensiero, dalla sensazione che stiamo spezzando quel filo, che arriva a noi ma non va oltre, che stiamo creando un vuoto che non sarà mai più colmato. Prima di tutto vogliamo dimostrare fedeltà al nostro tempo, non a chissà quale possibile futuro, eppure ci resta un bruciante senso di colpa, come se stessimo commettendo un crimine (…). Siamo sempre in movimento invece di fermarci ad ascoltare la pioggia, bere una tazza di caffè, scaldare un petto. E non scriviamo mai lettere. E invece succede qui da noi, che viviamo lontani dalla statale 1, che ci si sieda a scrivere lettere e poi le si porti all’ufficio postale. (…) abbiamo dimostrato lealtà al passato… (p.27)
Poco importa che Ágústa, l’impiegata postale, da oltre trent’anni sbirci la corrispondenza e ne spifferi il contenuto all’intero paese: quando per le mani capita una vecchia lettera, «ci sembra di sentire un filo che parte da dentro e sparisce nel passato e pensiamo, ecco il filo che tiene insieme il tempo» (p.27). Ma a furia di seguire il filo che sparisce nel passato, proprio mentre, viceversa, si vuole «dimostrare fedeltà al nostro tempo», può succedere quello che accade al giovane, ricco, brillante, avvenente, intraprendente direttore del Maglificio – per chilometri, l’unica attività autenticamente imprenditoriale del territorio: «una notte si mise a sognare in latino. Tu igitur nihil vidis?» (p.11):
Sognare in latino non è certo roba da tutti i giorni. Inglese, danese, tedesco, sì, sì, francese e anche spagnolo, è un bene conoscere qualcuna di queste lingue, il mondo si amplia dentro di te, ma il latino, quello è tutta un’altra cosa, è così tanto di più che quasi non osiamo nemmeno provare a immaginarcelo. (…) C’era una sola cosa da fare, andare a sud , nella capitale, e iscriversi a un corso privato intensivo di due mesi per imparare il latino. (…) Forse tutti noi saremmo dovuti andare a sud a imparare il latino e guadagnare quello sguardo nuovo, allora il nostro paese si sarebbe forse liberato in aria fluttuando nel cielo. Ma ovviamente non c’è andato nessuno, sai com’è, tutti inchiodati come siamo nel campo magnetico delle abitudini. (pp. 12-13)
L’imprenditore trentenne, l’uomo del nuovo-che-avanza, trova nel «latino una sorta di hard disk, tutto ciò che conta è archiviato lì» (p.179); e non si ferma: vende ogni cosa che ha per acquistare e tradurre dal latino preziosi testi di Galileo e Keplero, molla il lavoro, cambia casa, la moglie lo lascia, ma lui imperterrito studia il latino e le stelle, e con epiteto prima sarcastico, poi rispettoso, per tutti diventa l’Astronomo. Il racconto dell’aedo, riluttante a seguire una sequenza cronologica ordinata, muove da qui, dalla vicenda-simbolo di questo stravagante sognatore, perché
è la ricerca che ci insegna le parole per descrivere lo splendore delle stelle, il silenzio dei pesci, il sorriso e lo sconforto, la fine del mondo e la luce dell’estate. Abbiamo un compito, a parte baciare labbra; sai per caso come si dice «ti desidero» in latino? E come si dice in Islandese? (p.159)
Sulla vicenda dell’Astronomo si innestano quelle degli altri abitanti del fiordo, il racconto dei loro desideri: desideri “islandesi”, apparentemente generati da bisogni primari (il sesso, la fame, il calore…), che l’aedo abilmente traduce in desideri “latini”, espressione di un vuoto siderale, di una mancanza ancestrale («la potremmo definire mancanza di maturità sociale, ce l’abbiamo dentro, nel profondo», p.146) e della ricerca disperata non di un riempitivo, ma di un pieno. A determinare questo pieno non è mai il conseguimento di un traguardo né tanto meno un happy end; anzi. Ciò che riempie e compatta le esistenze disperse e irrelate di questi uomini e di queste donne, «così abituati a vivere isolati che non sappiamo come rapportarci opportunamente con i vicini» (p.146), è proprio l’innesto delle loro storie le une sulle altre, senza un piano apparente, ma attraverso una inestricabile rete di rimandi, richiami, resistenze, connivenze che fa di ogni personaggio il protagonista della propria vicenda, l’antagonista in un’altra, la comparsa in un’altra ancora, senza che sia possibile sopprimerne nessuno. Questa struttura narrativa ingegnosa impedisce al lettore di interrompere il racconto, sostenuta da una lingua che purtroppo non siamo in grado di leggere nella sua forma originale, ma che la traduzione restituisce ariosa e fluida, renitente agli spazi compressi, proprio come una grande campagna su un fiordo islandese.
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