Il tutor, la rivoluzione e il mercato. PNRR, stagione 1, episodio 2
La narrazione ufficiale è chiara: l’introduzione delle figure di tutor e orientatore costituisce il primo passo di una concreta rivoluzione del merito. A partire da qui la scuola tornerà ad essere realmente ascensore sociale e non lascerà indietro nessuno. Finalmente studenti e famiglie potranno contare su un solido appoggio per individuare e valorizzare i talenti di ciascuno e scegliere con piena consapevolezza il percorso formativo giusto.
Circola però anche una narrazione alternativa, alla quale mi rifarò nella stesura di questo pezzo. Racconta una storia differente, che ambisce ad essere più rispettosa dell’esperienza e della realtà. Una storia di semplice buon senso, che induce cautela e una certa dose di diffidenza, o almeno di distanza critica.
A caval donato non si guarda in bocca
Il mondo della scuola non brilla per ricchezza di risorse che possano consentire a ciascuna istituzione di affrontare serenamente i bisogni delle persone che studiano e lavorano. Anche per questo la sola idea di rifiutare un regalo suona offensiva. Eppure alcuni doni apparentemente gratuiti possono essere insidiosi, se comportano richieste implicite: è già così, per esempio, nel primo episodio della stagione del PNRR, che prevede l’assegnazione di una montagna di denaro per acquistare arredi e strumentazione tecnologica non richiesta, sicura garanzia di una migliore qualità dell’inclusione e dell’apprendimento. Il copione dell’episodio pilota non prevede che si possa nemmeno ipotizzare un rapporto diverso fra tecnologia e apprendimento, né che si possano mettere in discussione gli stereotipi che ne sono alla base, primo fra tutti il docente che uccide la classe con la lezione tradizionale. Anche in questo secondo episodio, l’elargizione risponde a premesse non in discussione, sancite dall’Europa: le nuove figure professionali consentiranno un salto di qualità straordinario nella lotta contro la dispersione, nelle attività di inclusione, negli apprendimenti e nella crescita individuale. Se, come nel caso della “mia” scuola, la dispersione è bassa e l’inclusione buona, il bisogno non c’è ma ci si deve comportare come se ci fosse. Il dono induce un bisogno artificiale, promuove la percezione di una situazione inesistente o addirittura la sostituzione di una finzione alla realtà: un atteggiamento tanto paradossale quanto frequente, in istituti dove spesso convivono uno accanto la proiezione nel futuro – strumenti tecnologici avanzati e numerosi – e i residui di un passato neanche troppo prossimo – maleodoranti bagni degni di una stazione in abbandono. Ѐ allora possibile immaginare questo regalo come addizione materiale che corrisponde a una sottrazione sostanziale, di democrazia, partecipazione e responsabilità collegiale: non si può infatti decidere perché si dovrebbe ricevere del denaro né cosa fare con il denaro ricevuto, ma solo come spenderlo, rispettando i rigidi vincoli posti dalle procedure (nel primo episodio, ad esempio, che il denaro si spenda quasi tutto per le cose e non per le persone). Come quando si esalta la creatività dei videogiocatori, dimenticandosi che viene esercitata entro i rigidi limiti previsti da chi ha programmato ambienti e dinamiche del gioco, per suscitare un senso di libertà attraverso il controllo.
Il cliente ha sempre ragione
Le politiche scolastiche di questi ultimi anni hanno ripetutamente messo in primo piano gli “stakeholders”, i portatori di interesse, ribadendo in ogni modo possibile, talvolta con buone ragioni, la centralità dello studente e della sua famiglia. In questa prospettiva, termini come “personalizzazione” sono ammantati di luce, presentati come un orizzonte al quale tendere: la scuola per tutti e per ciascuno. Tuttavia, molte persone che lavorano nella scuola diffidano, con ragioni altrettanto buone, di questa affermazione di vicinanza ai bisogni e alle sensibilità individuali. Addirittura, la leggono come possibile diminuzione di valori e ideali condivisi. Esiste, a loro avviso, il rischio concreto che il dettato costituzionale di uguaglianza e libertà che indirizza l’azione della scuola alla rimozione degli ostacoli sociali e alla promozione dei meritevoli venga in questo modo rovesciato nel suo contrario, barattandolo con una vaga idea di difesa dell’unicità e diversità del singolo. A questo fine, pensano, mira la costante critica al sapere disciplinare, a contenuti e conoscenze, ritenuti responsabili dell’autoritarismo e dell’immobilismo nei rapporti all’interno della scuola, e della sua distanza dal mondo esterno. Un’idea del sapere fondata su categorie innovative e “reali”, come le competenze, servirebbe dunque a supportare uno svuotamento della più alta aspirazione della scuola pubblica: dare alle persone i mezzi (informazioni e contenuti, prima di tutto) per emanciparsi e cambiare la propria condizione. L’attenzione sul singolo individuo, anche e soprattutto sul versante psicologico del benessere e delle soft skills, mirerebbe a promuovere una serena accettazione della disuguaglianza, anziché la rivendicazione di un cambiamento sociale che ne consenta lo sradicamento.
Ѐ meglio un uovo oggi
Simili dubbi attraversano i collegi docenti, i gruppi di lavoro, la coscienza dei singoli, posti di fronte alla scelta se candidarsi a rivestire uno dei ruoli ben retribuiti da questo investimento. Accanto a chi aderisce con sincera volontà e convinzione a questa proposta di rinnovamento di prassi e dinamiche consuete, le voci delle scuole evidenziano diverse sfaccettature e ragioni di questa scelta.
La prima si manifesta come spirito di sacrificio, anteponendo a dubbi, perplessità, critiche un dovere superiore che tanti e tante di noi sentono, il senso di responsabilità di fronte ai ragazzi e alle ragazze. Ѐ una candidatura “nonostante tutto” (queste le precise parole di una collega), perché “insegnare non è un mestiere, ma una vocazione”. Convinzione diffusa all’interno della categoria, gradita a un’opinione pubblica in cerca di eroi, ma secondo molti discutibile e lesiva non solo di chi la sostiene ma di tutte le persone che insegnano.
La seconda si fonda semplicemente sul possibile guadagno. Non la adducono solo gli insegnanti, presenti in ogni scuola, attentissimi a qualsiasi possibilità di integrare uno stipendio magro. La spinta funziona anche al contrario: muove chi, frustrato nel vedere il proprio lavoro non riconosciuto (a volte la funzione docente è davvero pesante) è stufo di vedere chi lavora meno, talvolta poco, cogliere occasioni che lui stesso si preclude.
La terza è la finzione del volontarismo. Risponde al lavoro di reclutamento che le dirigenze hanno avviato: nelle tante realtà scolastiche in cui è stato subito chiaro che il numero minimo richiesto per accedere al finanziamento non sarebbe stato raggiunto, è partita un’intensa attività di convocazione individuale e definizione di candidature che in gergo si definirebbero “spintanee”. Il successo di questa strategia è reso possibile dall’opportuna proroga dei termini di presentazione delle candidature, che sposta le dinamiche decisionali dalla dimensione individuale, morale e politica, a quella dell’osservazione dei comportamenti altrui, dell’imitazione, della persuasione pubblicitaria, come attesta perfettamente un recente trailer/ spot indirizzato ai docenti.
Sono semi, sostiene più di qualche collega, destinati a fare crescere divisioni e risentimenti.
Si tratta di scelte individuali, sia chiaro, umane e rispettabili, tutte. Ma sono basi fragilissime sul piano culturale e ambigue sul piano etico, sopra le quali è ben difficile che si possa edificare una qualsiasi buona scuola del futuro.
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