Cultura visiva e Transmedialità/ Sei sguardi critici sul destino digitale. David Buckingham, “Media education”
Perché una rubrica su “cultura visiva e transmedialità”?
Nella sua storia, il nostro blog ha ospitato più volte interventi sul crescente influsso della dimensione visiva nella cultura contemporanea, dedicando uno spazio importante alla riflessione sulle nuove istanze e forme espressive che proliferano in quest’ambito. Il confronto su questi temi ha toccato aspetti diversi, e si è tradotto in una pluralità di voci e punti di vista, legati alle esperienze e alla formazione di redattori e redattrici: il caso più significativo, in tempi recenti, è costituito dal dialogo che si è aperto a partire dalla recensione della docuserie “Sanpa”. Nell’ambito della redazione, è quindi nata l’idea di ritagliare per la cultura visiva e la transmedialità uno spazio specifico, all’interno della sezione “Il Presente e noi”.
In questo spazio affronteremo argomenti anche molto differenti fra loro, in forme articolate: recensioni di libri, film, serie e prodotti multimediali; brevi saggi critici; interviste ad esperti del settore. Attraverso la varietà dei temi e degli approcci perseguiremo alcune finalità condivise per comprendere a fondo il ruolo che visivo e transmediale giocano nella nostra vita personale e professionale.
Perché leggere i classici della media education
Il dibattito sulla “società della conoscenza” e sulla “scuola digitale” risente di un forte orientamento ideologico, che conduce a banalizzare temi complessi. Lo attestano le parole pronunciate pochi giorni fa in un Tech Talk (sic) dal ministro Bianchi:
La Dad ci ha insegnato che ci sono altri modi e che ci sono altri mondi. Possiamo usare quell’esperienza come base, trarne vantaggio (…) In questo momento, tutti gli studenti della scuola dell’obbligo sono nati in questo secolo, mentre più o meno tutti gli insegnanti sono nati il secolo scorso. Sono loro che hanno bisogno di formazione. Tutto ciò è possibile incrociando le competenze, pensando a un reskilling degli adulti.
Il proposito di trasformare l’emergenza in normalità è supportato da un’esibita ignoranza di cinquant’anni di ricerca nell’ambito della media education, e accompagnato dall’adozione della più classica retorica dei “nativi digitali”: l’esigenza di formazione, secondo questa logica, non riguarderebbe chi apprende, bensì al contrario chi insegna.
La spontanea reazione di rigetto per questo genere di finte argomentazioni, di norma accompagnata da accuse di conservatorismo, risulta gradita a chi vorrebbe per la scuola un futuro ciecamente tecnocratico: consente infatti al Baricco di turno o al decisore politico di eludere i problemi, sostituendoli con una caricatura di chi li pone.
In quest’articolo, e in quelli che seguiranno, cercherò di evitare la polarizzazione, studiando il futuro descritto in alcuni testi fondativi della media education. A una distanza variabile dal presente nel quale ci troviamo (talvolta misurata in decenni), gli autori e le autrici immaginarono principi, percorsi e problemi del lavoro di alfabetizzazione ai media; in larga misura, anticiparono gli snodi culturali e didattici che oggi ci appassionano.
Coordinate culturali
I passi di Gino Roncaglia (“L’età della frammentazione”, pag. 9) e Shoshana Zuboff (“Il capitalismo della sorveglianza”, pag. 24) citati di seguito costituiscono le coordinate sociologiche e pedagogiche entro le quali colloco il mio discorso:
Il riferimento a una “scuola digitale” è evidentemente dettato da esigenze di estrema sintesi comunicativa, ma si presta a un’immediata obiezione: rischia di far percepire il digitale come una sorta di ideologia totalizzante o come una variabile indipendente (…) È bene allora chiarire subito che non è questo il senso da dare all’espressione. Come si è detto, il concetto di digitale è associato alla codifica e all’elaborazione dell’informazione: è sensato dunque considerarlo come uno degli elementi, fra loro fortemente interdipendenti, di un’equazione al cui centro è semmai il ruolo che diverse tipologie di contenuti informativi e di strumenti per la produzione, elaborazione e gestione dell’informazione hanno nella costruzione delle nostre conoscenze e delle nostre competenze. È in questo senso che contenuti e strumenti digitali entrano – e devono entrare – anche nella scuola, come già fanno nella vita quotidiana e lavorativa di ciascuno di noi. Una scuola che ignorasse il digitale sarebbe una scuola lontana dalla realtà, incapace di fornire competenze di cittadinanza fondamentali in un contesto sociale caratterizzato proprio dalla centralità dell’informazione digitale e delle reti.
Questo non implica affatto, però, che qualunque strumento digitale o contenuto digitale sia automaticamente buono e desiderabile perché digitale.
Per cominciare a confrontarci con quel che non ha precedenti, dobbiamo capire che ci interessa il burattinaio, non il burattino. La comprensione è ostacolata innanzitutto dalla confusione fra il capitalismo della sorveglianza e le tecnologie che impiega. Il capitalismo della sorveglianza non è una tecnologia; è una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Il capitalismo della sorveglianza è una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto del digitale, ma non coincide con il “digitale”. (…) il digitale può assumere molte forme, a seconda delle logiche sociali ed economiche che lo animano. È il capitalismo che impone un prezzo fatto di sottomissione e impotenza, non il digitale.
Si può immaginare un incontro proficuo fra l’insegnamento delle discipline e un’alfabetizzazione ai media che ne consideri il ruolo come costruttori di senso, d’identità e di valori, non come semplici supporti tecnologici all’apprendimento? Alcune studiose e studiosi ritengono di sì: di loro mi occuperò, in questa puntata e in quelle che seguiranno.
Un libro sul perché fare le cose, non sul come farle
Un primo strumento utile ad orientare il nostro sguardo critico, liberandolo da stereotipi e semplificazioni, è “Media education. Alfabetizzazione, apprendimento e cultura contemporanea” (Erickson, 2006) scritto da David Buckingham nel 2003.
L’autore organizza la sua riflessione intorno a quattro temi: obiettivi e storia, in continua evoluzione, dell’alfabetizzazione ai media; strategie di insegnamento/ apprendimento; riflessione sul ruolo della creatività e del senso critico; orizzonte futuro delle sfide culturali della media education.
Premette al suo ragionamento una riflessione su alcune tendenze pedagogiche della sua contemporaneità, per segnalare il rischio che la media education si allinei con le mode politiche del momento, che pongono molta enfasi sul concetto di “creatività” nell’apprendimento e sulla “spinta all’implementazione delle nuove tecnologie nelle scuole”. Insiste sulla necessità di dare alla disciplina un solido impianto teorico, verificando costantemente la praticabilità delle ipotesi elaborate dalla ricerca accademica. Distingue con rigore fra un approccio didattico al cui centro siano poste le reali esigenze cognitive e relazionali di chi insegna e di chi apprende (cosa e perché insegnare?), ed un altro che esalta le potenzialità strumentali/ metodologiche dell’utilizzo dei media (come insegnare?):
Questo non è un libro sul ‹‹come si fa››. (…) Esistono molti libri e strumenti di questo tipo e, in ogni caso, i materiali didattici devono essere calibrati in maniera specifica ai bisogni degli insegnanti e degli studenti. L’insegnamento migliore avviene nel momento in cui l’insegnante riflette su ciò che sta facendo e si sente responsabile della crescita dello studente. Non avviene quando l’insegnante applica materialmente i progetti predefiniti o utilizza senza creatività le risorse curricolari, per quanto valide possano essere. Il buon insegnamento dipende anche da quanto gli insegnanti riescono a tenere conto delle culture e delle attese degli studenti, e da quanto fanno attenzione al modo in cui i ragazzi imparano.
Perché insegnare i media?
Nelle prime pagine, Buckingham enuncia una distinzione fondamentale: “bisogna fare attenzione a non confondere la media education con l’insegnamento che avviene attraverso e con i media”, soprattutto in relazione “all’entusiasmo contemporaneo per l’uso delle nuove tecnologie nell’educazione, in cui i media sono spesso visti come mezzi neutrali per la trasmissione di contenuti”: una confusione di questo tipo potrebbe infatti indurre a credere che inserire nei percorsi formativi una maggiore quantità di tecnologia comporti di per sé un incremento nella qualità e consapevolezza del suo significato da parte di chi la utilizza. Così non è: altro è educare con i media, altro educare ai media.
Nel motivare la scelta di promuovere una diffusa alfabetizzazione, l’analisi tocca trasformazioni storiche di fondamentale importanza, anche per i loro riflessi pedagogici.
La riflessione muove dal ruolo dei media nella definizione delle dinamiche sociali e nella costruzione dell’identità individuale. In quest’ambito, Buckingham evidenzia la crescente importanza di fenomeni di “frammentazione” sociale e di “individualizzazione” identitaria: il contesto culturale di inizio millennio gli appare segnato da una crisi diffusa dei sistemi di valori, degli stili di vita e delle gerarchie tradizionali, in cui le “società moderne sono più inique e polarizzate di quelle che vanno a rimpiazzare”.
In un simile contesto, chi insegna deve abbandonare la pretesa e l’atteggiamento del legislatore, che impone i valori e le norme della cultura ufficiale, per assumere quelli di un interprete capace di comunicare la molteplicità della realtà e di prospettare diverse forme di percezione e di conoscenza. Egli guarda infatti con attenzione all’interazione fra i mondi dei bambini fuori dalla scuola e l’organizzazione dei sistemi educativi.
(…) non è così sorprendente che i bambini percepiscano la scuola come marginale rispetto alla loro identità e bisogni, o al massimo come una sorta di routine funzionale. Se la scuola, dunque, deve competere con le culture dei media dei bambini, è chiaramente vitale che, nel fare questo, non si tenti esclusivamente di stabilire nuovamente nozioni tradizionali di cosa valga come ‹‹sapere››.
Lo studioso si mostra consapevole del rischio che la scuola corre, andando in qualche misura incontro alle forme più popolari delle culture infantili e giovanili. Tuttavia, proprio a partire dalla consapevolezza che i media “sono inevitabilmente inseriti nelle più ampie reti del potere sociale, economico e istituzionale” ritiene sia di importanza vitale che la scuola promuova attivamente la comprensione delle “logiche complesse e spesso contraddittorie” secondo le quali essi operano.
La comprensione concettuale, le conoscenze, le competenze
Procedendo alla “definizione del campo” di studi della media education, ai termini tradizionali conoscenze e competenze, Buckingham preferisce l’espressione “comprensione concettuale”: ne descrive il processo cognitivo servendosi di quattro “concetti-chiave” (o “aspetti-chiave”): produzione, linguaggio, rappresentazione, pubblico. Chi osserva il campo dei media a partire da uno qualsiasi di essi, si pone una serie di domande che mettono in gioco il patrimonio delle sue conoscenze e competenze, sociali e individuali. Parlare di “produzione” significa quindi, ad esempio, ragionare sulle tecnologie, sull’industria dei media e sui collegamenti tra essi, sui meccanismi di regolamentazione, distribuzione, accesso e partecipazione. Studiare il “linguaggio” conduce a analizzare significati, codici, generi, convenzioni, scelte. Lo studio della “rappresentazione” guarda a concetti come realismo, verità, inclusione ed esclusione, stereotipi, parzialità e obiettività, interpretazione. L’osservazione del “pubblico” conduce a comprendere target, indirizzo, circolazione, fruizione, giudizio, gradimento.
Questi concetti offrono “un approccio inclusivo e sistematico alla media education”, pur non essendo né una lista di contenuti né una successione gerarchica di elementi da studiare separatamente. In particolare, essi non si lasciano organizzare in un curriculum che preveda prima lo studio di un aspetto e dopo quello di un altro. Sono immaginati invece come una sorta di grammatica dello sguardo e della comprensione del visivo: concetti interdipendenti, possibili ingressi a diverse aree della disciplina. L’autore li definisce “una modalità di organizzazione del pensiero” (un quadro epistemologico), e sottolinea che “possono essere applicati tanto ad attività creative (come, ad esempio, fotografare) quanto ad attività analitiche (come lo studio della pubblicità)”.
Crescere attraverso la creatività e la critica
Nel percorso di apprendimento, sottolinea l’importanza della “creatività”, che manifesta l’acquisizione di competenze tecniche, la capacità di comprensione e di concettualizzazione (attribuzione di senso). Non ritiene che si debba enfatizzare il valore del prodotto finale (per esempio, un racconto video), quanto piuttosto valorizzare il percorso di incrocio fra riflessione teorica, conoscenze e loro applicazione, costruito dall’insegnante insieme al gruppo. Nota, inoltre, che fra la qualità dei prodotti ai quali si giunge tramite le tecnologie e la consapevolezza/ indipendenza di giudizio dei ragazzi che li creano non esiste affatto un rapporto biunivoco:
(…) il fatto che sia abbastanza immediata la possibilità di produrre qualcosa di buono, non rende necessariamente il lavoro più coerente o efficace in termini di comunicazione. Infatti, “effetti belli” possono anche mascherare una carenza di contenuto, e persino di pensiero rispetto a ciò che il prodotto intende comunicare.
La stessa ricerca di un pubblico non determina di per sé una maggiore socializzazione e condivisione del percorso intellettuale, ma rischia di indurre all’individualismo e alla competizione.
Della capacità di “criticare” e “interpretare”, fondamentali nella crescita dei bambini e dei ragazzi, Buckingham evidenzia la duplice natura sociale (diventare in grado di esercitare un potere sociale attraverso la comunicazione consapevole) e individuale (acquisire il controllo sui propri meccanismi di pensiero ed elaborazione del sapere). Auspica che proprio lo sviluppo della consapevolezza critica diventi momento privilegiato di collaborazione fra pari e condivisione di sapere, valori, scelte.
(…) l’approccio che io propongo è essenzialmente dialogico. Implica il continuo dialogo e la negoziazione fra le conoscenze e l’esperienza dei media che gli studenti già hanno, e le nuove conoscenze che possono venire dall’insegnante. Non tenta dunque di convalidare – figurarsi se di celebrare – le esperienze degli studenti, ma di dare loro i mezzi per riflettere su di esse e per andare oltre.
Imparare, divertirsi, giocare: il mondo alla rovescia?
Nella parte conclusiva del suo saggio, l’autore si interroga sulla centralità che alcuni pedagogisti dei media postmodernisti attribuiscono al “piacere” e al “gioco” nel percorso di insegnamento/ apprendimento:
Questa dimensione giocosa è stata la chiave della teoria postmoderna. Al posto delle nozioni realiste di rappresentazione, alcuni postmodernisti favoriscono il gioco irriverente dei significati, in cui la razionalità e la serietà vengono sostituite da ironia e parodia.
All’idea di un sapere conseguito attraverso una logica razionale, questi pedagogisti sostituiscono una visione eclettica, che rifiuta i significati prestabiliti, giudicandoli “verità” imposte in modo totalitario. Secondo Buckingham, l’enfasi posta sulla dimensione ludica del sapere, e il conseguente rifiuto della tradizione, rischiano di trasformarsi da atto di resistenza all’oppressione culturale in complicità con la cultura consumista dominante.
Il rapporto fra apprendimento, tecnologie e scuola nel 2003 è così descritto:
I bambini sono oggi immersi in una cultura di consumo che frequentemente li pone come attivi e autonomi ma, nella scuola, la maggior parte del loro apprendimento è ancora passivo e diretto dall’insegnante. Se la scuola non riesce a stare al passo del cambiamento degli orientamenti e delle motivazioni dei ragazzi verso l’apprendimento, corre il rischio di diventare marginale nella loro vita. (…) Se la proposta della tecnologia nella scuola rimane ristretta come è attualmente, la disaffezione diventerà sempre più diffusa
Sarebbe tuttavia piuttosto falso fingere che i ragazzi siano utenti competenti dei nuovi media, oppure che necessariamente sappiano tutto quello che c’è da sapere. Come in altre materie, i ragazzi hanno però il vantaggio di una specie di fiducia naturale nel rapporto con la tecnologia: a differenza di molti adulti, non sono spaventati dalla macchina. (…) Dobbiamo iniziare dal provare a scoprire ciò che i giovani effettivamente sanno, e riconoscere che è possibile che ci sia ancora molto che devono imparare.
Lette a quasi vent’anni di distanza, queste parole sono invecchiate solo in superficie.
Sicuramente, oggi “la proposta della tecnologia nella scuola” non è “ristretta”, ma invadente, orchestrata da potenti interessi economici. Tuttavia, in un contesto profondamente mutato, non sono cambiati i bisogni delle persone alle quali insegniamo. Dietro la loro crescente competenza strumentale, si nasconde lo stesso bisogno di dare un senso alla loro esperienza visiva, di sentirsi riconosciuti e di essere aiutati per quelli che sono, e non per quelli che la rete o i social li spingono a fingere di essere.
Chi, se non la scuola, dovrebbe rispondere a questo bisogno?
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