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diretto da Romano Luperini

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Don DeLillo. Il silenzio e qualche altra riflessione

Il 20 Ottobre 2020 è stato pubblicato, da Scribner, The Silence, il romanzo breve che segna il ritorno di Don DeLillo (la traduzione italiana, pubblicata da Einaudi, è di Federica Aceto), a quattro anni di distanza da Zero K. Il libro è stato accolto, con consenso unanime, come l’ennesimo grande capolavoro dell’«ultimo americano» (così lo ha definito Claudia Durastanti). Parlarne è, dunque, doveroso, cercando semmai di ricordare che il testo mantiene una certa continuità con le opere che l’hanno preceduto e con cui sembra avere intessuto una relazione di interattività, introiettando nella scrittura tratti relativamente costanti, perché, come direbbe DeLillo, «alla fine è tutto collegato, o sembra solo che lo sia, o sembra che lo sia solo perché in realtà lo è» (Underworld).

«Che cosa succede alle persone che vivono dentro il loro telefono?»

The Silence, ambientato nel 2022, racconta (anzi profetizza) il collasso del mondo digitale che si verifica, senza alcun preavviso, nella quotidianità media di un giorno qualsiasi (già in Underworld DeLillo aveva parlato del blackout del 9 novembre 1965). La narrazione, che sembra simulare una pièce teatrale (lo scrittore americano ha già sperimentato questo genere in The Day Room: A Play, tradotto in italiano con il titolo La stanza bianca, Valparaiso e Love-lies-bleeding), si articola contemporaneamente su una doppia scena. Da una parte lo sfondo è un appartamento di New York in cui Max Stenner e Diane Lucas, insieme a Martin Dekker, un giovane professore di Fisica (ed ex studente di Diane, «un uomo perso nello studio compulsivo del manoscritto di Einstein del 1912 sulla Teoria della relatività speciale»), sono seduti davanti alla tv, in attesa di assistere al Super Bowl, e di incontrare una coppia di amici, Jim Kripps e Tessa Berens, di ritorno da Parigi, dove si sono concessi il primo viaggio post-pandemia. Dall’altra parte lo sfondo è quello dell’aereo su cui stanno viaggiando Jim e Tessa, in procinto di giungere a destinazione. All’improvviso l’imprevisto, l’evento fortuito che tutto stravolge. La tv si oscura, i telefoni si spengono, i computer sono privi di vita, niente luce, niente riscaldamento, l’aereo è costretto ad un violento atterraggio fortuito (in cui Jim si ferisce in modo abbastanza serio). Ogni connettività cessa. Un «silenzio globale», sottocutaneo, si insinua nelle minute pieghe di una realtà che appare, di colpo, spalancata e inerme («Nessuno vuole chiamarla Terza guerra mondiale, ma è di questo che si tratta»).  Tutto sembra frantumarsi progressivamente, i personaggi, i loro gesti e le loro parole, lo spazio e il tempo, lo «spaziotempo». Ovunque incombe «la relatività, l’incertezza, l’incompiutezza», ogni elemento di realtà si racchiude nella propria individualità, in modo così naturale «da sfuggire a una definizione conclusiva, a una valutazione immutabile» e, nello stesso tempo, diviene estroflesso ed esasperato (M. p. 278). Alla fine della prima parte Jim e Tessa riescono a giungere a casa di Max e Diane, ma l’incontro non rappresenta una svolta nella narrazione, rimane improduttivo ed emerge sempre di più una situazione disarticolata e paralizzata. Non resta che un asfittico conversare (che a tratti diviene vuoto monologare) di uomini e donne che, spinti in una brutale chiusura, stanno uno di fronte all’altro, incapaci di qualsiasi argomentazione intersoggettiva, isolati in un’estraneità essenziale, in una deiezione che ha dei tratti quasi metafisici. L’effetto è quello di uno straniamento effusivo, massiccio, affidato al fluttuare irresoluto dei pensieri, all’enfasi elencatoria di congetture e teorie, alla distruzione dei nessi causali e finali, per cui le parole sono allineate senza essere, almeno apparentemente, subordinate ad uno scopo. Non è certo un caso che, ad un certo punto, Diane, nel tentativo di dire qualcosa «pur non avendo la minima idea di ciò che potrebbe uscirle dalla bocca», finisce con il citare «una frase a caso» del Finnegans Wake di Joyce, «prima che il sockson luccasse le dure».

Il risultato complessivo è la costruzione di un mondo nel quale le vite scorrono senza che i personaggi prendano parte attiva nell’azione, ciò che li separa dalla fine è il tempo vuoto, che non può più essere riempito da nessun gesto, e nel cui puro spazio – sprofondato nella catastrofe – sono condannati a vivere, in un’assoluta impotenza: la realtà, purtroppo, si è sostituita alla virtualità della vita.

Proponendo una nuova dialettica tra connessione e disconnessione, DeLillo perturba la logica narrativa che si serve di due fonti contraddittorie, la razionalità della scienza e qualcosa di misterioso che supera «tutte le barriere delle definizioni multiple», e va a toccare una frattura cromosomica della natura umana che ne mette in discussione l’integrità. Martin è il personaggio che meglio incarna questo movimento oscillatorio, e che «si alza e si siede […], si alza di nuovo e parla, perso in quel suo sguardo rivolto al nulla»:

Sarebbe il caso di finirla, giusto? Solo che io continuo a vedere quel nome. Einstein. La teoria della relatività di Einstein che provoca tumulti nelle strade […]. Einstein che parla da un punto di vista che va oltre la nostra attuale situazione, situazione che io ho definito Terza guerra mondiale. Einstein non ha avuto una premonizione su come si sarebbe combattuta questa guerra, ma ha detto chiaro e tondo che il successivo conflitto di portata globale, la Quarta guerra mondiale, si sarebbe combattuta con pietre e bastoni […]. Queste cose mi porto dentro la testa, nel bene e nel male. Cos’altro c’è? Mi devo fare la barba. Ecco cos’altro c’è. Devo guardarmi allo specchio e ricordarmi che è ora di farmi la barba. Ma se adesso esco da questo soggiorno ed entro in bagno, ne verrò mai fuori? La faccia nello specchio. Controllo granulare. Tecnosfera. Autenticazione a due fattori. Gateway tracking. È più forte di me. Sono circondato da questa terminologia. A volte cerco di pensare in un contesto preistorico. Vedo un’immagine su una lastra di pietra, un disegno rupestre. Tutti questi brandelli sgranati della nostra lunga memoria umana. E poi Einstein. Quella lingua esaltante. «La dipendenza della massa dall’energia». Mi piacerebbe camminare con lui per il campus di Princeton. Senza dire niente, in silenzio. Due uomini che camminano e basta. Poi dice: – E le strade, queste strade. Non ho bisogno di guardare fuori dalla finestra. La folla ormai dispersa. Le strade ormai vuote. Questo è quanto dice il giovane Martin, lo sguardo rivolto verso il basso tra le dita a ventaglio. –  Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?».

«È lo choc del mondo esterno, la botta, la sorpresa dell’intrusione»

The Silence non è un capolavoro, e sicuramente non è il capolavoro di DeLillo, è piuttosto un pretesto narrativo, grazie al quale lo scrittore americano conferma, in maniera concisa ed estrema, le modalità d’intreccio e i temi (postmodernisti) che più gli sono cari (la minaccia atomica globale, il complottismo, la guerra fredda, lo sport, il consumismo, la scienza, Einstein, l’ipertecnologia), con cui ha saputo raccontare la realtà febbrile e disorientata degli USA e, in generale, della società occidentale. Anche in questo caso, infatti, il motore potente dell’azione è l’incontro con un evento inaspettato che interrompe la catena delle evidenze; non si tratta solo di un fatto che accade, ma di un artificio della trama che comunica una visione del mondo, un vettore di significato.

Al centro di tutti i romanzi dello scrittore americano (ma lo si avverte più nettamente dopo Underworld) vi è quasi sempre una realtà fatta di un’irrilevante serialità, rotta, ad un tratto, da un’inspiegabile eccezionalità, una specie di falla del sistema (un blackout, una nube tossica, un attentato, una scomparsa, una malattia, una perdita), che provoca un’alterazione nella dimensione spazio-temporale, una deflagrazione nella traiettoria psicologica e sociale dei personaggi. Questi sprofondano in un vuoto terrificante, in una vertigine allucinatoria, bloccati in una sorta di paralisi e di ininterrotta coazione a ripetere riflessioni, azioni e frustrazioni. In Body art, Lauren Hartke, dopo la morte del marito, passa le giornate a guardare le riprese di una strada in Finlandia («Passava ore allo schermo del computer a guardare in rete la ripresa dal bordo di una strada a due corsie in una città della Finlandia. […]. Era interessante perché accadeva in quel momento, mentre lei era seduta lì, e perché accadeva ventiquattr’ore al giorno, niente facce, solo macchine che entravano e uscivano da Kotka, oppure semplicemente la strada vuota nei tempi morti. I tempi morti le piacevano più di ogni altra cosa). In Punto omega, Richard Elster, un anziano intellettuale che ha dato il suo appoggio al governo nella guerra in Iraq, dopo la scomparsa della figlia, sprofonda in uno stato catatonico, capace solo di pochi ripetitivi movimenti, «ridotto ad un contorno essenziale, senza peso» («Il punto omega si è ristretto, qui e ora, alla punta di un coltello che penetra in un corpo. Tutti gli elevati temi di quell’uomo ristretti in un dolore locale, un solo corpo, lì da qualche parte, o forse no»).

Non si ha, dunque, a che fare con uno squarcio luminoso e salvifico (tipico del dettato modernista), ma di una luce bianca (tipico aggettivo delilliano) e opaca che diviene spaventosamente minacciosa, e da cui si liberano solo pulsioni incontrollabili e distruttive.

«Tutti vogliono possedere la fine del mondo»

Dopo l’evento, in conseguenza di questa perdita dell’orizzonte, si assiste ad una nuova dislocazione del senso che non si colloca più nel mondo, all’interno dell’esistenza quotidiana, ma in una sorta di alienazione della mente: un’esperienza reale che coinvolga l’intera personalità non è più possibile. Gli individui non riescono ad uscire da se stessi, a dialogare in modo efficace con la realtà, con l’altro. L’evento misterioso o, meglio, «la minaccia attendibile», provoca il trauma, il cambiamento di scena, l’«effetto di straniamento», come direbbe Brecht, e costringe i personaggi a confrontarsi con la morte, con il senso della fine, propria, degli altri, collettiva, «la morte termica dell’universo» (Punto omega). Il lutto si presenta col significato di un annullamento  totale, privo di orizzonti, di prospettive, di un senso. Non porta con sé la possibilità di un bilancio malinconico del passato, né di una intima ricostruzione della propria esistenza, non suggerisce ricordi, non consente lasciti. Quello che dovrebbe essere connotato come l’avvenimento decisivo di una vita viene visto come un’«abitudine» anacronistica, «difficile da spezzare», ma che deve essere sconfitta, per sempre. Tutti sono disposti a rinunciarvi, a qualsiasi costo.

In White Noise (Rumore bianco), Jack Gladney e sua moglie Babette identificano la paura della morte con un assillante «suono», «uniforme, bianco» («A volte mi invade, – disse lei. – A volte mi si insinua nella mente, a poco a poco. Io cerco di parlarle. “Non adesso morte”»), tanto da ricorrere ad una medicina «supersperimentale», il Dylar, che isola «la parte del cervello preposta alla paura della morte». In Zero K, Ross Lockhart, nel tentativo estremo di salvare la moglie Artis (affetta da numerose patologie degenerative), investe ingenti somme di denaro in Convergence, una clinica segreta dove viene consentita la «sospensione criogenica» fino a quando, neutralizzate le circostanze che conducono alla fine, «la mente e il corpo verranno risanati, riportati in vita»; il futuro si prospetta come «una nuova generazione di land art, con corpi umani in uno stato di animazione sospesa» («Tecnologia basata sulla fede. Ecco cos’è. Un altro dio. Non tanto diverso, alla fine, di alcune nostre divinità del passato. Solo che è un dio reale, questo, è vero, mantiene le promesse»). La morte, dunque, non coincide più soltanto con la perdita dell’immanenza, ma viene privata anche della trascendenza, svuotata di una qualsiasi forma di spiritualità, di ogni sacralità.

L’orrore incoercibile è il segno stesso del fallimento, della rottura definitiva tra tecnologia e fede, tra ragione e senso ultimo della vita. DeLillo narra questa frattura con lucido rigore, insistendo sulla precisione dei dettagli, sull’esattezza realistica dei particolari e dei dati visibili, ma anche di ciò che si trova «ai confini della percezione»; l’ossessione linguistica per l’elemento minuto esprime l’esigenza di contenere e di controllare la confusione di un mondo che sta rinunciando alla propria umanità, guidato da «delirio collettivo, dalla superstizione, dall’arroganza e dall’autoinganno». Tuttavia tanta accuratezza cinge il vuoto e l’effetto conclusivo ne risulta ancora più spaesante, sottolineando solo, ancora una volta, la separazione dalla «ragionevolezza», da «questo fardello conosciuto con il nome di pensiero responsabile».

«Lottare significa mescolare la propria vita al più vasto flusso della Storia»

Per DeLillo la vita dell’umanità non può essere rappresentata se non inclusa in una realtà complessiva e problematica retta da sistemi politici, economici, storici e sociali che si evolvono di continuo, in maniera sotterranea e minacciosa. Egli, quindi, non indietreggia mai davanti alla possibilità di aderire alla totalità del presente o, più in generale, dei grandi eventi che hanno fatto la Storia universale, proprio perché concepisce il divenire come una concatenazione di verità e di poteri transitori che si trasformano inevitabilmente: si scontrano, prevalgono, vengono sopraffatti; né rinuncia a costruire delle tesi personali sull’origine di tragedie epocali, a indagare gli intrighi e gli interessi che potrebbero starne alla base. L’obiettivo dei suoi romanzi non è, dunque, concentrarsi sulla mimesi della vita interna e dei rapporti interpersonali (o comunque non è il solo), ma sulle forze esterne e pervasive che governano i destini privati, sui meccanismi che regolano «la sofferenza, il caos della composizione», sulle radici del disfacimento e della «distruzione di massa». Basti pensare a Libra, alla «grandiosa accuratezza della ricostruzione» (Giovanni Raboni in Devozioni perverse) dell’assassinio di Kennedy e di quei «sette secondi che spezzarono la schiena al secolo americano»; a Mao II, in cui viene indagato il rapporto tra masse e democrazia, celebrità e anonimia con la consapevolezza che «in società ridotte allo sperpero e alla sovrabbondanza, il terrore è l’unica azione significativa»; a Falling man, affresco doloroso dell’attentato al World Trade Centre, e di ciò che rimane ai superstiti dell’11 Settembre, «un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità». Ma anche a Underworld , il capolavoro indiscusso di DeLillo, che si snoda attraverso più di settecento pagine, fotografando un arco temporale di oltre cinquant’anni, dalla guerra fredda fino alla crisi di Cuba e al crollo dell’Unione Sovietica, in cui compare la brutalità della guerra in Vietnam, la Pop Art, le sigarette Chesterfield, la Fiat degli anni Novanta, il consumismo e lo smaltimento sotterraneo dei rifiuti, che diviene il simbolo della «reale sostanza del mondo» («l’immondizia è la gemella del diavolo. Perché l’immondizia è la storia segreta, la storia che sta sotto, il modo il cui l’archeologo dissotterra la storia dalle culture precedenti»).

La letteratura però non serve soltanto a rintracciare cosa si nasconde sotto il fluire dei fenomeni, ma soprattutto per «opporsi ai sistemi», ha dichiarato DeLillo nel corso di un’intervista qualche anno fa, e sottarsi ai condizionamenti e alle forze dominanti del mondo: «È importante scrivere contro il potere, le multinazionali, lo stato, tutto il sistema di consumismo e di intrattenimenti deplorevoli. Penso che gli scrittori per natura debbano opporsi alle cose, a qualunque potere cerchi di imporsi su di noi».

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