Perché (ri)leggere un classico della critica letteraria /7: Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento
L’oscurità [della poesia ermetica] ci porta fuori dal dominio rassicurante della causalità. […] Le ragioni dovremo cercarle altrove: in un mondo senza garanzie di ragioni.
Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento
Perché prende di petto il problema dell’oscurità di molta poesia moderna
Giacomo Debenedetti e il romanzo: quasi un’endiadi. La consustanzialità tra il critico e questo genere letterario è nota e ha spinto Pier Vincenzo Mengaldo a sostenere che Debenedetti, «nonostante il suo Saba, [fosse] miglior critico di narrativa che di poesia» (Profili di critici del Novecento). Eppure Poesia italiana del Novecento, uscito nel 1974 con una prefazione di Pasolini e più volte riedito, è un libro che merita tutta la nostra attenzione di lettori e insegnanti.
Proprio perché le categorie della critica debenedettiana e i suoi strumenti analitici sono dedotti dal romanzo, egli ci spinge a «leggere narrativamente e ragionevolmente anche la poesia più astratta e irragionevole» e «con il suo trattamento narrativo e parafrastico dei testi, li libera dalla loro superstizione filosofica e dal sortilegio dell’oscurità» (Alfonso Berardinelli, Prefazione all’edizione del 2000. Le citazioni che seguono sono tratte da questa edizione).
Il servizio è poi doppiamente utile, perché Debenedetti elegge a oggetto di analisi la poesia ermetica, ovvero la poesia più intransitiva e verticale che la modernità letteraria ci abbia consegnato. La sua pagina critica non mima o raddoppia mai l’oscurità dei testi che legge. Da un lato, per metodo, egli «intensifica il proprio impegno a decifrare, cerca perfino di colmare, finché può le lacune del significato, i vuoti che si spalancano fra un lampo metaforico e l’altro» (Berardinelli); dall’altro lato, egli non rinuncia mai all’obiettivo di trovare un significato anche là dove dovremmo supporre l’asemanticità. Ma su ciò bisogna intendersi. Il razionalismo di Debenedetti è fondato su una fiducia nella chiarificazione dell’inesplicabile che è positiva, mai positivistica. Egli ammette il mistero e la limitatezza della ragione umana, ma è materialisticamente convinto che la poesia sia un artefatto mondano, non un significato assoluto:
L’uomo conosce le matematiche perché egli stesso ne è l’autore, conosce la storia dell’uomo perché è egli stesso a produrla. […] Allo stesso modo deve poter conoscere e capire l’opera d’arte nelle sue ragioni, nei suoi perché, dal momento che l’arte è opera del suo animo, del suo cervello, delle sue mani. Posto che sia giunto a tracciare segni incomprensibili, nel senso che non si lasciano spiegare regolarmente, deve poter capire perché è giunto lì (p. 55).
Nei saggi sul romanzo modernista, Debenedetti assumeva come dato di fatto l’invasione di simulacri di personaggi e di personaggi dimidiati, però commemorava il «personaggio-uomo» del romanzo realista; studiava il nouveau roman e il teatro dell’assurdo, ma puntava a capire che senso avesse quell’insensatezza, voleva in altre parole storicizzare quel radicale spaesamento esistenziale e ontologico.
Allo stesso modo, in Poesia italiana del Novecento, interpretando liriche che sono programmaticamente scritte allo scopo di sfidare la comunicazione, sa bene che «questo problema, questa domanda: se sia lecito dare una spiegazione razionale, si pone per tutta l’arte moderna» (p. 52). Perché la poesia ermetica tende a sopprimere i propri contenuti per «diventare oggetto di se stessa», un dispositivo apparentemente autosufficiente, autotelico, formalistico? Di fronte a questa domanda, non si rassegna però alle risposte troppo semplici.
Commentando un giudizio del critico d’arte francese Maurice Jardot – nell’opera d’arte «non c’è nulla da capire, ma tutto da sentire» – Debenedetti apporta una correzione sostanziale: d’accordo, non si può spiegare fino in fondo con la ragione ciò che non solo con la ragione è stato prodotto e non solo alla ragione fa appello (la poesia viene in effetti recepita in una «zona tra sensualità e spiritualità»); d’accordo, commentare l’arte contemporanea è un difficile esercizio. Tuttavia
se non materialmente, realisticamente la “cosa rappresentata”, noi dobbiamo almeno capire perché non c’è nulla da capire a quel modo, e perché l’opera d’arte, prodotta fuori dei domini dell’intellegibilità e della ragione, sia ancora per noi opera d’arte;
se ci accontentassimo di
ridurre l’opera d’arte a puro “stimolo” della nostra sensibilità o del nostro sentimento, […] non sapremmo più in che cosa l’opera d’arte si distingua dal fatto di natura, che anch’esso agisce sulla nostra sensibilità (p. 53).
Che la lettura di una poesia generasse un «piacere […] anteriore all’interpretazione, a qualsiasi interpretazione, e […] da lei indipendente» era vero già per Dante. Per la poetica medievale, però, al momento della fruizione puramente estetica seguiva necessariamente il momento della comprensione razionale di un’idea. Al contrario, la poesia post-simbolista esige la simultaneità percettiva e la coesistenza ontologica della «bella menzogna» e della «veritade ascosa», per ricorrere al lessico del Convivio. L’assolutezza della parola poetica si rifiuta di usare la bellezza dell’involucro del verso come mezzo per un altro fine, fosse anche per la comunicazione di un contenuto: sarebbe già scadere in un uso funzionalistico del linguaggio. La poesia è puro «potere di apparizione».
Di qui il carattere apparentemente paradossale della poesia ermetica: essa offre immagini di percepibile, tangibile, sensuale evidenza, apparentemente prive di contenuto razionale; eppure questa «evidenza […] non ha nulla di comune con la chiarezza e con la spiegabilità» e si risolve in una «evanescenza, irriconoscibilità delle figure». Come dar loro un senso compiuto?
Perché la sua critica non rinuncia mai alla ricerca del «significato per noi»
Le categorie dell’analisi debenedettiana sono in effetti quelle – forti, vere e proprie parole chiave – già al centro della sua critica del romanzo: il «personaggio» e il «destino» che danno il titolo a un famoso intervento dei Saggi critici. Come per il personaggio in terza persona della narrativa, così per il “personaggio” in prima persona della poesia, Debenedetti va alla ricerca del «rapporto tra eventi biografici e linea del destino»:
Tutta la grande poesia lirica, forse, è anche metafisica. Ma le evidenze, le immagini, i paesaggi, i moti del sentimento e del cuore che noi vediamo apparire successivamente e in un ordine tutto organico e plausibile nei sonetti o canzoni o sestine del Petrarca, negli idilli o canzoni del Leopardi spiegano chiaramente la causa e il significato del loro apparire in rapporto a una storia d’uomo, a una congiuntura biografica o di destino, che ci sono comunicate per filo e per segno (p. 39).
Ma con l’ermetismo qualcosa si è rotto. Il poeta è ancora alla ricerca di segni adatti a manifestargli il senso di un destino, ma sembra essere in grado di fornire soltanto «certi stati momentanei e, per così dire, assoluti anteriori a una specificazione storica o sentimentale». Ha ancora un nome e un cognome, ma più che una persona storica e concreta egli è ridotto a «un certo luogo sensibile, un certo medium, una certa attività capace di testimoniare, di registrare un evento».
L’oscurità del dettato ermetico non dipenderà allora tanto da una volontà di potenza orfica e sacerdotale, o da un arbitrio creativo, quanto da un senso di scacco e di impotenza: il poeta constata «un’assenza di ragioni nell’ordine della razionalità risaputa», del «dominio rassicurante della causalità». Debenedetti ricorre alle predilette categorie psicanalitiche: il poeta è un orfano del padre e della sua capacità ordinatrice e normativa; e il mondo senza ordine e senso è diventato oscuro e minaccioso.
Ecco quindi che la poesia apparentemente più soggettiva e idiosincratica diventa leggibile oggettivamente e storicamente: nel mondo moderno il mistero è nelle cose, non nelle parole. È il destino stesso della poesia ad essere diventato inesorabilmente ermetico:
è come se l’ermetismo, non più inerente alle forme, alle immagini della poesia, fosse passato direttamente alla vita, si fosse trasferito in lei (p. 118).
Ma questa approfondita disamina della poesia ermetica non è conclusiva. Lo scopo di Debenedetti è preparare il terreno alla lettura di poeti di natura opposta, secondo una contrapposizione affine alla distinzione pasoliniana tra «linea novecentista» e «linea antinovecentista». Infatti al «linguaggio a funzionamento “ermetico”» di Montale, Ungaretti, Luzi e del capostipite Mallarmé, Debenedetti contrappone il «linguaggio a funzionamento “relazionale”» di Saba, Penna, Noventa, Sereni (Berardinelli). Anche questi secondi hanno preso atto della propria condizione di orfani, ma l’hanno espressa in forme diverse.
Nella loro poesia il personaggio del poeta non è diventato un medium astratto o un luogo geometrico; è restato un essere in carne e ossa, un «personaggio-uomo». Per suo tramite resta la possibilità di un «confronto diretto sul terreno della vita quotidiana, dei sentimenti accessibili alla nostra esperienza più comune: sentimenti dei quali sappiamo i nomi» (p. 144). Anche Saba, per fare solo un esempio, ritiene il mondo inabitabile, ostile; ma non per ragioni metafisiche, bensì biografiche e psicologiche – la propria nevrosi –, dunque per ciò stesso contingenti e superabili. Per lui, ciò che è caotico e irrazionale è, freudianamente, l’Es: qualcosa di materiale, corporeo, naturale – non una sostanza spirituale o ontologica –, che può essere razionalizzato proprio perché può essere storicamente e narrativamente ridotto a personaggio, che sia il personaggio del poeta, altre figure umane, sentimenti o tendenze intime trasformati in dramatis personae. Saba, Penna, Noventa (di Sereni dirò tra un attimo), sono ancora capaci di «un atto di fede nella piena, vicendevole spiegabilità tra l’io e il mondo».
Perché è un modello didattico di lettura dei testi poetici
Poesia italiana del Novecento, come Il romanzo del Novecento, è condotto sugli appunti preparatori delle lezioni universitarie, in questo caso per l’ultimo ciclo tenuto da Debenedetti nell’anno accademico 1958-’59. La destinazione didattica, come già nelle più celebri lezioni sul romanzo, è visibile nell’esposizione, che è didascalica nel senso pedagogicamente più alto del termine.
a) Comprendere una poesia. Come si comprende una poesia? Come la comprende un nostro studente che si nutre per lo più di narrazioni, non sempre peraltro scritte? Il suggerimento implicito in tutto quello che Debenedetti scrive è chiaro: cercare il personaggio, o, in assenza di questo, il profilo di un destino; non farsi bastare i centri di coerenza astratti, le isotopie linguistiche, i procedimenti formali. La poesia parla di te. E se non parla di te, parla del tuo scacco in quanto te stesso. Al limite estremo, parla della tua assenza. Debenedetti si pone un problema squisitamente didattico, quello della comprensione:
Solo quando un evento, un episodio, uno stato d’animo ci rivelano il loro rapporto, la loro attinenza e dipendenza con una certa piega o curvatura di un destino, noi abbiamo coscienza, noi diciamo di averne capito il senso (p. 61)
La poesia ermetica sabota questa operazione, perché rende difficile o impossibile «cogliere il legame, il rapporto tra il “segno” (cioè quello che percepiamo nell’opera) e la “cosa rappresentata”». Ma solo se si è colto quel legame, «pare che […] l’opera sia davvero letta, si crede di averla capita». Ecco perché di fronte al «vento d’altipiano» di Nell’imminenza dei quarant’anni di Luzi, Debenedetti alza lo sguardo dal testo, dalla sua presunta autosufficienza, e guarda al mondo, all’extratesto: forse noi conosciamo un vento di pianura, che cosa sarà mai un vento “d’altipiano”? Ne abbiamo mai fatto esperienza? Il critico non intende certo ridurre la poesia a descrizione, a referto della realtà, ma sa che al mistero della poesia oscura non arriveremo se non partiamo dal rasoterra, dall’abitudine a considerare il linguaggio una forma di comunicazione e di riferimento alle cose del mondo. In altri termini, Debenedetti invita a leggere la poesia ermetica con criteri opposti a quelli da essa stessa forniti.
b) Narrare la ricerca del senso. Debenedetti narra la ricerca del senso di un testo poetico e mette sotto i nostri occhi il farsi dell’interpretazione: non fornisce i risultati della propria analisi, bensì legge insieme ai suoi studenti, costruendo processualmente l’interpretazione e avanzando ipotesi che perfeziona passo passo. Proprio perché per metà del libro si occupa di poesia programmaticamente oscura e iperallusiva, non ha timore di offrire allo sguardo altrui le proprie ingenuità di lettore e le interpretazioni fallimentari, quelle ingenuità e fallimenti che tanta parte hanno nell’atto di lettura, ma che finiscono sempre inghiottite dall’oblio, una volta che si è stati in grado di mettere sulla pagina, in bella copia e senza vergogne, un’interpretazione plausibile, centrata, giusta.
Ed eccolo così a presentarci le ipotesi fatte e poi scartate nella lettura di Carnevale di Gerti di Montale o raccontarci l’emblematico episodio generatosi dalla lettura di Stazione di Giorgio Vigolo. Di fronte ai versi Chiaror di lampi celebra / sotto l’arco di ferro / il puro altare delle montuose nevi, egli aveva pensato
alla grande tettoia di ferro sotto cui scoccano le scintille dei pantografi delle automotrici, avevo pensato all’energia elettrica che si genera dalle centrali alpine, dove l’acqua delle nevi, del “puro altare delle montuose nevi” viene forzata nelle turbine a generare elettricità.
Poi il poeta stesso l’aveva corretto e gli aveva spiegato che si trattava assai più semplicemente della
vecchia Stazione Termini, coperta da un’immensa tettoia arcuata di vetri e di ferro che, nei giorni sereni dell’inverno, incorniciava con la sagoma del suo orlo la visione dei Monti Albani coperti di neve» (p. 23).
In questo caso Debenedetti non si perita di mostrare l’effetto involontariamente comico prodotto dal sistema di attese del lettore: di fronte a una poesia che esibisce un aspetto di sacrale magniloquenza, ci aspettiamo chissà quali programmatiche allusioni, quando invece… Peraltro questo episodio serve al critico per introdurre un’essenziale distinzione tra «ermetismo» e «paraermetismo»: il testo di Vigolo è paraermetico perché si tratta di un semplice «indovinello», un testo cifrato che ha però una e una sola interpretazione possibile, la quale si dispiegherà interamente davanti ai nostri occhi una volta impossessatici della chiave. L’ermetismo vero e proprio, come si è detto, è invece la ben più seria trascrizione di una condizione esistenziale in sé e per sé oscura e misteriosa, così che l’interpretazione di un testo ermetico non è mai tassativa e non saremo mai in grado di chiarirne fino in fondo il significato.
Debenedetti non narra soltanto il farsi dell’interpretazione di ciascun testo. L’intero svolgimento di Poesia italiana del Novecento è un racconto critico dal rigoroso arco narrativo: l’incipit è la poesia di Mallarmé; le peripezie sono il conflitto tra le schiere di Montale, Ungaretti, Luzi, da un lato, Saba, Penna, Noventa, dall’altro; il lieto fine è nella poesia di Sereni, nella quale le opposte tensioni si risolvono e la «riconoscibilità umana e addirittura cronachistica del protagonista» conserva tuttavia «una traccia di evasività sociale, di assenza» tipiche dell’ermetismo.
Naturalmente l’opposizione di due tendenze poetiche siffatte può sollevare obiezioni: Debenedetti non usa forse in senso troppo ampio l’etichetta di ermetismo? davvero Montale può essere annoverato tra gli ermetici come l’Ungaretti di Sentimento del tempo e Luzi? Come mai, con tutte le raccolte effettivamente ermetiche di Luzi a sua disposizione, Debenedetti sceglie di analizzare una poesia di Onore del vero che – oggi lo sappiamo – segna semmai una prima uscita dall’ermetismo? Sono obiezioni lecite, ma non decisive, per tre ragioni.
Il libro di Debenedetti va storicizzato: a quell’altezza cronologica Lirici nuovi di Anceschi fa ancora canone e la categoria dell’ermetismo è usata in accezione sovrastesa, a indicare tutta la poesia post-simbolista. In secondo luogo, nel corso del suo racconto, Debenedetti è assai sensibile alle sottili differenze tra poeti interni allo stesso campo; inoltre l’assolutezza dell’archetipico Mallarmé funge da pietra di paragone, sulla quale misurare, insieme alle somiglianze, le differenze dei più “esistenziali” Montale Ungaretti Luzi, che sembrano accompagnarci, un passo alla volta, verso un esito molto diverso, se non quasi opposto (si veda quanto Debenedetti scrive sulla qualità dell’opera di Luzi, poesia “senza aggettivi”: dove l’aggettivo rimosso è ovviamente “ermetica”).
c) Ricorrere a categorie forti. Infine, resto convinto della bontà didattica delle categorie forti e delle opposizioni concettuali capaci di produrre apprendimento significativo e non meccanico, anche a costo di correre il rischio di un uso metastorico di tali categorie (Debenedetti stesso rintraccia analogie con l’ermetismo in Petrarca, nei poeti della scuola di Lione, in Góngora, nei metafisici inglesi, …). Naturalmente lo scopo non è giungere a una diagnosi di «ermetismo» o di «poesia relazionale», da appiccicare come formula a qualche poeta o componimento, bensì dotarsi di ipotesi di senso da verificare nell’interpretazione dei testi, meglio se messi a confronto e contrasto, a “narrarne” le affinità e le differenze.
Nel far questo Debenedetti è un modello certo inavvicinabile per chiunque, ma sempre istruttivo. Perché «quando Debenedetti si attacca a un testo – o a un suo frammento significativo – non lo lascia più» (Pasolini).
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