Perché leggere La linea del colore di Igiaba Scego
La linea del colore, edito da Bompiani, della scrittrice somalo-italiana Igiaba Scego ha il merito di costringere il lettore a una riflessione sul razzismo del passato e del presente in Italia. «Mi riempiva di orgoglio e anche di stupore sapere che due donne nere si fossero sentite libere proprio in Italia. Un Paese che oggi invece si è incattivito verso chi considera “altro” e si è lasciato andare a un’infelicità che rende crudeli. Questo clima pesante di razzismi e diffidenze mi ha lentamente portata alla decisione di scrivere un libro su queste due donne, per dare una prospettiva diversa al Paese». E poi: «E quando ho scoperto che nell’Ottocento due donne (nere poi!), l’avevano scelta (l’Italia) come luogo della loro libertà, mi sono venute letteralmente le lacrime agli occhi dalla commozione».
Le due donne di cui parla Igiaba Scego nel Making of alla fine del libro non sono le protagoniste della storia, ma due personaggi realmente esistiti, la scultrice Edmonia Lewis e l’ostetrica Sarah Parker Remond, attivista per i diritti umani e femminista. Ciò che le accomuna è un grande amore per l’Italia e la determinazione a realizzare i loro sogni: entrambe, infatti, riuscendo a superare le barriere del colore della pelle, faranno un viaggio impensabile ai loro tempi, abbandoneranno gli Stati Uniti e giungeranno in Italia dove potranno finalmente sentirsi libere. Con loro siamo nella Roma dell’Ottocento, una città che «sapeva farsi amare, sapeva accogliere, era curiosa», la stessa Roma che accoglie la giovane Lafanu Brown, pittrice afroamericana proveniente dagli Stati Uniti negli anni ’60 dell’Ottocento per conquistare il suo posto nel mondo dell’arte. È lei la protagonista femminile della Linea del colore, personaggio d’invenzione che nasce dal ripensamento e dalla fusione di questi due personaggi storici, appunto Sara Parker ed Edmonia Lewis.
Ma la vicenda, che pure racconta la possibilità per la giovane donna di integrarsi con la popolazione di Roma, si apre con un episodio che ci riporta in questa città nel 1887, all’indomani del massacro di Dògali, dove cinquecento soldati italiani vengono uccisi dalle truppe etiopi che cercano di contrastarne le mire espansionistiche. Quando la notizia giunge a Roma, un’onda di sdegno invade la città e una folla in preda alla rabbia aggredisce Lafanu, semplicemente per il suo colore della pelle, e le urla «Perché ci hai uccisi, negra?». In suo soccorso giunge però un giovane sconosciuto che grida «Ma non capite, che i veri patrioti sono gli abissini?». In realtà si tratta di una frase pronunciata realmente dall’anarchico Ulisse Barbieri, che Scego decide di riproporre come personaggio della sua storia con lo stesso nome. Ed è proprio a questo uomo, al suo salvatore, che Lafanu decide di aprirsi, parlando della sua nascita in una tribù indiana Chippewa, del padre haitiano che l’ha abbandonata prima che nascesse, della sua ricca benefattrice bianca, Betsebea McKenzie, interprete di una carità ipocrita e rappresentante di un mondo che sotto l’apparente sostegno alla causa dei neri nasconde solo un desiderio personale di affermazione, fino all’incontro con Lizzie Manson, l’istitutrice che le fornirà la possibilità di diventare una pittrice e di salire su una nave diretta verso l’Europa.
Se la realizzazione del sogno di Lafanu ci offre un’immagine dell’Italia ottocentesca capace di offrire libertà alle donne, l’intera vicenda ci dimostra in realtà che il nostro è un paese complesso che porta con sé grandi contraddizioni. Un paese capace di accogliere e di concedere un futuro, ma allo stesso tempo di perseguitare e marginalizzare. Questo libro ci consente di guardare più da vicino il passato, facendo riemergere un’Italia coloniale che ha forgiato, ben prima del fascismo, una mentalità razziale: «quando si parla di colonialismo pensiamo solo a Mussolini e al fascismo. Certo, il colonialismo fascista è stato feroce, ma quello ottocentesco è stato altrettanto delirante».
Igiaba Scego sembra voler rintracciare proprio in questa ottica coloniale le origini dell’Italia di oggi, di un paese che sembra privo di il futuro, dove gli stranieri sono perseguitati e i giovani costretti a emigrare. È la vicenda di Leila, la protagonista “contemporanea” del libro, che consente di esprimere uno dei messaggi attuali che più sta a cuore all’autrice: quello dei migranti e dei loro diritti.
Accanto alla storia di Lafanu, raccontata in terza persona, si dipanano, infatti, narrate in prima persona, le vicende di Leila, figlia di immigrati somali e curatrice d’arte che, per caso, parlando con un’amica, viene a conoscenza di Lafanu Brown, studia le sue opere e decide di dedicarle una mostra d’arte per far conoscere la figura della pittrice afroamericana a un vasto pubblico. Ma la storia di Leila riconduce all’attualità anche attraverso la vicenda di sua cugina Binti, che sceglie di abbandonare la Somalia per raggiungere l’Europa. Vittima di uno stupro durante il viaggio, la ragazza deve tuttavia tornare a casa, dove viene emarginata perché considerata disonorata. Solo l’aiuto a distanza di Leila e di una psichiatra riusciranno a ridarle la vita.
È anche pensando «a ciò che stava succedendo nel Mediterraneo della contemporaneità, tra Europa e Africa» che nasce il bisogno di scrivere questo libro. Pensando, cioè, alle tante «persone che morivano sui barconi o nei lager libici, persone a cui era negato un visto, a cui veniva negato un viaggio legale con un passaporto e una valigia». Se nel 1860 a Lafanu era stato concesso di prendere un piroscafo e raggiungere l’Europa e l’Italia per inseguire i suoi sogni e trovare la libertà, per Binti non sarà possibile, perché a lei, nel mondo contemporaneo, è negata la libertà di circolazione. Del resto Scego chiude la parte dedicata alla contemporaneità proprio con le parole di Binti: «Perché ci vogliono togliere quello che loro – i bianchi, gli occidentali, quelli con il passaporto forte – hanno? […] Non mi sembra una buona idea dire a un ragazzo: “Ehi, sei africano, sei sfigato, quindi stattene a casa tua, che il mondo non ti vuole” […] Ecco io vorrei un mondo dove noi africani avessimo la possibilità di spostarci. C’è chi vuole studiare, vedere il mondo, cambiare vita». Il tema dei migranti, caro alla scrittrice, fa dunque luce sulla disuguaglianza legata alla possibilità di spostamento e porta in primo piano, oggi più che mai, la necessità che tutti possano avere il diritto di viaggiare e di possedere un passaporto forte che consenta di girare il mondo. Infatti solo quelli col passaporto forte possono andare ovunque, possono decidere di condurre le proprie vite ovunque e tentare di andare ad abitare in un posto diverso da quello d’origine. Quelli col passaporto debole rimangono invece incatenati al luogo in cui sono nati e non possono andarsene anche se quel posto non può renderli felici. Loro non hanno accesso al benessere e alla felicità, benché quel benessere sia stato costruito anche sulla loro pelle.
Il viaggio, tema centrale del libro, non riguarda, pertanto, soltanto un modo per sfuggire a un destino di sofferenza, ma anche la possibilità di rincorrere un desiderio di libertà come donna e come artista, di trovare il piacere della vita, come sceglie di fare Lafanu, e come, duecento anni dopo, è negato a Binti.
L’originalità di questo lavoro è proprio nella scelta di parlare di migrazioni legate al bisogno di libertà e al desiderio di viaggiare e non soltanto alla necessità economica. Il sottotitolo del libro è infatti Il Grand Tour di Lafanu Brown, perché la trama della narrazione è interamente dedicata agli spostamenti della protagonista in Europa, e le immagini e le situazioni ricordano quelle di molti artisti ed intellettuali europei tra Settecento e Ottocento. Leggendo il libro, e ripensando alle parole di Binti, non possiamo fare a meno di chiederci perché oggi questa possibilità non sia concessa ai giovani africani. La risposta di Scego è chiara: in Italia il clima sempre più pesante di disuguaglianze precede il fascismo e ha origini nel tentativo del nostro paese di inseguire il sogno dell’imperialismo coloniale. E la frase di Barbieri che chiude il prologo non può che esserne la conferma: i veri patrioti non sono gli italiani invasori, ma gli abissini.
Proprio la critica al colonialismo è del resto il filo che lega La linea diel colore ad altri due libri dell’autrice, Oltre Babilonia e Adua, di cui quest’opera è appunto il capitolo conclusivo. E non è un caso che La linea del colore inizi proprio a Piazza dei Cinquecento, dove termina il romanzo precedente. L’intera trilogia vuole infatti porsi come tentativo di questa intellettuale somala divenuta italiana di ragionare sulla propria identità, e su come sia difficile guardare con occhi onesti a ciò che consideriamo “altro”. La linea del colore chiede di essere letto in questa prospettiva tutta politica, a cui viene subordinata la stessa resa artistica, che talora risulta anche troppo insistita e persino gridata.
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