Il latino alle crociate
Renitenti al latino
Eccoli qui. Ventotto tra allieve e allievi di prima liceo scientifico. Ho appena congedato una quinta classe e inizia con loro un altro ciclo; a volte una storia d’amore. Il problema sarà farli innamorare di quello che insegno: perché io insegno (anche) latino. Impopolare quasi quanto il confratello greco (lo sanno bene i colleghi dei licei classici, uniti in rete come da nuovissimo epos); inutile quanto e più della già inutilissima letteratura di qualsiasi epoca e nazionalità.
«Prof, ma se io lo sapevo che alle scienze applicate non c’era latino, non ci venivo al tradizionale…» – mi dice Riccardo dal secondo banco.
«Se tu lo avessi saputo, non ci saresti venuto» – trovo appena la pedante prontezza di mormorare a fior di labbra al secondo giorno di scuola.
E nel frattempo penso «ci risiamo». Vaglielo a spiegare che gli servirà. Vaglielo a spiegare che gli servirà da subito, e non che – come più nobile dolore – un giorno ti sarà utile. Troppi avversari per difendere le posizioni di una utilità spendibile in niente che si possa vedere e toccare, misurare, calcolare, investire con profitto di denaro. Qualsiasi appassionata e perfino appassionante apologia s’infrangerà comunque in ultimo contro lo studio faticoso di declinazioni, coniugazioni, lemmi che sono falsi amici, elucubrazioni di gente vissuta secoli fa, in un mondo che non esiste
più. E forse a qualcuno di loro i nonni avranno raccontato di quando erano ancora bambini (mia madre l’ha fatto con me, con i miei figli), di quella vecchietta che in chiesa snocciolava l’invocazione alla Madonna e s’aggiustava il latino a modo suo, Regina sine labe originario concepta diventava Regina senza lampada… E s’aggiunge la beffa.
«Vediamo, ci sarà qualche buon motivo per cui il legislatore mantiene queste tre ore settimanali di latino (quattro, prima della cosiddetta riforma-Gelmini, ndL) all’interno dell’orario curricolare del liceo scientifico… Ve lo sarete chiesto, prima di iscrivervi…»
Alzano la mano per prime le ragazze, che sembrano Hermione Granger nella classe esordiente di Grifondoro.
«Perché il latino è la base dell’italiano». (Sì; anche, a volte; altre no…; ma comunque si può studiare l’italiano senza conoscere il latino…).
«Perché la nostra società ha ereditato molte cose dai romani». (Sì, mi dici quali? Il Colosseo?? Beh, quello è un monumento importante, certo, ma pensavo ti riferissi a qualcos’altro…).
«Perché allena la logica, che in un liceo scientifico è importante». (Beh, ogni disciplina allena la logica e la logica è importante in ogni indirizzo di studi…).
«Perché se voglio studiare medicina, mi serve a capire da dove derivano le parole» (Certo, sì, ma allora ti servirebbe anche il greco, e poi non credo che qui in mezzo tutti vogliano studiare medicina… No, tranquilla, io non insegno ANCHE greco, pure se ho frequentato un liceo classico…).
Alza la mano anche Riccardo:
«A me mi ha iscritto mio papà, che ha fatto lo scientifico e dice che è meglio…».
Insomma, «ci risiamo». Gli dico che mi fa piacere che siano animati da tanta retrospettiva curiosità verso le origini (grammatica storica, etimologia, reperti archeologici…); ma che forse – visto che dovranno studiare latino per cinque anni – sarà il caso di ragionare un poco su qualche altra motivazione, appena più profonda; di quelle che i docenti chiamano fondamenti epistemologici disciplinari (ma a loro non lo dico, che i docenti le chiamano così). Ovviamente, nell’intento di far ragionare loro, me la ragiono un poco meglio pure io. Sono debuttanti: qualcuno c’è – tuttavia – che, alla scuola media, del latino ha fatto conoscenza, e non pare portare i segni di un trauma irreversibile, anzi; ma nessuno chiaramente l’ha studiato in modo sistematico e a tutti sfugge la sua dimensione di sistema. E’ questa dimensione che scelgo di tracciare per prima. Il resto (inclusi impieghi a medio e lungo termine e suggestioni letterarie) mi auguro che verrà naturalmente, quando del sistema avranno compreso non solo i meccanismi di funzionamento (che si imparano presto, se si vuole), ma lo straordinario potenziale di indagine e rappresentazione delle cose della vita; tutte. E, dovendo tracciarne il profilo, mi do alcune coordinate irrinunciabili, sforzandomi di contenere slanci sentimentali e rimpianti da classicista mancata.
Il latino sulla carta
Per prima cosa, mostro agli allievi una carta geografica sulla LIM: raffigura l’impero romano nel momento della sua massima espansione; colori diversi dovrebbero agevolarli nel riconoscimento non solo dei confini con il mondo dei barbari, ma della progressiva acquisizione dei territori. Si stupiscono dell’estensione: sì, sapevano che fosse grande, ma non avevano mai realizzato quanto grande. La carta porta i nomi romani delle province come delle aree esterne all’impero (Aegyptus, Pontus, Dacia, Gallia, a sua volta suddivisa in Narbonensis, Aquitania…, etc.). Gli chiedo di individuare le zone in cui – a loro avviso – si parlasse latino. Mi dicono immediatamente «In Italia». «E basta?» – dico io. Qualcuno che alla media ha studiato spagnolo o francese osa: «Anche in… Hispania? Anche in… Gallia?». Sì, certo; ma anche in tutto il resto del territorio. Questa non se l’aspettavano. E ancora meno s’aspettavano che quella penisola che porta il nome di Italia non fosse percepita dai Romani come un corpo a sé stante e primigenio nel variegato mosaico. Gli dico di pensare «in orizzontale», quando pensano all’espansione di Roma, e non «in verticale»: non subito, quanto meno. Gli dico di guardare a est, se vogliono comprendere, come si fa col Risiko, gli obiettivi strategici dei romani; e i malcelati e inestinguibili debiti nei confronti dei greci, e le inimicizie coi fenici riciclati a Cartagine… Facciamo, senza parere, geostoria della lingua. Funziona. La mappa dapprima sembra loro teatro con quinte di carta al posto dei confini; ma poi – quasi impercettibilmente – inizia ad assumere spessore e profondità e il latino l’attraversa come flessibile fil rouge.
Il latino flessibile
Su un territorio così esteso, attraversato dalle foreste come dai deserti, alcune volte abbandonato, altre abbacinato dal sole, abitato da popolazioni profondamente diverse per usi e costumi (rapporto col paesaggio, relazioni sociali, religione, edifici, economia, aspettative…), uno stesso oggetto (cosa, persona, situazione) era facile, per non dire naturale e ovvio, che apparisse sotto una luce molto diversa da nord a sud, da est a ovest. Una lingua che pretendesse di essere unica su tutto il territorio non poteva che essere flessibile, adattabile, capace di mostrare contemporaneamente il nucleo permanente e universalmente riconoscibile di ogni oggetto (cosa, persona, situazione) e le sue possibili variazioni in relazione ai contesti. E’ così che entriamo piano piano nel gioco combinatorio della declinazione, lentamente ridisegnando le etichette mutuate dallo studio della grammatica italiana, in nome di una più profonda comprensione dei meccanismi linguistici, delle istanze profonde di una lingua, che sono quelle di formalizzazione, certo, ma anche di indagine dell’esperienza umana. Per questa strada, anche la coniugazione dei verbi – in latino così apparentemente maniacale, ma soprattutto così ostica da mandare giù a memoria – si mostra presto, se non gradita, necessaria quasi a garantire all’azione umana riconoscibilità e dignità nella sua interezza: persona, modo, tempo, diatesi. Per questa strada il sistema della subordinazione cessa di essere classificazione rigida di proposizioni per diventare strumento di riflessione sulla qualità delle azioni: non sarà più necessario (forse) dire ai nostri studenti (per esempio) che in latino esistono diversi modi di esprimere la proposizione finale, quando verosimilmente il parlante latino non si poneva proprio il problema di un’unica proposizione denominata finale, quanto piuttosto quello di modalità di finalizzazione dell’azione talmente diverse tra di loro da non generare nemmeno l’ipotesi che potessero ricondursi tutte sotto la stessa egida.
Si disegna così a poco a poco il tracciato nitidissimo e stringente della sintassi latina, rappresentazione vigorosa di un modo di intendere e pensare l’esistenza entro spazi fisici e mentali veramente dotati di un’ampiezza senza precedenti e forse – per certi aspetti – mai ripetuti né battuti, se all’ampiezza vogliamo dare un’accezione non unicamente traducibile in una quantità. Penso (ma non è che un esempio) ai periodi di Cicerone, attenti a intercettare e registrare qualsiasi situazione tangente o determinante l’azione principale, strumento di controllo potentissimo di ogni variazione (temporale, causale, finale…) e corrispettivo sintattico di un’ambiziosa volontà di controllo politico, e sete di potere; ma penso anche ad alcune folgoranti spregiudicatezze linguistiche di Catullo, al verbo dormire che si fa transitivo per rappresentare la notte senza scampo dell’esistenza di ognuno (nox est perpetua una dormienda), contraltare doloroso alla superba sicurezza dell’oratore. E penso ancora alla sintassi non oscura, ma essenziale, necessaria, grave di Tacito, come inevitabile e necessario è il principato, delle cui vicende il senatore si fa disincantato narratore; e gli esempi potrebbero, devono continuare: la sintassi latina si rivela espressione altissima dell’ordine del mondo che rappresenta, con i suoi impliciti e i suoi espliciti, con le sue istanze e i suoi limiti; la sintassi di ognuno di noi dovrebbe puntare ad essere questo, se non così.
Così ancora una volta mi dico che è valsa la pena di chiedere al mio dirigente scolastico – perché proprio lo chiedo – di avere una prima classe alla quale insegnare latino, nella quale ancora una volta tentare una crociata non in difesa o a tutela del latino, ma una crociata di liberazione dal latinorum. Il latino non come strumento di oppressione, ma come strumento di liberazione.
Il latino di una prof.
Scriveva Cesare Segre:
Per quanto riguarda in particolare le lingue, i fautori della globalizzazione pensano che l’obiettivo da raggiungere sia la conoscenza pratica, quella che può avere un buon portiere d’albergo o un impiegato di un aeroporto. Non pensano che la vera conoscenza di una lingua è anche conoscenza della storia e della cultura del paese in cui quella lingua si parla. E non pensano nemmeno che la conoscenza pratica auspicata è tutta di carattere mnemonico; mentre per entrare davvero nel funzionamento della lingua è molto più costruttivo conoscere le connessioni interne, di carattere funzionale, in cui, per fare un esempio, i verbi irregolari non costituiscono un insensato elenco di eccezioni, ma sono invece il risultato di particolari svolgimenti storici. Inutile dire che se poi si domina anche il latino, ogni pezzo di grammatica, ogni elemento di etimologia acquista una brillantezza particolare, e trova una chiara spiegazione[1].
Questa riflessione contiene non poche importanti indicazioni per l’insegnante: non si tratta di coltivare fiori nel cimitero delle cosiddette lingue morte, piuttosto di usare quelle lingue come concime per lo studio delle cosiddette lingue vive. Proverò a spiegarmi meglio.
Svolgere l’esercizio di grammatica (di qualsiasi grammatica) si configura come possesso di un’abilità e non di una competenza; è un saper fare che molto spesso viene percepito come del tutto svincolato da quei contesti di realtà all’interno dei quali la competenza deve necessariamente situarsi. Se le prove INVALSI, volte all’accertamento della padronanza linguistica, destinano alla grammatica un momento di riflessione autonomo, questo ha ovviamente la sua ragion d’essere sino al primo biennio della secondaria di secondo grado. Successivamente assumerà maggior rilievo una prova (in qualche modo già presente come primo momento della prova INVALSI di italiano) che accerti la riqualificazione dell’elemento grammaticale, che accerti cioè che l’elemento grammaticale (morfosintattico, ma anche lessicale), riconosciuto e descritto, venga individuato come elemento capace di contribuire a determinare la tipologia del testo e la costruzione dei suoi significati in relazione al contesto (e non solo a districarsi nelle difficoltà del portiere d’albergo di Segre). Allora, tanto per fare qualche esempio, dopo aver insegnato agli studenti a distinguere etimologia e semantica nello studio del lessico, bisognerà impegnarli tanto nel riconoscimento quanto nell’indagine delle aree semantiche, nella individuazione di quei tracciati che conducono ai significati sostanziali dei testi (letterari e non). O ancora, dopo aver insegnato loro a distinguere paratassi e ipotassi, bisognerà non solo che ne individuino le modalità (connettivi, tipologie, livelli di coordinazione o subordinazione etc.), ma – vorrei dire – le movenze e il potenziale rappresentativo, cogliendo le differenze di significato veicolate da una costruzione aperta e in qualche modo illimitata e da un’altra fortemente gerarchizzata.
Ora, lo studio del latino (e immagino anche del greco, benché i miei studi in questo ambito si siano arrestati al liceo) offre davvero un’occasione non comune di riflessione sui sistemi linguistici in generale, oltre che su quel sistema linguistico in particolare. Sistema concluso, ampiamente documentato nella sua storia, nelle sue trasformazioni, nelle sue destinazioni, veicolo (su un territorio per l’epoca davvero universale) di ogni atteggiamento del pensare e dell’agire umano (legge, scienza, storia, politica, letteratura, amore, odio, medicina, cucina…), il latino, una volta dismesso, si è per questo sottratto alle trasformazioni del tempo, pur restando testimone eccellente delle trasformazioni avvenute nel suo tempo e alle quali ha dovuto dare i nomi. Può essere pertanto smontato e indagato in ogni suo ingranaggio e quindi rimontato senza che se ne alteri il funzionamento. E’ un congegno linguistico in qualche modo (latinamente) perfetto. Può fungere da paradigma di ogni sistema linguistico, anche di quelli che ad esso non afferiscono; i suoi modelli di flessione, del nome come del verbo (declinazioni e coniugazioni), inducono lo studente a ragionare non solo sul valore della parola in sé, nella sua dimensione morfologica, ma anche sul valore della parola in relazione al contesto: paradigma e sintagma. Lo studio del latino si rivela quindi strumento prezioso nell’operazione di riqualificazione degli elementi morfosintattici e linguistici, alleato affidabile nel conseguimento della competenza; della competenza di lettura, nella misura in cui diviene strumento di padronanza della lingua madre, ma anche della competenza letteraria, per quanto attiene alla costruzione dei significati del testo da parte del lettore.
Cum grano salis.
***
[1] C. Segre, Il contatto con il passato in Critica e critici, Einaudi, Torino 2012, p.167.
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