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Contro l’identità italiana: sull’ultimo libro di Christian Raimo

 In un suo saggio recente Christian Raimo offre una panoramica del rafforzamento dell’identità nazionale, che ha portato a una deriva neonazionalista più sentita con il governo precedente, ma che persiste tutt’oggi. Si tratta di Contro l’identità italiana (Einaudi 2019), in cui l’autore individua i momenti salienti del discorso sovranista negli interventi pubblici e nella produzione giornalistica e letteraria italiana, attraversando gli anni a cavallo dei due secoli ed evidenziando avvenimenti di cronaca e politica che indicano il movimento del Paese verso una chiusura identitaria. Ricorda, inoltre, passaggi importanti della storia culturale italiana di questo secolo, discutendo i fondamenti del discorso pubblico che hanno trascinato larga parte della rappresentanza politica a porre l’enfasi sul tema della nazione.

Si tratta di un’opera dall’impostazione discorsiva, lontana dal quasi omonimo Contro l’identità di Francesco Remotti, che uscì per Laterza nel 1996. Non discute di come si costruisca l’identità in generale, ma di quanto la specifica identità italiana sia stata fabbricata attraverso operazioni culturali, per quanto l’assunto di Remotti sia implicito nel tema trattato da Raimo: l’identità, come sostiene l’antropologo, si trova a suo agio laddove si assimila e si separa, e in effetti nel libro di Raimo si parla proprio di un processo di differenziazione. Per dar luogo a costruzioni di identità, si strappano legami e si interrompono connessioni ma al contempo ci si salva dal mutamento inesorabile. Il saggio di Raimo, tuttavia, non intravede nulla di salvifico nella recente deriva della retorica sull’identità italiana; al contrario, esprime preoccupazione per le conseguenze concrete di una chiusura all’esterno.

Il libro contiene una sezione dedicata all’uso che della figura di Dante Alighieri fanno i nazionalisti, un uso mirato a rafforzare l’identità culturale. Nel capitolo intitolato Il virilismo dell’identità italiana, Raimo scrive:

A scavare nel canone letterario, l’impressione è che l’elaborazione della retorica dell’identità nazionale si sia fondata su un’altra invenzione retorica, quella di una letteratura capace, in nome di un idealismo quasi assoluto, di costruire comunità culturali; e la storia della letteratura italiana si sia finita per conformare a questo tropo del riscatto, della vittimizzazione e dell’orgoglio (Raimo, p. 80).

L’idea che la letteratura italiana sia stata capace nei secoli di fondare una comunità culturale, secondo Raimo, è basata su una elaborazione che nel tempo ha selezionato (separato, direbbe Remotti) ciò che si riteneva adatto a tenere in piedi questo edificio da ciò che mettendone in dubbio le fondamenta venne nel tempo scartato o ritenuto minore o inferiore in base a un giudizio insindacabile. Nessun esempio è più calzante dell’utilizzo che è stato fatto dalla storia e critica della letteratura attraverso i secoli dell’opera e del pensiero di Dante Alighieri. Come sottolinea Raimo, Dante è molto amato dai neonazionalisti, e porta ad esempio l’ultimo libro di Adriano Scianca dal titolo piuttosto inquietante di La nazione fatidica. Elogio politico e metafisico dell’Italia, che contiene una lunga digressione sul poeta, rappresentativa di come le destre si approprino di questa figura letteraria trasformandola in “una specie di archetipo spirituale: «più profeta che scrittore»” (Raimo, p. 81). Il libro di Scianca è pubblicato da Altaforte, editore assurto agli onori della cronaca per il clamore suscitato dalla sua partecipazione al Salone del libro di quest’anno, e la reazione di alcuni intellettuali militanti, che grazie a una protesta compatta ne hanno ottenuto l’esclusione. La vicenda, per chi volesse riviverla o approfondirla, è stata sintetizzata da Matteo Pascoletti su Valigia blu. Scianca ripete lo stanco topos di Dante padre spirituale della patria, peraltro già ampiamente smentito dalla critica dantesca più recente. Il sottotitolo dell’opera di Scianca è ancora più grottesco se pensiamo che proprio Dante costruisce la propria teoria politica attraverso un’analisi razionale secondo i metodi argomentativi della filosofia scolastica. Dante si poneva in continuo dialogo con la comunità filosofica che potremmo chiamare internazionale, utilizzando un termine da intendere in senso lato. Per quanto riguarda la riflessione politica, il suo interlocutore prediletto era Averroè, berbero musulmano e massimo interprete di Aristotele. Come sottolinea Gianluca Briguglia in Il pensiero politico medievale (Einaudi 2018), il grandioso progetto politico dantesco ruota attorno a una precondizione politica, cioè la pace universale, e non quella di una comunità o di un singolo regno, una pace generale da realizzare attraverso una monarchia universale. L’idea originale di Dante è che possa esistere un’entità politica che garantisca un giudizio generale nelle controversie e una difesa dalle tirannie locali e dai cattivi governi. Questa idea è in contrasto con il pensiero oggi denominato sovranista, ma che un tempo si diceva nazionalista. Eppure, il fatto che Dante concepisse un’idea di garante “sovranazionale” (termine da prendere con cautela, visto che l’idea di nazione all’epoca di Dante stava solo nascendo) non impedisce che oggi la figura del poeta venga utilizzata come simbolo di un’identità costruita solo in epoca posteriore al poeta, e che non rintracciamo in alcuna parte della sua opera. Nella citatissima terzina dal sesto canto del Purgatorio, in cui compare la parola Italia, interpretata sempre alla luce della genesi del sentimento nazionale da Petrarca a Leopardi, altro non si trova se non un’indicazione geografica che sostiene poeticamente l’idea della necessità di un’entità politica garante sovranazionale, idea cardine del pensiero politico dantesco. La lettura del saggio di Briguglia chiarisce indirettamente il motivo per cui l’insistenza su Dante padre spirituale della patria risulta straniante: la Monarchia è stata scritta in occasione della discesa di Enrico VII, e in quest’opera Dante offre una visione del potere imperiale come istituzione capace di garantire una pace generale, a patto che tutti i poteri locali la riconoscano come tale. Dante di fatto costruisce una ideologia che mette al centro l’impero e non affronta il nodo dei poteri locali, di cui pare completamente disinteressarsi, mentre si preoccupa di mostrare le fallacie della trattatistica filopapale. Si vede perciò che qualsiasi appropriazione dell’opera di Dante in chiave nazionalistica, localistica, identitaria, tradisce una sostanziale ignoranza del suo pensiero politico.

Ritornando alla terzina del sesto canto del Purgatorio, nel suo Una nazione di carta (Carocci, 2013) Matteo Di Gesù, citato da Raimo, sostiene che a tramandare il topos dell’Italia sottomessa e compianta sarà Francesco Petrarca, nelle due canzoni Spirto gentil, che quelle membra reggi e Italia mia benché ‘l parlar sia indarno. La prima in particolare diventerà un modello retorico dell’Italia dormiente e incurante della gloria passata di Roma. I “tópoi del compianto”, come li chiama Di Gesù, appartengono a Petrarca e non a Dante, la cui unica colpa consiste nell’avere inserito un’invettiva nel contesto del dialogo con Sordello, che per il poeta diviene un simbolo delle lotte fratricide. L’incontro con il trovatore mantovano rappresenta quindi l’occasione per esplicitare la sua ferma condanna contro la violenza delle lotte fra fazioni, una digressione politica che si conclude con l’arcinota domanda: “Che val perché ti racconciasse il freno | Iustinïano, se la sella è vota?” È chiaro che la polemica di Dante riprende e rafforza la sua stessa riflessione politica sulla necessità di un garante esterno che ponga fine al massacro fra fazioni. C’è un passaggio importante, però, che avviene per tramite della lettura boccacciana di quella terzina dantesca. Si trova nel sonetto civile Fuggit’è ogni virtù, spent’è il valore, databile al 1375, in cui Boccaccio utilizza il motivo della “donna di province” trasformandolo in “donna del mondo”, lamentandosi della decadenza della letteratura volgare. Per quanto quindi si attribuisca a Dante l’origine dell’idea di un’Italia vessata, occupata dallo straniero, e tutti i malanni che le si riconoscono nel corso dei secoli, cioè quei topoi del compianto di cui parla Di Gesù, e quindi a Dante si faccia risalire il concetto della povera patria ripresa persino in una notissima canzone di Battiato, sarebbe utile sottolineare che questa idea va attribuita a una citazione di Boccaccio che snatura la terzina dantesca, fino ad arrivare all’interpretazione petrarchesca di Italia mia. Visto che questo Paese sente la necessità di un padre spirituale, di un profeta, di un archetipo o di un padre fondatore, sarebbe più opportuno che lo cercasse quindi in Petrarca.

Il merito del saggio di Christian Raimo consiste nel gettare luce su vari aspetti del percorso identitario nazionale in tempi più recenti, includendo nel suo discorso anche una digressione sulla rimozione della produzione letteraria femminile dal canone italiano, modellato intorno al romanzo desanctisiano. Corredato da una selezione ampia e varia di fonti, il saggio permette al lettore di farsi un’idea e di poterla completare in un secondo momento grazie agli studi citati. I più esperti possono cogliere l’occasione per ritornare su letture importanti e trovarle inserite all’interno di un quadro organico. Il saggio si conclude con il condivisibile auspicio che si riesca ad allargare gli orizzonti culturali e a spostare lo sguardo verso una visione più ampia dello statuto dell’umano oggi:

Siamo abituati a pensare all’identità come il filo rosso di una tradizione metafisica che comincia con Aristotele passando per Cartesio per arrivare anche a Hume e anche ai maestri del sospetto novecenteschi, che mettono in discussione la natura dell’identità ma non la sua centralità. Ma è possibile volgerci anche ad altre ontologie. […] sarebbe il caso di fare un salto coraggioso, e immaginare una ontologia che si strutturi intorno a concetti differenti da quello d’identità, come quello di analogia. E non occorre nemmeno cercare in altre tradizioni filosofiche meno familiari, cinesi, arabe, indiane, che ci mostrino come si siano sviluppate nel corso dei millenni ontologie alternative a quella di Aristotele incentrata sull’identità; ma basterebbe valorizzare i molti contributi della recente antropologia alla filosofia. […] O ancora si potrebbe immaginare che la riflessione sull’essenza, l’ontologia stessa, non sia il questionamento fondamentale per indagare sul nostro essere, ma che venga — come dire — sempre preceduta dall’etica. (Raimo, 130-31)

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