Inchiesta sulla letteratura Working class /4 – Fabio Franzin
Continuiamo l’inchiesta sulla letteratura working class, avviata qualche settimana fa, dando voce a un altro poeta. Si ricorda che la pubblicazione dell’inchiesta ha cadenza quindicinale.
Da qualche anno si è affermata anche in Italia l’espressione letteratura working class per designare i testi che mettono al centro l’autorappresentazione di lavoratori a basso reddito, di figli di operai nonché di esponenti della classe lavoratrice precaria dei servizi, delle pulizie, della ristorazione, della logistica, della cura alle persone anziane. Non è un pranzo di gala (2022) di Alberto Prunetti, curatore tra l’altro della collana “Working Class” per Alegre, è il saggio che ha contribuito in modo decisivo ad aprire un dibattito in questo senso.
La categoria in questione riabilita le nozioni di classe e di conflitto, da lungo tempo rimosse, e si distingue dal generalizzato interesse che l’editoria e l’accademia hanno rivolto alle tematiche del lavoro. Con questa inchiesta vogliamo dunque aprire uno spazio di riflessione dedicato a coloro che, a vario titolo, potrebbero rientrare nei campi di scrittore/scrittrice “di classe operaia“ o di letteratura working class.
D. Come ti rapporti alle categorie in questione? Ritieni che la tua scrittura possa rientrarvi?r
R. Avendo passato 43 anni della mia vita come operaio dentro una fabbrica, mi sono sempre interessato del “racconto working class”, essendo anche poeta. Da quando uscì il mio “Fabrica” Atelier 2009, ho scritto tre raccolte di poesia incentrate sul tema della condizione operaia, oltre al succitato. “Co’e man monche / Con le mani mozzate”, le voci della luna 2011, e “’A fabrica ribandonàdha / La fabbrica abbandonata”, Arcipelago Itaca 2021, oltre a molte altre poesie inserite in altre raccolte. Tutto ciò che ho scritto su tale tema, edito e inedito, uscirà a gennaio 2026 in “Opera operaia”, per Marcos y Marcos. Chiudo dicendo che molto spesso vengo definito il “poeta-operaio”, etichetta che se da una parte la ritengo una medaglia, per quell’operaio dopo il poeta, che sa anche un po’ di partigiano, dall’altra la ritengo quasi un’offesa, come per Biagio Marin quella di “poeta dialettale”, perché credo di essere un poeta che per vivere ha dovuto fare l’operaio, o un operaio che, per sopravvivere, ha cercato conforto nella poesia. Io poi, oltre che un poeta operaio sono anche un poeta dialettale, e così le cose si complicano ancora di più.
D. Come scrittore svolgi due lavori: uno è il tuo lavoro “salariato/dipendente”, quello che ti dà da vivere; l’altro è invece quello della scrittura. Come vivi questa duplice identità e come riesci a conciliare i due mestieri?
R. Ora sono in pensione da tre anni. Ma tutta la mia vita si è divisa fra il lavoro in fabbrica come operaio alle presse o come imballatore, e la vocazione alla lettura e alla scrittura. Scrivere e leggere mi hanno affrancato da una condizione di sudditanza in una realtà concentrazionaria (non a caso ho inserito come esergo a “Fabrica” un breve passo di Primo Levi da “I sommersi e i salvati”), mi hanno permesso di evadere dall’abbrutimento di tante ore passate a ripetere gli stessi gesti, in un ambiente umano fra i più degradati, e spogliato via via di diritti e dignità. Avendo sempre lavorato ben più delle 8 ore giornaliere canoniche, che nel nord est italico dagli anni ’80 ai 2000 si dilatavano a 10, più buona parte del sabato, solo la mia grande passione ha permesso di conciliare il mio tempo con la lettura e la scrittura. Rubandolo al sonno, ad ogni altro passatempo.
D. Con quali scelte formali metti a tema il lavoro e una condizione di classe? Più in particolare quali generi, strumenti espressivi e forme (memoria, autobiografia, romanzo, personal essay, poesia, graphic novel) ritieni più appropriati per rappresentare questa condizione?
R. Nel mio caso specifico credo nella poesia, nella capacità che ha di “aprire e chiudere un mondo in 30 versi”, come ha detto il compianto amico poeta Pierluigi Cappello. Penso anche a “Macello” di Ivano Ferrari, un libro di una potenza rara nel parlare di lavoro e di morte. Ma in ogni caso dipende proprio dalla potenza di un testo, di un autore. Faccio due esempi: il diario di fabbrica di Simone Weil, “La condizione operaia”: successivamente sono usciti molti altri memoriali sul tema, ma il testo della Weil, a novantanni dalla sua stesura, resta imprescindibile per comprendere a fondo cosa può provare un operaio chiuso quotidianamente dentro una fabbrica. Altro testo potente, a parer mio, è “Memoriale” di Paolo Volponi. Qui è un’opera narrativa, di fiction come diremo ora; ma la figura di Albino Saluggia continua ancora, come se fosse un nostro compagno di lavoro o di osteria, a interrogarci dopo oltre sessanta anni.
D. Quali letture hanno avuto maggiore importanza per la tua formazione e qual è il tuo rapporto con la tradizione letteraria? Ci sono autori e autrici che sono diventati per te dei punti di riferimento? Hanno contato o contano di più autori italiani o stranieri?
R. Oltre a Simone Weil che ho succitato, che per me resta uno dei più lucidi pensatori del ‘900, sono stati soprattutto i poeti le figure con cui ho intessuto un rapporto profondo. Provo a stilarne un “catalogo” purtroppo parziale: Leopardi, per il suo sguardo interiore e allo stesso tempo incarnato sulla società e sul paesaggio; Caproni per la cantabilità sommessa e allo stesso tempo profonda come una sonda; Zanzotto per le stesse ragioni di Leopardi e Caproni, anche se il suo dire è più oscuro, e in più per il dialetto; Pavese per la memoria mitica dei luoghi e dei personaggi; Heaney e Walcott per aver creato un epos potente con una lingua precisa e umana; Primo Levi, e non solo per le sue opere sui lager; Pasolini, e non solo per le sue opere letterarie; Bauman e Augé per aver descritto, profeticamente, la società e i “non luoghi” in cui stiamo sempre più stretti e spaesati; infine Robert Frost perché è il poeta che sento più vicino.
D. L’accesso a pratiche culturali tipiche dei ceti medi per chi proviene da un contesto familiare subalterno può produrre un senso di perdita delle origini – quella “melanconia di classe” di cui parla Cynthia Cruz nell’omonimo saggio – e la percezione di essere un “transfuga di classe”. Come vivi questa situazione di ambivalenza?
R. Per questioni familiari non ho potuto proseguire gli studi oltre un biennio di superiori. Ero il figlio maggiore di genitori poveri che vivevano in una casa popolare. A sedici anni, per aiutare economicamente la famiglia sono dovuto entrare in fabbrica. Per i miei interessi culturali mi sono sempre sentito un pesce fuor d’acqua in fabbrica (ma anche fra la società che si “ciba” o viene imboccata di altri contenuti, come sappiamo), e dato che sono sempre stato un operaio mi sono sempre sentito avulso e mai completamente accolto e accettato nell’ambiente culturale. Però devo dire che in qualche modo tale ostracismo ha giovato, perché mi ha permesso di “stare fuori” dalle solite conventicole e vivere con più passione la mia avventura fra le parole.
D. Perché scrivi? Per chi scrivi? Come sei arrivato a scrivere? Come rispondi alla tendenza dell’industria editoriale a cercare di adattare il racconto della classe a quel paradigma vittimario che Prunetti definisce “misery porn”?
R. Scrivo per sanare una frattura che ho dentro, innanzitutto. Poi scrivo per ribellarmi ai dettami di una società che “mi spiega che penso” per dirla alla De André, per mantenermi vivo e onesto, refrattario a questo andazzo volgare, vile e violento. Scrivo per essere voce di voci, soprattutto di quelle più umili, offese. Ho incominciato a scrivere (come ho raccontato in diverse interviste) proprio per parlare di una cameriera offesa, dentro un bar, in cui vedevo mia madre “serva di siori” a Milano, nel dopoguerra, che poi venne truffata anche dei pochi risparmi accumulati.
L’industria editoriale cerca merce da spacciare. Storie che vanno di moda o per indirizzare la società entro i binari del consenso e dell’accettazione prona di una realtà sempre più indifferente e disumana. L’industria culturale, poi, è in mano ai grandi gruppi economici e industriali che hanno corroso questo paese. L’operaio, quando scrive, quando parla o manifesta, dissente, protesta. Come può essere accolto tale grido da un’istituzione che porta il prefisso “industria” nel proprio nome e nella propria vocazione? Solo l’ardore mai sopito di alcuni direttori di collana, di poesia, narrativa o saggistica permettono la stampa di libri che, per le leggi contingenti del mercato editoriale, sarebbero altrimenti cassati.
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