Qualcosa di Terribile ci insegue. Sui racconti di Flannery O’Connor
Corse sempre più veloce, e mentre imboccava la strada che portava a casa sua, il cuore correva veloce quanto le sue gambe, e fu certo che Qualcosa di Terribile lo stesse inseguendo con le braccia rigide e le dita pronte e ghermirlo
(Il tacchino, p.99)
Orecchie che leggono come gli occhi
La signorina Willerton era una fedele seguace di quella che chiamava «arte fonetica». Affermava che le orecchie sapessero leggere bene quanto gli occhi. (Il raccolto, p.73)
Flannery O’Connor oggi avrebbe cent’anni. Era nata nel 1925 nel Sud degli Stati Uniti, in Georgia, e aveva ricevuto a ventisette anni la diagnosi di lupus eritematoso, la stessa malattia che aveva condotto il padre alla morte; e come lui morì prematuramente, a trentanove anni. Non è improbabile che i dolori crescenti e la consapevolezza della fine incombente abbiano contribuito a circoscrivere la sua produzione romanzesca a soli due libri (La saggezza nel sangue; Il cielo è dei violenti), quasi che la scrittrice non vedesse davanti a sé quel margine di tempo utile a completare un romanzo.
Ad ogni modo, a chi non avesse letto nessuno dei due si potrebbe suggerire di entrare nell’universo narrativo di O’Connor attraverso i suoi racconti – non di rado base di partenza per la stesura dei romanzi. I racconti contenuti nella raccolta Il geranio e altre storie (Minimum fax, 2021; traduzione di G. Cenciarelli, prefazione di R. Petri, autrice, peraltro, anche di un romanzo-biografia, La ragazza di Savannah, Mondadori 2025), di lunghezza assai varia, aprono un accesso privilegiato. Ma il lettore va avvisato: una volta entrati, è difficile uscirne.
La scrittura di O’Connor contiene infatti qualcosa di magnetico, non necessariamente del polo che attrae, anzi. Tuttavia, per quanto respinga, non dà scampo, non c’è modo di venirne fuori se non dopo: dopo aver guardato, e toccato, annusato, ascoltato tutto, ma proprio tutto quanto lei abbia deciso che il lettore debba guardare, toccare, annusare, ascoltare. Chiunque si sia avventurato tra le pagine di quei racconti, anche ottimamente attrezzato di strumenti d’analisi solidi e sottili, ne ha riportato il turbamento o il fastidio che nasce davanti a luoghi conosciuti, situazioni note, discorsi già sentiti di cui tuttavia improvvisamente, inspiegabilmente si smarrisce il senso, la sostanza, il valore; e si resta disarmati, come sempre quando non si comprende, come il bambino se la fata buona rivela non di essere la strega cattiva, ma di essere – insieme, contemporaneamente – entrambe:
La vita correva, una cosa dopo l’altra, e sembrava che il tempo andasse talmente veloce da non riuscire nemmeno più a capire se si era giovani o vecchi. (Il treno, p.102)
Guardare dritto dentro la notte
Poteva sdraiarsi e alzare la tendina quanto bastava per guardare fuori, per osservare – era questa la sua intenzione fin dall’inizio – e vedere come scorreva la vita davanti al finestrino di un treno di notte. Poteva guardare dritto dentro la notte, in movimento. (Il treno, pp.107-108)
Si direbbe che questa non sia soltanto l’intenzione di Haze, il protagonista del racconto Il treno, ma della sua stessa autrice; e del resto non pochi fra i personaggi di O’ Connor sembrano farsi portatori del significato di quella scrittura e interessano il lettore quasi più per questo che per le trame in cui sono invischiati – tutte rarefatte, inafferrabili, come fossero incompiute, o compiute prima di iniziare, o da compiersi altrove, in un altro momento, da qualche altra parte. La voce narrante le racconta sempre entrando in medias res, illudendo il lettore di aver stipulato con lui un patto di complicità: come se già sapesse, se già conoscesse spazi, uomini e cose. In effetti, quelli descritti da O’Connor sono contesti sempre apparentemente familiari, nonostante la distanza temporale e (nel caso del lettore italiano) spaziale: la provincia, la campagna, i nuclei domestici ristretti e asfittici, le case sparse di oggetti comuni, e desideri comuni, e persone comuni. Ma poi quel patto si rivela per quello che è: un contratto-capestro, in cui la complicità si sconta col cinismo. Cinismo autentico, sostanziale, originario; non il cinismo di riporto, il cinismo per traslato, quello che assimila l’autonomia di giudizio e la superiore indifferenza verso le passioni – che sono del cinico “puro” – a una generica postura sprezzante. E ci vuole coraggio, molto coraggio, per essere cinici a quel modo lì, per sottrarsi all’opinione della massa, agli alibi facili del sentimento. La scrittura di O’Connor è di questo genere: autonoma nel giudizio, superiore alle passioni, coraggiosa. E spesso questi racconti fanno della scrittura la vera e propria protagonista. Per ragioni di brevità, qui ne citiamo soltanto due – ma rivelatori.
Il primo è Il raccolto, esempio straordinario di metascrittura e metanarrazione. La signorina Willerton, la protagonista, è una donna di mezza età che vive nella vecchia casa di famiglia un’esistenza fatta di abitudini e scandita dagli orari dei pasti come dalle ore di una liturgia (non troppo dissimile dovette essere il quotidiano di O’Connor, costretta dalla malattia nella casa-fattoria di famiglia, dove visse, fatti salvi pochi spostamenti, assistita dalla madre); però ama scrivere. La voce narrante la segue a partire dalla colazione, che segna l’inizio della giornata, mentre prova a scrivere continuamente interrotta da faccende domestiche di nessuna entità; in questa sede noi possiamo seguirla solo a tratti:
Era un sollievo ripulire la tavola dalle briciole. Le dava tempo per riflettere, e se la signorina Willerton voleva scrivere un racconto, doveva prima pensarlo. In genere riusciva a pensare meglio seduta davanti alla macchina da scrivere, ma per il momento si sarebbe accontentata. Per prima cosa, doveva pensare all’argomento della storia. Ce n’erano talmente tanti che la signorina Willerton non riusciva mai a sceglierne uno. Era quella la parte più difficile, lo diceva sempre. Era più il tempo che passava a pensare cosa scrivere del tempo che dedicava alla scrittura. (…) Dunque! Cos’è che aveva deciso? Ah, sì. I fornai. Mmm. I fornai. No, i fornai non andavano bene. Non erano per niente pittoreschi. Non c’era nessuna tensione sociale collegata ai fornai. La signorina Willerton rimase seduta a fissare la macchina da scrivere con sguardo assente. A S D F G – gli occhi vagavano sui tasti. Mmm. Insegnanti?, si chiese la signorina Willerton. No. Dio del cielo, no. Gli insegnanti la facevano sentire a disagio. (…) E comunque gli insegnanti non erano di moda. Non rappresentavano nemmeno un problema sociale. Problema sociale. Problema sociale. Mmm. I mezzadri! La signorina Willerton non aveva mai avuto contatti diretti con i mezzadri ma, rifletté, sarebbero stati un argomento buono come qualsiasi altro, e le avrebbero conferito quell’aria di preoccupazione sociale che era tenuta da conto nei circoli che sperava di frequentare (pp.71-73).
Il suo personaggio doveva essere dotato di solidi principi morali (…). Ora, come avrebbe fatto a inserire questa particolare caratteristica con tutta la passione amorosa che non poteva sicuramente mancare? (…) Più di ogni altra cosa le piaceva programmare le scene di passione, ma quando si metteva a scriverle iniziava sempre a sentirsi a disagio e a chiedersi cosa avrebbe pensato la sua famiglia. (p.75)
Con cinismo – appunto – la voce narrante rivela le istanze non proprio estetiche e le preoccupazioni moralistiche che presiedono alla scrittura di Miss Willerton; ma poi, con uno scarto inatteso, la scialba, insignificante signorina salta letteralmente dentro la sua stessa storia, per salvare il suo personaggio – Lot, un mezzadro fallito – dal coltello minaccioso della moglie tirannica: la stordisce con un colpo in testa, la donna viene trascinata via da una nebbia (testualmente) e lei si ingegna a preparare all’uomo un porridge caldo. La voce narrante adesso la chiama Willie, e così l’uomo che lei ha salvato: «Tu sai sempre cosa provo, Willie» (p.77). Ma se Willie è capace addirittura di risollevare le sorti della fattoria e di rendere padre il mezzadro, la signorina Willerton, invece, deve andare a fare la spesa. E la voce narrante la spedisce al supermercato, su «marciapiedi pieni di gente che si affrettava con le mani piene di pacchetti», e la tormenta con domande insistenti, «Che cosa ricavavano da tutto questo? Dov’era la possibilità di esprimersi, di creare, di fare arte?» (pp.80-81), fino al ritorno a casa, dove Willerton distruggerà il racconto.
Il secondo esempio è tratto invece dal racconto La festa delle azalee. A Patridge, piccola cittadina bigotta e abitudinaria, si celebra ogni anno l’attesissima festa delle azalee, come fosse un grande evento. Singleton è un uomo ombroso e schivo, che la gente giudica «un tipo strano» perché «non si è mai adeguato» alle usanze del posto. Ma quando Singleton rifiuta di acquistare il distintivo della festa, la comunità gli intenta una sorta di processo-beffa, addirittura imprigionandolo in compagnia di una capra. L’uomo, finalmente liberato, spara sulla folla, uccidendo, e viene rinchiuso in una casa circondariale in attesa di un processo vero. Calhoun, ventitreenne nipote di due anziane signorine in visita occasionale alle zie, crede di riconoscere in quel gesto
la sicurezza di un uomo che sa ciò che vuole e che è disposto a soffrire per il diritto di essere se stesso. Nell’occhio normale era in agguato un disprezzo calcolato, ma in generale aveva l’espressione tormentata di un uomo che, alla fine, impazzisce per la pazzia che lo circonda. (p.199)
Ma soprattutto crede di riconoscere una somiglianza fra sé e Singleton, una «somiglianza interiore» (p.199). Così si mette in testa di scrivere niente meno che un romanzo a tesi, per «dimostrare come funzionava la ingiustizia primaria» (p.212); ma non solo:
Sperava di scrivere qualcosa che avrebbe vendicato e riabilitato il folle e sperava che scriverlo placasse il suo rimorso, perché la sua doppiezza, la sua ombra si stendeva davanti a lui più scura del solito, alla luce della purezza di Singleton. (p.201)
Le intenzioni del giovane sono dunque scivolose: la scrittura dovrebbe svolgere una funzione assolutoria (come già l’impegno sociale per la signorina Willerton), giacché il ragazzo, dichiaratamente critico dei valori mediocri dei suoi genitori come di quella piccola comunità, sa benissimo di sé una verità scomoda e solo apparentemente paradossale: «a lui piaceva vendere» (p.201, in corsivo nel testo) ed era «tremendamente bravo nel suo lavoro» (p.202), dunque sostanzialmente complice del perpetuarsi di quei meccanismi sociali ai quali crede di sfuggire. Ad accrescere insopportabilmente il peso di questa rappresentazione poco edificante di sé contribuisce l’incontro con una coetanea, Mary Elizabeth: sebbene convinta della sostanziale innocenza di Singleton, come del resto è convinto Calhoun, e sebbene, come lui, desiderosa di incontrare il pazzo presunto, la ragazza disprezza profondamente le istanze romanzesche del giovane:
«Io invece ho intenzione di scrivere un saggio», disse la ragazza con un tono che dava chiaramente a intendere che il romanzo era per lei un genere letterario inferiore (p.216)
Incapaci di stabilire senza pregiudizio quale delle due scritture sia capace di indagare più a fondo il mistero dell’animo umano, decidono di recarsi nel penitenziario per guardare negli occhi il prigioniero. L’esperienza si rivela traumatica per entrambi. Ghermiti da Singleton, scappano precipitosamente dalla cella:
Rimasero in silenzio, a guardare il nulla, finché finalmente si girarono e si guardarono. Entrambi videro subito, nei lineamenti reciproci, la somiglianza con il comune parente, e trasalirono. Distolsero gli occhi, poi tornarono a guardarsi, come se concentrandosi potessero trovare un’immagine più tollerabile. Agli occhi di Calhoun, il viso della ragazza pareva rispecchiare la nudità del cielo. Disperato, si sporse verso di lei finché non venne fermato da un viso in miniatura che, implacabile, gli veniva incontro nei suoi occhiali e lo inchiodava al suo posto. Rotondo, innocente, banale come un anello di metallo, era il viso che il dono della vita aveva spinto verso un futuro di continue feste delle azalee. Come un venditore esperto, sembrava aspettarlo da sempre, per reclamarlo. (p.228)
Già solo nell’attesa di quell’incontro, «il desiderio di scrivere un romanzo si sgonfia come un pneumatico difettoso» (p.219), denunciando la rinuncia della scrittura (e dell’arte in genere) a rappresentare quello che Bloch chiamerebbe il dorso delle cose, in nome della tutela spudorata del profitto o del quieto vivere.
Come se lui fosse un inetto
Quel che Calhoun trova insopportabile è che Mary Elizabeth, fin da subito, lo tratti «come se lui fosse un inetto» (p.215). Non lo è l’intraprendente venditore, a cui «la società aveva conferito un attestato di rendimento» (p.202); ma lo è lo scrittore. E si tratta di condizione che il giovane condivide con parecchi altri compagni distribuiti equamente tra tutti i racconti. Vero è che l’inettitudine è declinata in termini differenti a secondo dei soggetti; ma quella è la malattia di cui soffre larga parte di loro. Malattia letterariamente nota – si dirà. Certamente; ma O’Connor, nel raccontarla, se schiva ugualmente i toni colpevolizzanti o indulgenti del giudizio, non è per questo disponibile all’ironia, non a quella esplicita; piuttosto sconfina talvolta nel grottesco. La diagnosi emerge quasi come se si fosse fatta da sé, quando le azioni e i pensieri delle persone narrate sfregano contro la superficie ruvida della realtà, sotto la quale si annida la verità nuda delle cose. Così accade, per esempio, nel racconto Amore e rabbia (che chiude la raccolta): di fronte al marito appena paralizzato per un colpo apoplettico, una madre autoritaria e dispotica chiede al figlio Walter di assumere le redini della tenuta. Ma il figlio è
Un tipo di uomo diverso da tutti quelli che avesse mai conosciuto. Non c’era innocenza in lui, né rettitudine, né convinzione del peccato o della salvezza. (…) corteggiava imparzialmente il bene e il male e prendeva in considerazione tanti aspetti di ogni questione da non riuscire a muoversi, e infatti non riusciva a muoversi, non era nemmeno in grado di far lavorare i negri. (…) Aveva ventotto anni ormai, e finora, per quanto ne sapeva lei, non si era occupato altro che di sciocchezze. Aveva l’aria di chi aspetta un grande evento e non si decide a mettersi all’opera perché sa che verrebbe costretto a interrompersi. (…) Si divertiva a scrivere lettere a persone che non conosceva e ai giornali. Con vari pseudonimi e usando personalità diverse, scriveva a sconosciuti. Era un vizio strano, modesto, spregevole. (…) Leggeva libri che non avevano niente a che fare con nessuna delle cose che contavano adesso. (p.233)
Gli è in qualche modo confratello, fra gli altri, Hazel, protagonista del racconto Il pelapatate, forse il più folgorante della raccolta. Incontra per caso, presso il banco di un ambulante che vende pelapatate, un vecchio cieco, accompagnato da una ragazzina che gli porge un volantino, Gesù ti chiama. Ostentando indifferenza, Hazel lo fa in mille pezzi; e tuttavia, lo tormentano le parole del vecchio – «non si può scappare da Gesù. Gesù è un fatto» – e così decide di seguirlo, col pretesto di donargli uno di quei pelapatate. In realtà quel richiamo lo ha riportato a un giorno lontano della sua adolescenza: non è solo un ricordo, quel pomeriggio entra nel racconto come una epifania. Hazel aveva solo dieci anni e, inseguendo di nascosto il padre, si era intrufolato sotto il tendone di un luna park e lo aveva visto: in mezzo a un pubblico di soli uomini, guardava una donna nuda dimenarsi dentro una bara foderata di nero. Fuggito via per la vergogna, viene sorpreso dalla madre con un’espressione colpevole sul viso. La madre lo bastona.
…e Haze dimenticò il senso di colpa suscitato dalla tenda, sostituendolo con l’indefinito e innominato senso di colpa che albergava in lui. (p.136)
Non serve che Hazel si riempia le scarpe di sassi e vi cammini per chilometri, per espiare e ritrovare la virtù perduta. Non serve perché, come dice Walter con «un rossore lento» sul viso, «l’unica virtù della mia generazione è che non si vergogna di dire la verità su se stessa» (p.232). E la verità (come commenta acre la madre di Walter) è che quella generazione è «come un assorbente (…) incamera tutto e non butta fuori niente» (p.231), carceriera e prigioniera di se stessa; e il suo cervello è come quello di Enoch, il balordo che campa d’espedienti:
Il cervello di Enoch era diviso in due parti. La parte che comunicava con il sangue elaborava le idee ma non esprimeva mai nulla a parole. L’altra parte era piena zeppa di ogni genere di parole e frasi. (Il cuore del parco, p.145)
Decisamente Qualcosa di Terribile ci insegue: tutto il non-detto di un secolo.
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