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diretto da Romano Luperini

Storicisti nostro malgrado. In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia di Paolo Desogus

Già ampiamente sfruttata tre anni fa, in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, la logica dell’anniversario – che inesauribilmente travalica dai social media al dibattito culturale, chiudendosi poi in una sorta di venefica circolarità autoreferenziale – sembrerebbe ora richiedere un analogo investimento nel cinquantesimo anno dall’omicidio dell’autore.

Se infine questo, com’è probabile, non accadrà, non sarà soltanto per un certo sfiancamento, o esaurimento, della vena pasoliniana degli studi letterari italiani, ma anche per la presenza di studi, come In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia di Paolo Desogus (La Nave di Teseo, 2025), che hanno il crisma dell’opera definitiva – per quanto riguarda, almeno, alcuni dei molti territori esplorati dall’opera pasoliniana, e attraverso di essa esplorabili.

Tra questi, spicca senza dubbio il nesso tra passione e ideologia, come nel titolo dell’omonima pubblicazione di Pasolini del 1960, e con esso l’ascrizione dell’intera opera pasoliniana al cosiddetto “marxismo della contraddizione”. Su questo punto, l’analisi di Desogus è di certo convincente, soprattutto laddove assume che «l’itinerario pasoliniano della contraddizione» si sia svolto «nel segno della ragione, della ragione impura, che non scansa l’irrazionale come un inutile ingombro, ma che anzi lo interroga senza sopprimerlo, senza pretendere di addomesticarlo, ma senza neanche farsi da esso dominare» (p. 32, corsivo nell’originale).

Pasolini stesso, del resto, ha dichiarato esplicitamente la sua “appartenenza alla contraddizione” in molte occasioni: da Passione e ideologia, appunto, alle Ceneri di Gramsci (1957) – dove «lo scandalo del contraddirmi», nei versi dell’autore, sta proprio nell’essere con Gramsci e contro Gramsci, «con te e contro te» – senza dimenticare almeno un altro testo che Desogus cita spesso, così come fa con altri luoghi dell’opera pasoliniana, apparentemente meno frequentati, ma che trovano nuova centralità nell’abile argomentazione dello studioso. Si tratta della “Conversazione con Pier Paolo Pasolini” di Sergio Arecco (all’interno di Pier Paolo Pasolini, 1972), nella quale Pasolini compie il gesto anti-hegeliano di individuare una dialettica non più ternaria, ma binaria, rappresentandosi in preda al «misero tumulto di un pensiero che ora è dialettico ora è addirittura anti-dialettico!».

Se il rapporto con Gramsci – che Desogus individua giustamente come una costante mai del tutto venuta meno, nell’intera opera di Pasolini – è un fatto anche corporale (di nuovo, dalle Ceneri: «con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere»), ciò non toglie che, allo stesso tempo, e con la stessa cogenza, avvenga anche il «misero tumulto di un pensiero» appena citato. Tumulto che inizia già nei primi anni della formazione di Pasolini, stando a uno degli apporti più significativi di Desogus alla ricerca documentale sulla vita dell’autore; il riferimento è agli studi universitari compiuti da Pasolini, nell’immediato dopoguerra, presso l’ateneo di Bologna, con l’intenzione – sopravvenuta dopo la laurea in Lettere conseguita nel 1945 con la nota tesi su Pascoli – di laurearsi una seconda volta in Filosofia, sotto la guida di Felice Battaglia, filosofo e giurista dall’orientamento spiccatamente esistenzialista. E proprio nel 1947, in Bilancio dell’esistenzialismo, Battaglia scriveva:

Venute meno le grandi sintesi ottocentesche da Kant ad Hegel, di cui Croce e Gentile sono il compimento luminoso, il pensiero ha compreso di non potersi del tutto risolvere nella ragione, poiché a voler puntare sulla ragione per intendere il mondo e l’uomo qualcosa rimane irresoluto, appunto irrazionale.

La ragione resta «impura», con un portato residuale che evita l’esito conciliatorio inevitabilmente inerente alla chiusura sintetica del movimento dialettico.

Già analizzando i primi anni della formazione, dunque, appare persuasivamente a Desogus, e a chi lo legga, come non si possa seguire parte della vulgata pasoliniana degli ultimi decenni nella proposta di un’immagine esclusivamente «corporale» dell’autore, che privilegi un versante delle contraddizioni pasoliniane sull’altro – secondo l’efficace formula di Desogus: «presenza senza pensiero, passione senza ideologia, corpo senza filosofia» (p. 348). A presenza, passione e corpo vanno sempre associati, dunque, pensiero, ideologia, filosofia: l’emergenza del «Pasolini corporale» tenderebbe invece a minimizzare l’elemento filosofico, secondo una mossa che, se non “anti-filosofica”, può certo dirsi (e in alcuni casi lo rivendica, almeno in termini generali) “post-ideologica”.

Desogus, in effetti, rintraccia l’origine del côté «corporale» delle letture pasoliniane nella cosiddetta “crisi delle ideologie” e nel parallelo sgretolamento del dibattito intellettuale, come fenomeno che si è reso evidente, con riferimento specifico alla lettura di Pasolini, negli anni Novanta del secolo scorso. Lungi dall’essere mera contestualizzazione, quest’ultimo è anche uno dei vari affondi politico-culturali del saggio, spesso affidati ad alcune brevi notazioni en passant, che intendono completare e approfondire lo spunto polemico e politico originario di un libro In difesa dell’umano in un’epoca ormai chiaramente transumanista; inoltre, è un appunto che dà compiutamente conto del venir meno, negli ultimi decenni, del modello intellettuale della conversazione dotta che lo stesso volume rispecchia, in particolar modo, con i capitoli dedicati alla relazione di Pasolini con De Martino e Fortini. (Questo, naturalmente, nella piena consapevolezza da parte dell’autore che anche un ipotetico ritorno a tale modello di conversazione non potrà certo arginare, idealisticamente, le trasformazioni materiali del lavoro intellettuale intercorse tra gli anni Settanta e oggi, ovvero la fine del ruolo intellettuale sensu stricto, nonché di una certa omogeneità identitaria e socioculturale di fondo di una conversazione che in Italia è tradizionalmente avvenuta tra “maschi bianchi borghesi”, etc.).

Tornando alla questione del «Pasolini “corporale”», Desogus non la elide di certo, evitando al tempo stesso l’onere, forse troppo specialistico in vista della sede di pubblicazione, di affrontare di petto alcune interpretazioni “corporali” di Pasolini vigenti in quegli Studies – queer studies, postcolonial studies, etc. – che pure hanno tratto linfa vitale, a livello internazionale, dallo stesso panorama rintracciato dall’autore negli anni Novanta italiani. Pasolini è certamente autore filosofico, come sottolinea Desogus, ma le questioni sollevate dal versante “corporale” della sua opera sono molteplici e si inseriscono, del resto, in modo assai convincente nella dialettica della contraddizione già enucleata: per affermarlo, Desogus ricorre anche ad alcune sue ricerche precedenti che giustamente innervano anche questo nuovo lavoro, ad esempio nelle importanti pagine dedicate al tema del pianto – presente in vari luoghi pasoliniani, a partire dal “Pianto della scavatrice”, nelle Ceneri  – o anche nell’analisi di un racconto ancora della fine degli anni Quaranta come “Stefano” (1947-48), dove non c’è solo un’anticipazione del “regresso” pasoliniano, ma anche un embrionale intreccio di complicità sessuale e contraddizione di classe.

Nel “Pianto della scavatrice”, peraltro, il viluppo di passione e ideologia è talmente indistricabile da indurre Desogus a utilizzarne alcuni versi – «E il cieco / rimpianto, segno di ogni mia / lotta col mondo, respingevano, ecco, / adulte benché inesperte ideologie…» – a suggello di una delle sue analisi più riuscite: nella sua lotta, che è spesso un corpo a corpo, con il mondo, e nel parallelo tentativo di presa filosofica su di esso, Pasolini si rivela «uno storicista suo malgrado» (p. 288, corsivi nell’originale).

Continuando nel rispecchiamento, certamente storicista è anche l’impostazione critica di Desogus, che, in più luoghi, ripercorre la critica pasoliniana così come si è andata via via consolidando negli ultimi decenni, instaurando un confronto serrato con molte altre posizioni, da quelle di Pier Vincenzo Mengaldo e di Walter Siti ai più recenti saggi di Silvia De Laude o di Gian Luca Picconi. Di Siti, in particolare – e com’è prevedibile, seguendo il filo dell’argomentazione – Desogus censura un’affermazione già presente in un articolo del 1982 per i Quaderni piacentini e poi variamente ripresa – la filosofia, per Siti, sarebbe, «la materia dalla quale il tuttologo Pasolini era più lontano» – e, più in generale, una sorta di “antagonismo” sia critico che autoriale (p. 43) con l’autore di cui Siti ha curato i Meridiani.

Talvolta, l’impressione è che la necessità di Desogus di districare il proprio percorso interpretativo da altri, ritenuti meno validi o anche fuorvianti, tenda nell’immediato a convalidare le posizioni dello stesso Pasolini – come succede ad esempio nel confronto intellettuale e autoriale, non di rado agonistico, dell’autore con Fortini e, su altri versanti, con il Gruppo 63. Una convalida, comunque, che, approfondendo l’analisi, si rivela foriera di importanti risvolti critici.

Nel caso di Fortini, l’intero saggio di Desogus sembra prendere le mosse proprio dalla prima e più importante critica fortiniana a Pasolini – quella sulla sineciosi – salvo poi rilevare, con grande precisione analitica, come Fortini vedesse nelle contraddizioni di Pasolini una sorta di immobilità dialettica, quando non un esito propriamente a-dialettico (p. 298), e come questo non consentisse a Fortini di distinguere la differenza tra popolo “in sé” e popolo “per sé” che risulta invece di importanza fondamentale per la lettura marxista di Pasolini (p. 312).

Nel secondo caso, Desogus sembra abbracciare in modo piuttosto integrale la critica di Pasolini della neoavanguardia, scorgendo nell’enfasi di quest’ultima sul linguaggio una logica integralmente subalterna allo sviluppo del capitalismo ad essa contemporaneo e contrapponendovi, invece, la carica metapoetica e politica dell’indiretto libero pasoliniano. Senza entrare, per ragioni di spazio, nel merito di questo giudizio né delle cursorie, ma assai interessanti, osservazioni di Desogus sull’analogia tra la struttura retorica di “Patmos” (1969) di Pasolini e alcuni moduli «forse ripres[i] da Balestrini» (p. 373), ciò che più colpisce nell’argomentazione di Desogus è il metodo, ovvero l’applicazione, nonostante la critica serrata alle posizioni culturali e politiche  Fortini, di una lettura di chiara ascendenza fortiniana, basata sull’ontologia sociale delle forme – com’è del tutto evidente in almeno un altro caso, ossia nell’analisi delle forme dell’endecasillabo pasoliniano, a partire dal rapporto con la matrice dantesca.

D’altronde, il bel capitolo dedicato a Dante è forse uno dei più brevi del libro, ma consente a Desogus di tornare a un testo fondamentale per le sue ricerche, e non solo in vista di questo libro. Si tratta della Mortaccia (1959-1961), testo che, come sottolinea Desogus, non dev’essere consegnato esclusivamente alle categorie del fallimento per l’abbandono da parte dell’autore, ma che anzi, grazie al lavorio incessante che Pasolini gli ha dedicato per almeno due anni, evidenzia la qualità laboratoriale dell’approccio pasoliniano. Il rimando, in altre parole, è a un’altra convincente analisi monografica di Desogus, Laboratorio Pasolini (Quodlibet, 2018), in cui si mostrava già in modo compiuto come, dall’approdo al cinema in poi, Pasolini affrontasse le contraddizioni che emergevano nel farsi della sua opera come muovendosi all’interno di un laboratorio – proponendo, si potrebbe anche dire, uno sperimentare e sperimentarsi che non si conchiudeva mai nell’astrazione della sperimentazione formalista, ad esempio neoavanguardista.

L’immagine del laboratorio, peraltro, rende pienamente conto della dialettica della contraddizione pasoliniana, che è calata nel proprio presente storico, ha carattere naturalmente processuale, e tuttavia talvolta difetta di futuribilità (a differenza di quella postura profetica che, come nota sempre Desogus, era stata ampiamente riconosciuta da Pasolini in Fortini). Come rilevato anche da Massimo Raffaeli nella sua recensione per il manifesto, Pasolini si attesta invece su quella dimensione del “futuro anteriore” che già Walter Benjamin aveva rintracciato nei classici della letteratura e dell’arte.

Fino a quando, però, potrà durare questo futuro anteriore concepito nel laboratorio di Pasolini? Lo stesso saggio di Desogus – oltre a proporsi, e di fatto, nel suo complesso, a costituire, una summa definitiva di alcune questioni – preannuncia nelle ultime pagine la prosecuzione del lavoro con un nuovo percorso critico-ermeneutico, basato stavolta sull’analisi della mimesi; allo stesso modo, una volta stabilita con tanto vigore e tanta precisione la dimensione filosofica della politica pasoliniana, le nuove analisi non potranno forse esimersi da un confronto tra il “marxismo della contraddizione” di Pasolini e altri posizionamenti che si sono via via avvicendati nell’alveo del marxismo, o dei marxismi. In questo modo, e svicolando dalle logiche necrofile degli anniversari, si potrà continuare a storicizzare Pasolini, restando “storicisti nostro malgrado”, o meglio – ricalcando una bella citazione pasoliniana (da una lettera del 1962 a un lettore di “Vie nuove”), già analizzata da Gian Luca Picconi per tutti i suoi echi benjaminiani, gramsciani e nietzscheani, e che Desogus giustamente ripropone – cercando un «reale capace di nuova storia».

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