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diretto da Romano Luperini

Si può fare politica a scuola? Da Kant a Gaza

Una distinzione kantiana

Nel suo celebre Risposta alla domanda: che cos’è illuminismo? (1784), Kant introduce la distinzione tra due diversi usi della ragione: uso pubblico e uso privato.

Per uso pubblico della ragione io intendo quello che ciascuno fa di essa come studioso dinnanzi all’intero pubblico dei lettori. Chiamo uso privato quello che egli può fare della sua ragione in un certo impiego o ufficio civile a lui affidato. Ora, in alcuni affari che concernono l’interesse del corpo comune, è necessario un certo meccanismo, per via del quale alcuni membri del corpo comune non possono che comportarsi in modo meramente passivo […]. Qui non è certamente permesso ragionare: si deve invece obbedire. Ma in quanto però questa parte del meccanismo si riconosca anche come membro di un corpo comune, anzi persino della società cosmopolitica, dunque in qualità di studioso che si rivolge con scritti ad un pubblico in senso proprio, egli può certamente ragionare, senza che con ciò ne soffrano gli affari a cui è per un altro verso preposto come membro passivo.

Gli esempi di Kant chiariscono in che senso l’uso privato della ragione sia una forma di obbedienza: il soldato che esegue un ordine ricevuto; l’ecclesiastico che insegna i dogmi del catechismo secondo la dottrina della propria chiesa. Ma non ci si faccia depistare da quel verbo forte e sgradevole, «obbedire»: il filosofo intende solo dire che nell’ambito del «certo impiego o ufficio civile» che al soldato e all’ecclesiastico è stato affidato, egli è tenuto a far bene il proprio mestiere. Questa etica del lavoro è fondata «sull’interesse del corpo comune»: è perché si deve contribuire al suo buon funzionamento, per la porzione particolare che di esso è a noi affidata («alcuni affari»), che dobbiamo imporci di buon grado una certa “passività” e “meccanicità” nell’applicazione delle nostre capacità (cioè della nostra ragione). Ma lasciamo pure da parte l’esempio del soldato, che qui non ci interessa, e limitiamoci a considerare soltanto quello dell’ecclesiastico, che come è evidente, è un insegnante. Egli, in quanto titolare di una certa materia, ne impartirà almeno alcuni contenuti, chiamiamoli essenziali, “così come sono”, senza metterli in discussione, perché la loro trasmissione garantisce la perpetuazione dell’ordine simbolico (tradizione, immaginario, canoni culturali) che è essenziale alla buona salute del corpo comune della società.

Ma l’ecclesiastico e l’insegnante non sono soltanto funzionari. Sono anche esseri umani dotati di ragione che hanno il dovere di avanzare e far avanzare sulla strada del “rischiaramento”: alla lettera, è questo il significato del tedesco Aufklärung, che la traduzione italiana, “illuminismo”, riduce a una corrente filosofica, mentre si tratta di un termine comune, solo per antonomasia diventato proprio, che indica il processo attraverso il quale si chiarisce qualcosa, si porta la luce dove c’era l’ombra. L’illuminismo perciò è l’atto di illuminare con la ragione; per Kant esso si concretizza, tra le altre cose, nel sottoporre a verifica ciò che è trasmesso con l’insegnamento. È in questo esercizio della critica che si realizza l’uso pubblico della ragione, di cui non solo si può, ma si deve fare uso, per sé e perché altri lo apprendano a loro volta. Solo così si esce dallo «stato di minorità», ovvero la condizione del minorenne, che vive sotto tutela e che si affida alla guida di un’autorità che gli dice che cosa pensare.
L’uso pubblico della ragione non si esercita solo davanti a coloro ai quali parliamo direttamente, che Kant definisce «assemblea domestica» (cioè ristretta, privata, non pubblica); almeno idealmente, esso è esercitato davanti alla «società cosmopolitica», ovvero davanti a tutta l’umanità: si parla, in quanto esseri umani dotati di ragione, ad altri esseri umani dotati di ragione. L’uso pubblico è infatti l’uso universale della ragione ed è anche l’unico uso davvero libero di essa. È in sua virtù che l’ecclesiastico di Kant, o il nostro insegnante,

ha piena libertà, anzi ha persino il compito di mettere a parte il pubblico di ogni suo pensiero, accuratamente argomentato e proposto con buona intenzione, sui difetti di quella dottrina [che sta insegnando]; come anche di metterlo a parte dei consigli circa un miglior indirizzamento delle cose religiose ed ecclesiastiche.

In senso stretto, l’uso pubblico della ragione è per Kant un diritto-dovere dello studioso, cui deve essere riconosciuta una facoltà di critica senza alcun tipo di limitazione in quello spazio universale che, dall’epoca dell’illuminismo, chiamiamo dell’opinione pubblica. Gli studiosi di cui parla Kant sono quelli che, alla fine del secolo successivo, saranno chiamati “intellettuali” e che sono definiti dal compito di «dire la verità», secondo la formula efficace di Edward Said.

Dunque il diritto all’uso pubblico della ragione è riservato esclusivamente alla classe ristretta degli studiosi o intellettuali? Ci sono buone ragioni per rifiutare un’interpretazione così restrittiva. Alla fine del proprio scritto, Kant stesso applica esplicitamente il discorso appena svolto a tutti i cittadini (per lui i sudditi di Federico II di Prussia). D’altra parte è proprio con l’illuminismo che si inizia a ragionare di diritti universali e di eguaglianza tra i cittadini. L’illuminismo, cioè l’illuminazione di sé attraverso il sapere, è un compito almeno potenzialmente universale, cui tutti sono chiamati. Se passiamo le idee di Kant al vaglio della tradizione di radicalismo democratico e socialista del XX secolo, possiamo ricordare come per Gramsci e per Fortini la funzione intellettuale andasse distinta dal ruolo: quest’ultimo identifica il gruppo degli intellettuali in senso stretto; ma la prima è esercitabile – o sarà esercitabile in una società pienamente democratica – da tutti, perdendo quel carattere di privilegio esclusivo di pochi.

Una precisazione foucaultiana

Commentando il testo kantiano nel 1984 (Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault, vol. 3), Michel Foucault ha scritto che la distinzione kantiana tra uso pubblico e privato della ragione è «alla lettera, il contrario di quello che di solito chiamiamo libertà di coscienza».

Siamo in effetti abituati a pensare che l’unica libertà pienamente nostra, che nessuno ci potrà mai strappar via, sia quella interiore. Possiamo scendere a compromessi con la realtà, accettare l’obbedienza esteriore ai vincoli che la società ci impone: ma, in fondo, dentro di noi restiamo “liberi”. È un’idea molto romantica di libertà, adatta a un’epoca di individualismo di massa come la nostra, in cui conformismo sociale ed espressione del proprio sé irripetibile si richiamano a vicenda. Ma guardando più a fondo, è evidente l’origine cristiana di questa concezione: l’anima è incatenata al corpo terreno che la limita, ma è libera nella sua assolutezza inattingibile.

Questo modo di concepire la libertà di coscienza porta quasi inevitabilmente a quello che durante le guerre di religione si chiamava nicodemismo: per non rischiare la vita in una comunità cattolica, i convertiti al protestantesimo simulavano in pubblico fedeltà alla Chiesa, perché questa adesione meramente esteriore e formale non impegnava la parte più profonda di sé ed era quindi irrilevante al fine della propria salvezza ultraterrena.

Insomma, si tace pubblicamente, ma si dissente privatamente (o si mormora nei corridoi, fra pochi intimi). Naturalmente ci sono molte buone ragioni per cui, in alcune occasioni, è saggio tenersi a questa forma di cautela e autotutela. Ma se nessuno avesse mai il coraggio di rompere la crosta del conformismo delle opinioni, non avremmo acquistato nessuna delle nostre attuali libertà. Kant parla di «sapere aude», avere il coraggio di comprendere da sé: l’illuminismo è un atto della volontà prima che dell’intelligenza. E poiché si manifesta come coraggio, non può restare confinato nella sfera privata della propria interiorità: si tratta di un atto pubblico e universale.

Foucault fa un’altra osservazione interessante, scrivendo che l’illuminismo di Kant è la novità che l’oggi introduce nello ieri. In altre parole, la critica ai valori del proprio presente dell’illuminismo è uno strumento di progresso, perché impedisce che le società si cristallizzino nelle proprie certezze e nei propri errori. Dunque l’avere il coraggio di sapere, cioè di comprendere e criticare, ha a che fare con il dovere collettivo di contribuire pubblicamente al miglioramento della società, attraverso la libera discussione. Uso pubblico della ragione, intervento nella storia, progresso, si tengono insieme.

Fare politica” a scuola

Si può, quindi, fare politica a scuola? Quando un collegio dei docenti delibera su questioni di stretto ordine organizzativo o didattico, quando un dirigente scrive una circolare sugli stessi temi, quando gli studenti si impegnano nella lezione di un docente, stanno facendo funzionare il meccanismo del «certo impiego o ufficio civile a loro affidato» e si comportano come un’«assemblea domestica». Ma un collegio dei docenti, un dirigente, un’assemblea di studenti hanno tutto il diritto di trascendere questa funzione particolare, per esercitare quella universale della critica: in questo caso, infatti, stanno parlando in quanto esseri umani e cittadini ai propri concittadini fuori dalle mura di scuola – cioè, idealmente, all’umanità intera, all’umanità che è in ciascuno di noi. Questo diritto di far uso della propria ragione in pubblico vale per chiunque in una società democratica; ma è evidente che vale a maggior ragione in un luogo di educazione come la scuola, del quale si ripete ad ogni occasione – retoricamente – che debba favorire la crescita di persone capaci di pensare con la propria testa e di presa sulla realtà, salvo lamentarsene quando quello spirito critico viene usato per parlare di argomenti sgraditi al potere.

Quando, ad apertura di anno scolastico, l’Ufficio scolastico regionale del Lazio, preoccupato dal fatto che in diverse scuole si votassero mozioni a favore della popolazione di Gaza, ha inviato una circolare riservata ai dirigenti, in cui si precisava che le attività collegiali «devono essere esclusivamente finalizzate alla trattazione delle tematiche relative al buon funzionamento dell’istituzione scolastica e sottratte a qualunque altra finalità», ha detto, né più né meno, che a scuola ci si dovrebbe limitare al solo uso privato della ragione: si faccia lezione, e pochi grilli per la testa.

Ma ciò che l’ecclesiastico di Che cos’è illuminismo? sottopone a libera discussione non sono semplici contenuti scolastici, intorno ai quali esercitare uno spirito critico di maniera: sono i dogmi della sua stessa chiesa. Quando Kant parla del diritto di mettere in discussione quel che si insegna, intende chiaramente una critica delle istituzioni – le chiese cristiane, il potere civile di Federico II – e delle idee che le governano: pensa, cioè, a una critica politica. Tale critica non è fine a se stessa, ma, come rilevava Foucault, è lo strumento con cui le società possono essere trasformate e migliorate e l’oggi essere diverso dallo ieri.

Che cosa sta facendo chi nelle nostre scuole manifesta la propria solidarietà ai gazawi, se non additare un errore (orrore) storico del governo di Israele, e del nostro, che si rifiuta di esprimere chiare parole di condanna di quello che non i facinorosi militanti filopalestinesi, ma una Commissione internazionale indipendente dell’Onu ha chiamato genocidio? Perché lo sta facendo, se non perché mosso da un senso elementare e radicale di giustizia che non può accettare questo presente, in nome di un tempo migliore?

Lo spazio del possibile della lezione

C’è un argomento strettamente intrecciato a quello che ho sviluppato, che richiederebbe una trattazione autonoma, ma che non si può almeno non accennare in conclusione.

Dovrebbe essere ormai chiaro che tra uso pubblico e privato della ragione – ovvero tra momento critico-decostruttivo e momento etico-costruttivo – si dà una compresenza dialettica. Come è unilaterale considerare la scuola solo il luogo dove preoccuparsi esclusivamente delle funzioni che stanno a cuore all’USR del Lazio, così essa non può nemmeno diventare un luogo di azione politica diretta. O meglio: lo spazio di espressione di una politica diretta deve essere garantito anche a scuola (assemblee, scioperi, presa di parola), come si è argomentato fin qui, ma questo spazio e quello della lezione non si sovrappongono, né si esauriscono l’uno nell’altro. Solo in questo senso mi pare lecito il richiamo (ben diverso dalla censura) a evitare l’adozione di un punto di vista esclusivo sugli eventi tragici dell’attualità. La lezione scolastica è certo uno spazio in cui imparare a prendere posizione, ma in cui non si può prescrivere quale posizione.

Con lo studio della letteratura, come ha scritto Emanuele Zinato (Intrecci di voci. L’ambiguità polifonica come risorsa formativa, in Zinato et al., Insegnare letteratura, Laterza, 2022), possiamo ad esempio fare esperienza dell’ambivalenza emotiva e dell’ambiguità morale che nascono dal condividere il punto di vista del nemico e dei personaggi negativi; lo studio della storia (e dell’attualità) è indagine sulla complessità delle cause degli eventi, non immediata attribuzione di torti e ragioni morali. Sono convinto che preservare questa sfumata complessità intellettuale non tolga nulla al diritto, non appena lasciato lo spazio del possibile della lezione, di essere moralmente e politicamente partigiani: consente, anzi, di farlo con maggiore consapevolezza.

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