
Imparare è un’avventura. Senza di esso la nostra missione vivente perde significato, direzione, speranza. Imparando (e insegnando) possiamo ancora segnare nuove strade, costruire futuri (e presenti) più felici, più ricchi di piacere, più degni della parte migliore di noi.
Attilio Scuderi, L’arcipelago del vivente
Alla vigilia del mio primo ingresso in classe da docente, qualche settimana prima dell’acquisizione dell’abilitazione, con un concorso superato ma non vinto alle spalle e un altro – con ogni probabilità altrettanto inconcludente – vicino a venire, mi chiedevo quali fossero le coordinate essenziali del mestiere che mi prestavo ad affrontare; e ho sentito una voce recitare così:
Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro:
- di esercitare la didattica in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento, contrastando ogni indebito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione […];
- di occuparmi di ogni studente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della formazione […]; – di perseguire con ogni studente una relazione di formazione fondata sulla fiducia e sul rispetto dei valori e dei diritti di ciascuno e su un’informazione, preliminare all’inizio dell’attività, comprensibile e completa, così da mettere l’attore dell’apprendimento al centro del proprio percorso di crescita, rendendolo, altresì, consapevole dei propri progressi […];
- di attenermi ai principi morali di umanità e solidarietà nonché a quelli civili di rispetto dell’autonomia della persona, lavorando per lo sviluppo di un pensiero critico e un’autonomia di giudizio […];
- di ispirare la soluzione di ogni divergenza di opinioni al reciproco rispetto[1].
Prestare soccorso al corpo di un uomo non è una responsabilità superiore a occuparsi della sua formazione culturale e personale, e come cittadino e come uomo. Allora perché esiste il Giuramento di Ippocrate, ma non un “Giuramento di Quintiliano”? Perché devo tradurlo, trasporlo da un ambito all’altro e non esiste bello e pronto? Come è possibile che la mia laurea quinquennale, divisa tra triennale e magistrale, i 24 CFU acquisiti, ora estesi a 60, quindi il superamento di un concorso, non siano condizione sufficiente all’acquisizione della cattedra? Ma soprattutto, come si spiega che questi requisiti vengano però considerati condizione assolutamente necessaria per questo lavoro, eppure io, come molti altri, abbia potuto ottenere un contratto di supplenza, fare ingresso in aula, esser chiamata “Professoressa” da alunni, genitori e colleghi, prima che un esame potesse attestare che fossi abilitata all’esercizio della professione? Tutto ciò non è contraddittorio?
Entrare in una classe da supplente espone forse a responsabilità minori rispetto a quelle di un docente di ruolo? Anche fosse per pochi giorni, siamo sicuri che questi non possano avere un’influenza positiva sulla crescita di un bambino, ragazzino, ragazzo, giovanissimo adulto? Se le lezioni tenute dal docente sostituto dovessero, come capita, venir ripetute dal docente di ruolo, che senso avrà avuto la sua presenza? Siamo forse meri guardiani delle classi che “non possono rimanere scoperte”?
L’insegnamento: vocazione tradita o sfida da riscoprire?
L’insegnamento sembra spesso il piano Z delle lauree deboli sul mercato del lavoro. Sembra sia la scelta più sicura in un mondo insicuro. Quanti professori frustrati, non portati per l’insegnamento, senza alcuna empatia abbiamo incontrato? Forse per tale ragione è oggi tanto difficile il percorso di avvicinamento all’insegnamento: solo un’intensa motivazione, oserei direi una profonda aspirazione alla realizzazione di un sogno, può spingere ad affrontare un precariato duro da superarsi. L’idea che un neolaureato possa partecipare a un concorso accanto a insegnanti dal pluriennale servizio scolastico mi sembra tanto assurda da trovarmi ad ammettere, dinnanzi ai miei stessi “rivali”, di considerare ingiusta l’ipotesi di una mia vittoria di fronte alla loro esperienza.
Oggigiorno un aspirante docente non è più chiamato a trasmettere contenuti disciplinari, ma a destreggiarsi tra competenze chiave per l’apprendimento permanente e obiettivi di apprendimento, tra leggi e direttive ministeriali, come se studiare per fare l’insegnante fosse solo mettere spunte a una lista. La corsa al ruolo impone l’acquisizione di un sapere enciclopedico, di una conoscenza mnemonica e nozionistica impossibile quanto dannosa.
Dalla prova concorsuale D.M. 205/2023:
I compiti autentici richiedono agli studenti di utilizzare in situazioni reali le conoscenze e le abilità acquisite. Perché tale strumento sostiene la motivazione degli studenti, chiamati ad affrontare un compito complesso?
c. Perché potenzia la motivazione intrinseca, facendo comprendere la rilevanza di tale attività nel loro percorso educativo e di vita.
Si richiede ai docenti di dare spazio all’individualità del discente, di valorizzarne la personalità e guidare verso l’acquisizione di valori, prima che di contenuti. I concorsi banditi si fondano su prove d’esame che avrebbero l’intenzione di selezionare docenti capaci di gestire questo modo di insegnare e apprendere, ma finiscono soltanto per verificarne le conoscenze tramite l’estrazione improvvisata di domande disciplinari e le capacità di relazione attraverso un questionario. Così la competenza personale, la competenza sociale e la capacità di imparare a imparare, indicate dalla Raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, diventano mere cornici dal contenuto inesistente. In una dilagante semplificazione dei concetti si crede che banalizzare sia l’unica via d’accesso per l’apprendimento. Si proclama la centralità dei discenti, ma non li si aiuta a sviluppare un pensiero critico, a diventare donne o uomini consapevoli e con una salda autonomia di giudizio.
Essenza didattica: la voce del docente
«Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive», così scriveva Leopardi ne La ginestra o il fiore del deserto. Non diversamente da allora il nostro è «secol superbo e sciocco», che crede che le grandiose innovazioni in ambito informatico possano costituire la via maestra per catturare l’interesse di studenti sempre più refrattari alla concentrazione e all’approfondimento, abituati a letture veloci e fatte di click.
Ma siamo sicuri che il progresso sia efficiente? Siamo sicuri che il dilagare delle tecnologie informatiche in ambito didattico e le metodologie innovative siano l’unica modalità di comunicazione? È davvero necessario delegare a PowerPoint e ai dispositivi elettronici le nostre spiegazioni, per catturare l’attenzione e la curiosità degli studenti?
Sostituire la figura umana non è auspicabile, eppure è ciò verso cui sembriamo inesorabilmente procedere. Ma le TIC rappresentano un ausilio, non lo strumento: è la voce del docente lo strumento, è l’animo dell’insegnante l’unica via per un apprendimento significativo. Come ha ricordato il Professore Andrea Manganaro nelle sue lezioni e al convegno “Lo scrittoio delle donne” tra Verismo e Postverismo: intellettuali, scrittrici, pubbliciste, drammaturghe, tra Otto e Novecento (1850-1922): «l’insegnante non svolge un ruolo, incarna una funzione». Prima di trasmettere contenuti, è necessario ne abbia interiorizzato i valori, solo così potrà davvero insegnare, nel senso di “lasciare il segno”. Caratteristica essenziale per essere docente, la sua conditio sine qua non, è quella d’essere appassionato e appassionante, di essere in grado di lasciarsi stupire ancora dagli argomenti del suo campo di studi: solo così potrà far toccare con mano ai suoi studenti la meraviglia dello studio a cui sono chiamati.
So di voler sapere
Non l’ipse dixit dovrebbe, difatti, valere nelle aule, quanto il “so di non sapere”. Nemmeno l’insegnante sa tutto. E questo non è un pretesto per scalfire la sua funzione, ma un atto di umiltà e di rispetto verso lo studente. Un rapporto di reciproca fiducia e crescita. Nemmeno io so tutto, anche io studio ancora. Io il giorno prima, tu il giorno dopo la lezione: questa è l’unica differenza. E studio ancora quando tu, alunno, mi fai dubitare della mia visione, quando avanzi una nuova interpretazione, alla quale sarà mio compito prestare attenzione, per valutarne la maggiore o minore validità. Fatta presente agli studenti, questa disponibilità al confronto consentirà loro di avere un’arma per metterci in difficoltà, cercando di indagare dove arrivi la nostra conoscenza. Oppure farà loro comprendere che non si smette mai di imparare, farà apprezzare la sincerità e acquisire un metodo di indagine.
Il professore di scuola ha un compito molto difficile: interiorizzare ciò che ha appreso nei suoi anni da studente ma, piuttosto che trasmetterlo agli allievi, ridurlo alla condizione di strumento invisibile[2].
L’insegnante ha una missione, e incorre in un paradosso: conclude il suo lavoro quando i discepoli non hanno più bisogno di lui. E non perché sapranno tutto, ma perché avranno bevuto così tanto da non dissetarsi mai fino in fondo. Come chi ama non è mai stanco di vedere la persona amata.
Così è la conoscenza: più si conosce, più si sente di dover scoprire, perché questa altro non è se non la capacità di meravigliarsi dinnanzi alle cose, ricercandone l’origine e le cause.
È indispensabile non dimenticare che si studia, si ricerca e si continua a farlo, non per sé e per accrescere la propria cultura, ma per donare la propria conoscenza. E non elargendo verità oracolari, ma dispensando metodi. Insinuando dubbi, non regalando soluzioni. Il fine di un insegnante è quello di consegnare strumenti per lasciar libero lo studente di esplorare da sé il mondo che lo circonda, con occhi attenti e orecchie aperte, non smettendo mai di ricercare, perché il mondo è tanto vasto che, di quel che è stato scritto e detto, ciò che si può comprendere è così infinitesimale che non si potrà mai credere di sapere tutto. C’è sempre qualcosa di cui meravigliarsi.
Entrare in classe: l’insegnante custode della crescita
Varcare la soglia di una classe significa entrare in un mondo sconosciuto, un universo fatto da tanti piccoli pianeti, ognuno con il proprio moto, ma entro un medesimo sistema. Così, l’unica via per un apprendimento significativo non può che essere dare valore all’animo dell’insegnante: un animo flessibile, disponibile a non fermarsi alla propria progettazione didattica, ma aperto a captare i bisogni della propria classe, tanto degli stili di apprendimento e predisposizioni, quanto delle situazioni contingenti e delle singole aspirazioni e preoccupazioni. Non esiste una metodologia valida per ogni classe e in ogni occasione, ma essa va calibrata e rivisitata di momento in momento.
Entrare in una classe è un privilegio. Poter osservare i ragazzi crescere, formarsi, esser parte delle loro scoperte, guida al loro formarsi, spettatori della piena realizzazione della loro personalità è un onore. Prendiamocene cura.
[1] Giuramento di Ippocrate – rivisitazione in chiave didattica.
[2] C. Todorov, La letteratura in pericolo, trad. it. di E. Lana, Garzanti, Milano, 2020, p. 32.
Articoli correlati
Nessun articolo correlato.
-
L’interpretazione e noi
-
Auerbach contro Bachtin
-
Le Labour narratives
-
Il polveroso splendore. Sandro Penna nel teatro di Elio Pecora
-
Il realismo obliquo nel romanzo italiano degli anni Trenta. Per lo studio di una contraddizione narrativa. Michela Rossi Sebastiano dialoga con Federico Masci e Niccolò Amelii
-
-
La scrittura e noi
-
Perché leggere “La dismissione” di Ermanno Rea
-
Proposte per giovani lettori. “Piccoli Mondi” di Cale Azumah Nelson
-
Rileggere Stanislaw Lem 3. Ritorno dall’universo: «hanno ucciso l’uomo… nell’uomo»
-
“Figlia mia. Vita di Franca Jarach, desaparecida” di Carlo Greppi – Un estratto
-
-
La scuola e noi
-
IN-SEGNARE, oggi
-
Invalsi fra Big data e Data Despota
-
Sgamare stanca (e forse non serve)
-
L’eroismo del precario: “Oltre l’ora di lezione” di Jacopo Zoppelli
-
-
Il presente e noi
-
Due film di luce e oscurità nella Germania nazista
-
Su Adolescence/2. Per una recensione di Adolescence
-
Su Adolescence/1. Sì ho visto Adolescence e ce l’ho ancora piantato nel cervello
-
Sopravvivere alla propaganda. La guerra al pensiero nell’Europa bellicista
-
Commenti recenti
- Armiamoci e partite. Sulla mediocre pedagogia della «necessità storica di difendere l’Europa» – Le parole e le cose² su Sopravvivere alla propaganda. La guerra al pensiero nell’Europa bellicista[…] o metaforico – a un kit di sopravvivenza all’invasione militare. Sto parlando ovviamente del…
- Matteo Zenoni su Sgamare stanca (e forse non serve)Ho letto con attenzione l’articolo e ho apprezzato l’approfondita indagine che ha compiuto, in senso…
- LUCIA MATERGI su Il realismo obliquo nel romanzo italiano degli anni Trenta. Per lo studio di una contraddizione narrativa. Michela Rossi Sebastiano dialoga con Federico Masci e Niccolò AmeliiLa panoramica delineata è molto efficace per disegnare un quadro poco indagato e necessario, invece,…
- Gabriele Piras su Storia di un impiegato. Il ’68 di Fabrizio de Andrédi tutto ciò che ho letto, con affanno, di De Andrè per capire come mai,…
- Eros Barone su Si vis pacem para bellum? Sulla manifestazione del 15 marzoL’iniziativa militare della Russia di Putin e l’iniziativa politica degli Stati Uniti di Trump dimostrano…
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Lascia un commento