
Disegnare un elefante di Marco Vacchetti
La scuola come “mammifero coriaceo”
Disegnare un elefante (Einaudi) di Marco Vacchetti, professore di materie umanistiche presso il Liceo D’Azeglio di Torino, ha un titolo azzeccato e un sottotitolo un po’ fuorviante. Il sottotitolo, L’insegnante di liceo come professione, limita la portata del libro, capace di parlare di scuola in modo preciso ma non specialistico, nonché di suscitare un interesse più ampio rispetto a quello dei soli docenti liceali o aspiranti tali. L’elefante del titolo, che campeggia anche in copertina, è quello di un antico apologo buddista, che racconta di come il grande mammifero, avvicinato e tastato da sei ciechi, venisse poi descritto nei modi più diversi sulla base dell’esperienza limitata di ciascuno degli uomini che aveva potuto toccare l’animale solo per poco e non per intero.
Se la saggistica italiana oggi propone spesso analogie deboli e non debitamente approfondite, la metafora che paragona la scuola italiana a un mammifero coriaceo (e non in una chiave lamentosa) viene ben giustificata da Vacchetti. Come per l’elefante dell’apologo, anche in nome della scuola italiana voci diverse per interessi e valori si levano per tentare una definizione che, se risulta soddisfacente per chi la formula, può non collimare con le definizioni che potrebbero darne altri a partire da premesse diverse; che ciò nel discorso mainstream accada solo in prossimità di un’elezione o di un eccezionale evento di cronaca la dice lunga sull’interesse dei governi e dell’opinione pubblica per la gestione ordinaria del comparto istruzione, il vero elefante nella stanza.
L’esperienza di frequenza e lavoro alla scuola primaria non sarà la stessa della secondaria. La scuola al Sud o al Nord, in paese o in città (al centro o in periferia), sulle isole o in montagna, avranno molte cose in comune e molte differenze. Le idee di scuola formatesi negli alunni o nei genitori, nei dirigenti o nel personale scolastico potranno essere simili, confrontabili, addirittura convergenti, ma non coincidenti. Quanto diverge la scuola immaginata dagli uffici del Ministero da quella indirizzata dalla routine di una segreteria scolastica (e quella realizzata in classe da quella che risulta alla stessa segreteria…); quella che si fa nelle aule scolastiche, e diversamente in ogni aula, da quella di cui si discutein quelle parlamentari. Per non parlare dell’immagine che possono farsi persone che con la scuola non hanno niente a che fare da tempo. Quante versioni dello stesso elefante e quanto diverse! Sfruttare questo scacco definitorio per cominciare il proprio ricamo argomentativo è già un segnale di equilibrio, che fa capire subito al lettore, anche a quello che a scuola ci va ogni giorno (ma nella “sua” e nelle “sue” classi), quanto sia mossa e difficile da contornare la sagoma che spesso si pretende di descrivere a colpi di frasi fatte. In questo senso trovo molto ragionevole il tentativo di Vacchetti di fornire una descrizione positiva – nel senso di descrivere quel che già c’è per come si presenta all’osservatore – della scuola italiana, invece di un’ipotesi normativa.
L’importanza di cambiare le lampadine
Lo spirito di Vacchetti è simile a quello del naturalista-esploratore ottocentesco, che ha bisogno innanzitutto di descrizioni affidabili. Notevole a mio avviso è il primo capitolo del libro, che propone un viaggio nella scuola italiana attraverso i cinque sensi, restituendo dignità letteraria a molti dettagli fisici della vita scolastica, spesso tralasciati anche dalla nostra migliore narrativa sul tema. Penso all’analisi cromatica della scuola fatta da Vacchetti nel paragrafo dedicato alla vista: «Anche le luci, che spiovono mestamente dall’alto dei soffitti nelle buie mattinate d’inverno, sono quasi sempre squallide. Neon gelidi e tremolanti che esaltano il pallore di discenti e docenti e inondano di anonimato l’ambiente» (25-26).
Se nella vita in cattedra è facile farsi prendere dalla demoralizzazione e dallo sconforto, sentimenti legittimi che inducono spesso a vagheggiare riforme palingenetiche, più difficile è tirare le briglie al disfattismo, fermarsi e riconoscere che non tutto è da buttare o da rifare da capo; capire cosa potrebbe funzionare meglio, ma soprattutto come farlo funzionare meglio: i piccoli cambiamenti incrementali, infatti, oltre a essere applicabili in modo più verosimile, hanno più chance di raggiungere un obiettivo condiviso dagli attori coinvolti rispetto a madornali ricette ope lege, la cui ambiziosità è spesso inversamente proporzionale alla possibilità di una concreta messa in atto e i cui benefici reali sono sempre meno di quelli attesi.
Vacchetti comunque non disconosce la necessità di riforme o l’esistenza di numerose criticità del nostro sistema scuola e non paventa ricette veloci e di facile applicazione, ma propone implicitamente un’etica che mi ha ricordato una bella pagina della Prevalenza del cretino di Fruttero & Lucentini, nella quale si descrive la macchina della giustizia italiana come, ehm, un pachiderma. Il pretesto del pezzo di F&L riguarda i processi giudiziari italiani, che spesso venivano (e vengono tutt’ora, temo) rinviati non a causa di deliberati e malvagi complotti, ma di vizi di forma o di intoppi pratici come la mancanza di un segretario:
Dovunque, in qualsiasi organismo burocratico, tutto può incepparsi a ogni momento per cause che non hanno nulla di diabolico, banalissime, ridicole addirittura. Uno scaffale sostituito. Un telefono non installato. Una crepa nel soffitto. Un’infermiera o dattilografa ammalata. Una lampadina fulminata. Qualche topo. Qualche scarafaggio. Quando si leggono dotti interventi sulla riforma costituzionale […] e di altri «massimi sistemi», e si sente da più parti parlare di «senso dello Stato», viene da domandarsi se il senso dello Stato, questo bene perduto e inafferrabile, non partisse appunto da qui, da questi dettagli umili e decisivi, dal segretario che era chissà come sempre al suo posto, dalla lampadina che qualcuno provvedeva chissà come a sostituire. (1985, 121-122).
Posto che il famigerato “senso dello Stato”, qualunque cosa esso cosa sia, è spesso vilipeso in primo luogo da chi lo Stato è chiamato a rappresentarlo nelle sue massime cariche, è difficile, credo, per chi lavora a scuola non trovare un nocciolo di verità in parole come queste. È facile profezia, infatti, sostenere che finiti i finanziamenti a pioggia del PNRR, che gli istituti cercano di accaparrarsi prima ancora di capire se e come poterli impiegare, si tornerà alla solita vecchia scuola italiana, in cui ancora oggi è possibile avere il sapone o, per usare un’immagine meno usurata, i cavi per la lavagna elettronica a giorni alterni; o ancora fare una trafila kafkiana per acquistare materiali di uso corrente o per portare gli alunni in visita nella biblioteca di quartiere.
Vacchetti mette ben a fuoco alcune delle variabili che nel meccanismo scolastico scoraggiano l’assunzione di responsabilità diretta in ogni ramoscello dell’organigramma, anzi, del funzionigramma:
Per ogni minuzia che comporti una decisione fioriscono commissioni e comitati, collegi e consigli. Si discute a lungo e infine si vota, in modo che il peso di qualsivoglia risoluzione sia collettivo. Responsabilità di tutti, colpa di nessuno. Falso garantismo. Il risultato normalmente è un grigio compromesso, due volte su tre poco funzionale» (154).
Siamo già con entrambi i piedi nella distopia satirica immaginata dallo scrittore Augusto Frassineti in Misteri dei Ministeri (Einaudi 1973), nella quale per riformare l’apparato ministeriale si propone di creare un nuovo ministero apposito, incoraggiando così la proliferazione ad infinitum dei cascami burocratici.
La responsabilità di rendersi superflui
Grande parte dello sforzo di Vacchetti risiede nella volontà di fornire una descrizione analitica dello stato di cose in materia di scuola senza rinunciare a incursioni più personali, ma esibendo spesso dati e statistiche che non diventano il mezzo per dimostrare tesi ulteriori, ma uno strumento messo in mano al lettore per inquadrare certi fenomeni nei loro contorni e nelle loro proporzioni corrette. Si tratta di dati semplici ma comunque utili, che possono riguardare il numero totale degli studenti e degli insegnanti in Italia, la loro distribuzione nei diversi gradi e ordini di scuola, il numero di insegnanti per alunno e il salario medio dei professori rispetto ad altri paesi europei, o altre cose così. Come suggeriscono i titoli dei capitoli centrali del libro, Frasi fatte e modi di dire e Una selva di luoghi comuni, una descrizione potrà essere tanto più efficace quanto più punterà, più che sulla spasmodica ricerca dell’originalità, su una riedizione credibile di determinati contenuti, il più possibile liberati dalle incrostazioni della lingua e del pensiero.
Non mi dilungo sugli aspetti più prettamente didattici del libro, se non per notare che anche qui Vacchetti mantiene un atteggiamento improntato a un induttivismo che parte da casi particolari per astrarre qualche consiglio di buon senso. Mi limito a un esempio di una banalità così allarmante da passare in genere inosservato: l’autore nota che tutte le indicazioni (le famigerate linee guida) sul contenuto delle progettazioni di materia, educazione civica compresa, si sovrappongono una legislazione dopo l’altra senza tener conto che il monte ore resta, nei casi più fortunati, sempre lo stesso, quando invece sarebbe più intelligente chiedersi cosa è verosimile e sensato poter insegnare nel tempo realmente disponibile.
Disegnare un elefante è insomma un affidabile vademecum per insegnanti, studenti e lettori interessati, scritto con una lingua chiara e con un senso di understatement che permea tutto il libro (poche le autorità citate, e discretamente). Nutro invece qualche perplessità sulle conclusioni del volume, che, come nota l’autore, non possono essere davvero tali, non avendo egli una tesi forte da difendere. A maggior ragione, ripercorrere in modo corsivo temi molto complessi come l’effetto dei nuovi media sulle agenzie educative tradizionali espone chi scrive al rischio di dire banalità o di ricorrere senza volerlo a luoghi comuni in sospetto di veteroumanismo – cosa che Vacchetti si guarda bene dal fare per tutto il resto del libro. Senza scomodare le teorie di Illich sulla descolarizzazione, anche la proposta di una scuola permanente, post-obbligo e non finalizzata al mestiere, rischia di sottovalutare le offerte formative più o meno formali già operanti sul territorio e il fatto che uno dei pregi della civiltà di oggi, se ce n’è uno, è quello di poter coltivare pressoché qualsiasi curiosità in maniera autonoma e spesso economica, scegliendo da sé le proprie fonti, i propri modi e i propri tempi; da ultimo, che molte cose, e non fra le meno importanti, si imparano fuori da scuola. Come scriveva Giuseppe Pontiggia, citando Bartolomé de Las Casas: «Il compito di ogni vera educazione è di liberarci da quella che abbiamo ricevuto».
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