Oggetti dismessi tra incendio e rinascita – Sul romanzo d’esordio di Michele Ruol
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol può essere definito un interessante esempio di “resistenza” nel mondo ipertrofico e spesso effimero della narrativa odierna: pubblicato da una piccola casa editrice indipendente – Terrarossa – e uscito in libreria lo scorso aprile, il romanzo ha registrato una crescita di interesse culminata in una serie di riconoscimenti giunti tra la primavera e l’estate. A sette mesi dalla pubblicazione questo esordio continua, insomma, a interessare librerie, circoli di lettura, scuole.
I motivi di interesse dell’opera sono senz’altro più d’uno, percepibili sia nelle zone soglia che nelle sue qualità strutturali.
Soglie
Il primo punto di osservazione sul libro è senz’altro costituito dalle soglie paratestuali e dal loro reciproco corrispondersi. La parola chiave del titolo è “inventario”, termine che designa un’operazione che si svolge generalmente per fare il punto su cosa sia rimasto e cosa si sia venduto in un negozio o in un fondo archivistico o biblioteconomico. In qualche misura l’inventario è dunque tenuto a restituire, nel primo caso, l’idea di completezza di un insieme di oggetti e, nel secondo, l’idea di un’appartenenza di quegli oggetti a un ente o un luogo. Generalmente nelle scritture letterarie l’inventario rinvia alla tecnica narrativa della descrizione, alla pratica discorsiva dell’accumulo, alla figura retorica dell’enumerazione: è un espediente – frequente nella narrativa realista – che investe generalmente il vettore dello spazio e che rallenta il ritmo narrativo. Ruol lo usa realizzando, viceversa, una sorta di cortocircuito: questo inventario va di pari passo con un ritmo temporale che è quello dell’elaborazione di un lutto – e i sintagmi “dopo” e “quel che resta” vanno nella direzione di un tempo postumo e residuale – che richiederà al lettore continui saliscendi temporali tra passato e presente. Significativi, in questo senso, i passi iniziali di ogni sezione del libro, dedicati alla presentazione delle stanze che verranno passate in rassegna nelle pagine successive, come “camera di Minore”:
Un grosso alone scuro si allarga sul soffitto, disegnando i confini di un continente emerso con l’abbandono. L’intonaco si è sollevato in più punti, creando crateri e catene montuose; sul resto prevalgono le gradazioni dal verde al marrone dei boschi di muffa lussureggiante. L’umidità di condensa in gocce che si staccano dal soffitto e, pochi metri più sotto, si raccolgono in un minuscolo lago artificiale, sorto nel vano per la carta della stampante. (M. Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, Terrarossa, p. 52)
L’immagine di copertina – di Francesco Dezio – dà rilievo cromatico alla presenza del fuoco che, nel corso della storia, divamperà; completa il disegno la sagoma di due ragazzini che si librano nell’aria e che sprizzano leggerezza, gioventù, voglia di vivere mentre sullo sfondo si stagliano le sagome scarnificate degli alberi di un bosco bruciato. Le tonalità del blu e dell’indaco, spruzzate di faville argentee, unite al rosso-giallo del fuoco fanno prevalere il senso di vitalità sull’idea della morte.
Infine le due citazioni in esergo, rispettivamente da “Aspettando Godot” di Beckett e da “La realtà esige” di Szymborska, alludono, come accade nel libro, al passaggio dalla disperazione della perdita (il primo) all’ approdo a una nuova possibilità di vita (la seconda).
Scomposizione e ricomposizione della storia e della vita domestica
Per quanto riguarda lanatura e la struttura dell’opera, siamo di fronte a un romanzo i cui personaggi vengono chiamati con il ruolo che impersonano – Madre, Padre, Maggiore, Minore.
La narrazione è divisa in due sezioni – Casa e Automobile – e ciascuna di esse è a sua volta dedicata rispettivamente alle sue stanze (nell’ordine: ingresso, cucina, salotto, terrazza, camera di Minore, corridoio, camera di Maggiore, sgabuzzino, bagno, camera matrimoniale, garage) e alle sue parti costitutive (bagagliaio, abitacolo, tettuccio). L’una e l’altra vengono via via scomposte nella miriade di oggetti inventariati che, nella loro apparente insignificanza, costellano la vita di questa (come di ciascuna) famiglia. A ogni oggetto – sono 99 in tutto – Ruol riserva un numero, che diventa il modo con cui dà progressione ai capitoli. Il montaggio di ogni singolo capitolo-oggetto mira alla ricomposizione della storia di una famiglia – una famiglia comune, certo non perfetta né idealizzata – e del terribile lutto che apre una voragine: quella di due genitori che perdono entrambi i figli adolescenti in un incidente d’auto. Sullo sfondo di un dolore immedicabile, stanno la sopravvivenza, inizialmente insensata, di Padre e Madre, la storia delle loro vite che sembrano andare a rotoli sia individualmente che come coppia. Al contempo, si snodano, per frammenti, tanto la vicenda processuale, necessaria a fare chiarezza sulla dinamica dell’incidente in cui resta in vita un amico dei ragazzi, quanto la lenta riconquista di un nuovo modo di vivere la coppia: esemplare, a questo proposito, il frammento n° 67, tratto dalla sezione riferita al garage e che si intitola “sacchetto della spesa in tela cerata”:
Da quando Padre era tornato al lavoro avevano ripreso una vecchia abitudine che si era interrotta con l’incidente: la spesa del sabato mattina.
Era un piccolo rito laico che avevano quasi dimenticato. Padre teneva sempre una moneta per il carrello vicino al cambio; Madre prendeva dal garage l’Arcimboldo del supermarket – un sacchetto verde con fotografie di frutta e verdura assemblate in modo da formare dei volti. […]
Così capitava che mentre vagavano per le corsie si mettessero a fare programmi per la serata – potremmo cucinare, potremmo vederci un film, potremmo uscire. A volte i programmi si estendevano alla settimana intera – hanno inaugurato quella mostra, potremmo andare a Venezia. Se la spesa era sufficientemente lunga, erano capaci di uscire con una bozza di programma per l’estate – potremmo tornare in Marocco. […] Non sempre realizzavano quello che avevano immaginato tra il banco della carne e il reparto ortofrutta. In ogni caso […] per il resto della giornata li avrebbe accompagnati un senso di benessere, legato all’essere ancora capaci di immaginare un futuro. (pp. 143-144)
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è narrato in terza persona e il processo scompositivo della trama in frammenti oggettuali mira a creare una distanza tra la materia tragicamente incandescente che si racconta e l’immedesimazione emotiva nella vicenda: la voce sembra, cioè, essere impersonale e asettica ma proprio nel momento in cui oggetti apparentemente insignificanti – mattone forato, toner esaurito, aspirapolvere a traino, raschiaghiaccio, termometro a pile – di cui ogni casa o ogni auto è piena – divengono centro radiante di una scheggia di vita domestica, ecco che quella voce trasmette un tono, un timbro che le fanno perdere freddezza e distacco. Esemplare, a questo proposito, è la chirurgica ma dolente precisione con cui Ruol rappresenta la difficoltà, per la donna, di vivere la maternità. Ricorrendo al campo metaforico dell’alluvione, ne mette in rilievo le rinunce personali (gli studi interrotti), la solitudine e la fatica che costellano le lunghe giornate con i due piccoli – nati a un anno di distanza l’uno dall’altro -, il progressivo allontanamento da Padre. I capitoli 15 – “tappeto Yalameh rosso e blu” – e 19 – “aspirapolvere a traino” si richiamano l’un l’altro:
A fine giugno era nato Minore. […] C’erano momenti della giornata in cui in casa tornava il silenzio. Dopo pranzo e dopo storie interminabili, Maggiore si addormentava per un’ora e mezza, forse due. Minore si attaccava al seno e crollava in un sonno soddisfatto. Madre si guardava intorno. […] Adagiava Minore nella culla, si stendeva sul tappeto e, con le tempie che pulsavano fissava il soffitto, aspettando che venisse inondato di lacrime. Voleva rimanere in quella posizione per sempre, voleva che i bambini non si svegliassero mai. […] Padre non si era accorto di niente: durante il giorno era sempre in ufficio, quando tornava a casa non era capace di riconoscere le tracce dell’alluvione passata.
I danni erano evidenti: rughe profonde erose dalle lacrime e occhiaie come macchie di muffa verdognola. Ma bastava una mano di fondotinta, perché a uno sguardo superficiale sembrasse tutto a posto. (pp. 34-35)
Madre aveva incontrato la psicologa a intervalli regolari per cinque anni, fino a quando le piene si erano diradate. Di quegli anni era rimasto questo: quando Madre passava l’aspirapolvere in soggiorno, si avvicinava al tappeto con molta cautela. Come se fosse un alveo vuoto, che conservava tra gli argini l’acqua passata e i suoi detriti. (p.43)
Tra i punti di forza del romanzo, quello relativo allo stile è indubbiamente tra i più rilevanti: già avvezzo alla scrittura per il teatro, Ruol trasferisce sulle pagine del suo romanzo d’esordio un modo scabro e asciutto, trattenuto e monocorde ma molto coerente con la distanza tanto dal patetico quanto dall’anafettivo cui aspira e che mostra di saper raggiungere.
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