Magnifico e tremendo stava l’amore. Intervista a Maria Grazia Calandrone
Dopo Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021) e Dove non mi hai portata (Einaudi, 2022; su questo blog se n’è parlato qui), Maria Grazia Calandrone, poeta, firma il suo terzo libro di narrativa: Magnifico e tremendo stava l’amore (Einaudi, 2024). Il racconto muove da un caso giudiziario clamoroso, destinato, come si dice, “a fare giurisprudenza”: Luciana Cristallo, dopo venti anni di violenze inflittele dal marito Domenico, lo uccide a colpi di coltello. È il 27 gennaio del 2004. Il 22 aprile 2014, dopo un lunghissimo processo, arriva per Luciana la sentenza definitiva di assoluzione.
Luciana e Domenico si erano conosciuti giovanissimi nell’estate del 1982, a Copanello, sul litorale calabrese: lei diciassettenne studentessa in un liceo classico romano, in villeggiatura dai parenti, lui ventitreenne figlio unico di un ricco maggiorente del posto. Lei tenuta a bada come una bambina, lui “piccola autorità locale”. Famiglia tradizionale e tradizionalista quella di lei, famiglia anomala la sua: la donna in casa della quale è cresciuto non è sua madre, il padre lo ha concepito con una cameriera. Finite le vacanze, iniziano i viaggi di Domenico tra Catanzaro e Roma, poi la fuga, il matrimonio, i figli; le difficoltà economiche: Domenico ha tante iniziative, spesso velleitarie, nessuna vincente. E non tollera che la moglie, di iniziative, prenda le sue, che lo surclassi, che perda fiducia in lui, in loro. Iniziano le violenze, reiterate. Le separazioni, le riconciliazioni. Le denunce e il perdono. Ma quando finalmente per Luciana la vita sembra aprirsi a un nuovo corso – un lavoro, un’altra casa, un altro amore -, la donna accetta di incontrare Domenico ancora una volta: è pur sempre il padre dei suoi figli – e uno di loro ha rifiutato di vivere con lei. La situazione degenera, lui la aggredisce, Luciana afferra il coltello che è sulla tavola per la cena e lo colpisce. Il nuovo compagno la aiuta a far sparire il corpo, lo gettano in mare. Il mare però lo restituisce. Inizia il processo; che si conclude con la sentenza memorabile.
Maria Grazia Calandrone accede agli atti processuali e, attraverso quelli, cerca di ricostruire “le motivazioni umane e legali di una sentenza tanto d’avanguardia” (così sulla quarta di copertina). Ma la sua è anche una ricostruzione importante di quel trentennio che conduce al berlusconismo un’Italia abbindolata dall’edonismo reaganiano degli anni Ottanta. Anche in questo libro, come in quello del 2022, la vicenda privata non è proiettata su un generico sfondo databile tramite canzonette, prodotti d’epoca e nomi dei vip della politica e della TV, ma intessuta su quel telaio. Al contempo, tuttavia, essa si sottrae alla cronaca, generando le domande che – in realtà – sono sottese all’esistenza di ciascuno, “in sé magnifico e tremendo”. Alcune di queste domande le ho rivolte direttamente all’autrice.
D1: Esiste un nesso (apertamente dichiarato) che lega Maria Grazia Calandrone, figlia di una donna vittima di violenza e suicida, a Luciana, vittima a sua volta e omicida. Ma, se questa è la motivazione iniziale che mette in moto l’indagine, la narrazione assume poi un andamento singolare e diventa ricerca delle ragioni profonde della violenza – della violenza tout court, si direbbe, e non solo di quella di genere. Quali sono queste ragioni?
R1: Quando ho cominciato a scrivere il libro ero certissima che avrei parteggiato per Luciana, la donna che subisce la violenza. Studiando le migliaia di pagine degli atti processuali, leggendo le interviste e guardando le trasmissioni dedicate alla tragedia, mi è sembrato di intercettare le motivazioni che spingevano Domenico a usare violenza sulla moglie. Ovviamente questo non significa che giustifichi le sue azioni, altrettanto ovviamente ciascuna storia è unica e diversa da tutte le altre, ma credo che solo indagando a fondo su cosa muova le mani degli uomini – di ciascun uomo – e su cosa indirettamente costringa le donne a rimanere loro accanto, possiamo intravvedere una soluzione al prodursi e riprodursi di queste dinamiche. Per questo motivo sono convinta che i centri di ascolto per uomini abusanti, nati e diffusi nel nostro Paese da neanche un decennio, siano un forte impulso verso un futuro più equilibrato. La sola rivoluzione riuscita, quella femminista, ha portato le sue conseguenze: uomini impreparati all’autonomia delle loro compagne, che reagiscono con violenza alla libertà altrui.
D2: Lungo la retta su cui si snoda il racconto – dall’innamoramento alla eliminazione della persona amata – il primo segmento, assai articolato, si intitola “Ciascuno in sé magnifico e tremendo”: chi vi si addentra, vi legge chiaramente il rifiuto risoluto a parteggiare, a formulare condanne senza appello – verso l’uomo violento come verso la donna omicida. È evidente, piuttosto, un impegno tenace a comprendere quel che di magnifico e tremendo ciascuno porta dentro di sé. Di cosa è fatta questa sostanza? C’è per tutti e tutte noi?
R2: Credo che noi tutti conteniamo ogni male e ogni bene. Credo che accogliere l’altro sia il risultato di una decisione prima e di un esercizio quotidiano poi, perché credo che siamo naturalmente portati ad attaccare chi minaccia i nostri confini o le nostre proprietà. E Domenico, come tanti uomini della sua generazione, intendeva il corpo e la vita di Luciana come una proprietà di sua competenza. Sua di Domenico, urge e addolora doverlo specificare.
D3: Ci sono due pagine, quasi centrali nel libro, intitolate “Produci vita dai tuoi rifiuti” (pp.131-132). Non è esattamente un altro modo di dire “Dal letame nascono i fior”: nessun fiore sembra sbocciare, in realtà, dalla violenza reiterata, dalla vergogna, dalla rabbia. Piuttosto sorgono alcune domande:
Torniamo alla domanda delle domande, con la quale la storia di queste due creature, abbandonate in sé, ci ha interrogati all’inizio. È veramente vero che, al primo sguardo, sappiamo sempre e immediatamente cosa aspettarci dall’altro?
L’insulto ci prende alle spalle mentre passeggiamo sul lungolago domenicale che riteniamo essere la nostra vita, o siamo noi a scegliere la terra dell’ombra, quei rami secchi e duri abbandonati dietro le apparenze, di nascosto dalla nostra coscienza?
(…)
Quanta morte è nascosta nell’amore che crediamo di provare, quanta lotta di bestie preistoriche, che urlo primigenio dentro il sorriso che rivolgiamo a un uomo, il giorno stesso in cui lo scegliamo?
Le ho trovate vitali, le domande più vitali che mi venissero in mente da tempo. Sono queste le domande che hanno generato quel titolo? Sono queste le domande che ci fanno vivere, produrre vita?
R3: Sono queste – e altre simili – le domande che hanno generato il libro, che è dovuto alla volontà di comprendere cosa, quale intuizione o quale cecità, invece, spinga una vittima fra le braccia del suo carnefice (sebbene nel libro non è chiaro chi sia il carnefice), cosa spinga una coppia a rimanere nella desolazione e nella tragedia, cosa li spinga a non dividersi, a non riprendere ciascuno la propria bella vita, la vita alla quale tutti avrebbero diritto, nascendo.
D4: Anche questa indagine, come già accade in Dove non mi hai portata, conduce a “Le cose come stanno”, a un tessuto nel quale nitidamente si vede l’intreccio di trama e ordito, di fatti, azioni, reazioni; sustanze e accidenti e lor costume. È un punto d’arrivo o un punto di partenza?
R4: Credo sia tutto scritto nella realtà. A un certo punto del libro c’è una specie di ricettina di scrittura, che esprime proprio questo concetto: raccogliamo i fatti, i dati, e lasciamoli agire fra di loro, mentre noi viviamo e apparentemente pensiamo ad altro. Le cose si compongono, si illuminano una con l’altra – e allora ci sembra di capire la trama, possiamo mettere i fatti in un ordine logico, una conseguenzialità che – almeno per un poco – calma la nostra sete di comprendere il mondo.
D5: Maria Grazia Calandrone è una poeta; lo rimane anche quando non scrive precisamente versi. Ancora una volta la lingua della narrazione riceve un impulso (non la chiamerei torsione: non c’è niente di contorto in questo movimento) che spinge la sintassi nella direzione del verso, i vocaboli nella direzione della parola simbolica. Quanto costa, cosa comporta fare una “esposizione, quando possibile, poetica” (così nella quarta di copertina) di eventi che, almeno apparentemente, sembrano parlare esclusivamente il linguaggio del mondo ordinato a prosa?
R5: Tutto è poesia. Prendiamo Pasolini, poeta sempre, qualunque cosa facesse, nel bene e nel male. Che vuol dire poeta? Che aveva uno sguardo doppio: da una parte era un visionario (mitopoietico, nel caso suo), dall’altra un raffinatissimo analista delle cose reali (sociali, economiche, politiche). Visione e realtà stridono, se stanno nello stesso corpo. Quel suono che fanno è poesia.
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