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diretto da Romano Luperini

Lo scrutinio come precipitato di ossessione valutativa e burocrazia

Per fare uno scrutinio, ci vuole…
Oggi, per fare uno scrutinio, ci vuole: l’attribuzione del voto di comportamento; l’attribuzione dei voti nelle singole materie; l’attribuzione del voto trasversale di educazione civica; in seconda, la certificazione delle competenze in uscita, in coincidenza con la fine dell’obbligo scolastico (da quest’anno con un nuovo modello di certificazione: DM n. 14 del 30 gennaio 2024); nelle tre classi del triennio (per i feticisti del lessico delle riforme: secondo biennio + quinto anno), l’attribuzione del credito scolastico e formativo per l’Esame di Stato; la valutazione di due “spiriti”, lo spirito di collaborazione e lo spirito di iniziativa.

(Queste ultime due voci sono una specificità di recentissima introduzione nella mia scuola, ovviamente non generalizzabile all’intero paese. Tale sperimentazione non nasce comunque dal basso, ma è chiaramente ispirata alle proposte, nate in alto loco, di valutazione delle soft skills. Va precisato che la valutazione attribuita a questi due spiriti non faceva media con il resto e non era obbligatoria. I docenti potevano scegliere di non attribuirla: per la cronaca, io sono stato fra questi).

Griglie, indicatori, descrittori
Oggi si fa uso e abuso di griglie, che danno la presunzione dell’oggettività e l’apparenza di una valutazione non soggetta all’umoralità del valutatore. Negli scrutini della mia scuola ricorriamo a una griglia per la valutazione del comportamento con tre indicatori («Frequenza e puntualità»; «Rispetto delle regole»; «Interesse, partecipazione, impegno nelle attività in classe») e voti dal 5 al 10 per ciascun indicatore, per un totale di 15 descrittori.

Va poi aggiunta una seconda griglia, in realtà una semplice tabellina con le corrispondenze tra media dei voti e crediti per l’Esame di Stato, che serve per la “traduzione” tra i due parametri.

A volte bastano differenze di pochi decimi della media perché due studenti di pari capacità e merito si ritrovino in due fasce diverse, fatto che richiede aggiustamenti “ad occhio” dei voti dello studente nella fascia più bassa, per ripristinare un’equa e uniforme attribuzione del credito.

Per quanto riguarda la valutazione delle due soft skills introdotte nella mia scuola, esse vengono valutate come le altre competenze, ovvero ricorrendo a voci come “base”, “intermedio”, “avanzato”. Nonostante non concorressero al calcolo della media e nonostante qualche insegnante non le avesse valutate, il fatto stesso di trovare sul registro elettronico le caselle “spirito di collaborazione” e “spirito di iniziativa” ha costretto i consigli di classe a dedicare del tempo a una discussione condivisa su questa valutazione.

Ma è soprattutto la certificazione delle competenze della seconda ad essere particolarmente ponderosa e onerosa, giacché rappresenta una vera e propria seconda pagella. Il modello di quest’anno mi è sembrato il più vicino, finora, al quadro delle otto competenze chiave europee: è rispuntato anche quello «spirito di imprenditorialità» che il legislatore italiano aveva finora preferito tradurre appunto con «spirito di iniziativa».

Facciate gotiche

Il barocchismo di uno scrutinio del genere è evidente. Il tempo e la pazienza da contabili che richiede sono notevoli. Il rischio di errore materiale è alto. Come si produce un monstrum simile? Con la tecnica della decorazione della facciata di certe cattedrali gotiche: aggiungendo, anche a grande distanza di tempo, un altro archetto, un’altra statua, un altro bassorilievo, senza togliere mai nulla. Lo scopo è perfezionare e abbellire; l’effetto è inevitabilmente il sovraccarico e la perdita di equilibrio dell’insieme.

Nel caso della valutazione scolastica, le tendenze storiche, le forze politiche, i soggetti “autonomi” della scuola, lasciano ciascuno la propria impronta: si intende dare un segnale forte agli studenti sul rispetto della disciplina e sul senso di responsabilità? si ripristina il voto di comportamento; la scuola non può più limitarsi a sancire il possesso di conoscenze, ma deve stimolare e valutare l’acquisizione di competenze? se ne introduce la certificazione; vogliamo negare la centralità dell’educazione civica per la formazione di buoni cittadini? s’aggiunga l’educazione civica; basta con la scuola che valorizza solo gli aspetti cognitivi, non si dimentichino le competenze per la vita!

Una valutazione più calda e umana

Prendiamo per buono, per amor di tesi, che ogni innovazione introdotta nasca solo dalla sincera intenzione di rendere il percorso scolastico e la sua valutazione più aderenti alla realtà, più capaci di valorizzare tutti gli aspetti di una persona e del suo apprendimento: di renderli, in una parola, meno “scolastici”.

Questa volontà di dare, diciamo, più verità umana alla valutazione, si traduce invariabilmente, dapprima, in un ulteriore parametro di cui tenere conto, quindi in nuovo adempimento amministrativo, che si deposita come un detrito a valle del processo, allungando pratiche e tempi dello scrutinio.

Perché questa sincera, pura, perfetta intenzione produce un effetto di obiettivo inceppamento? Perché l’invito ad allargare l’orizzonte dell’oggetto della valutazione (“calde” competenze relazionali ed emotive contro “fredde” competenze cognitive; “vive e concrete” competenze in azione contro morte e astratte conoscenze) prende necessariamente la forma della quantificazione, in cui qualità diverse finiscono equiparate alla stessa sostanza? È un po’ come se nella check list delle cose da fare la prossima settimana aggiungessimo la voce “ricordarsi di vivere intensamente”, con una fragorosa incongruenza tra una logica esistenziale e una operativo-strumentale.

Sono domande ingenue, perché le risposte, solo a volerle vedere, ci sono già.

Gabbia d’acciaio e società della valutazione

Distinguiamo tre livelli del problema.

1) Qualsiasi atto valutativo presuppone una misurazione, che fissa, astraendo, una quantità a partire da una qualità “viva”, un dato a partire dalla realtà, una forma a partire dal flusso della vita. Prima che una questione docimologica, è una questione gnoseologica ed esistenziale. Tutti abbiamo letto Pirandello.

Una differenza importante passa tra chi è in grado di distinguere i due livelli – misurazione e realtà – e chi li appiattisce l’uno sull’altro. I primi assumono quella differenza come ineliminabile e cercano di limitare gli inevitabili effetti riduzionistici della misurazione/valutazione. Quando, a una mia classe di qualche anno fa, spiegavo che i voti scolastici sono importanti, ma non importantissimi, che la scuola è grande così (e facevo un gesto con le due mani), ma la vita è molto più grande (e allargavo le braccia, per aumentare lo spazio tra le mani), cercavo di difendere proprio questo principio, che è insieme un modo per togliere ansia alla prestazione scolastica e un modo per relativizzare le manie di onnipotenza dell’insegnante: io valuto solo quel che sapete in italiano, mica la vostra intera persona ed esistenza.

Ma c’è anche chi rifiuta la dialettica (instabile) tra le due dimensioni e preferisce una delle due scorciatoie, opposte ma complementari, dell’equivalenza tra l’atto della valutazione e l’oggetto da valutare: chi prende il risultato della misurazione per la cosa stessa (una forma di cecità autoritaria) e chi vagheggia una impossibile facilità e spontaneità conseguente alla rinuncia a ogni giudizio (una forma di anarchismo regressivo). Nel campo della valutazione scolastica, questi due estremi sono rappresentati, da un lato, dal collasso di valutazione e persona l’una sull’altra – “uno studente da 4, 5, 6, 7” –, dall’altro, dalla mistica dell’abolizione non tanto del voto – che certo può essere sostituito con altre forme di valutazione – ma di ogni forma di valutazione, dell’atto stesso del giudicare, in una sognante fusionalità e reversibilità tra adulti e adolescenti, tra scuola e realtà extrascolastica, tra valutazione e autovalutazione: nessuna asperità o durezza, ma una confluenza perfetta tra giudizio su di sé e giudizio dell’altro, con il docente a offrire la valutazione come uno specchio in cui lo studente può autovalutarsi, perché il giudizio di un altro sarebbe troppo… giudicante.

2) Le istituzioni della modernità – la scuola è una di esse –, sono incarnazioni della razionalità burocratica. La burocrazia, nonostante la sua pessima (e spesso meritata) fama, non può essere eliminata del tutto, perché è una componente costitutiva del processo di modernizzazione, necessaria alla gestione di società altamente differenziate e complesse come le nostre. L’immagine arcinota è quella della weberiana «gabbia d’acciaio». Anche un docente dell’università medievale o di un ludus romano, immagino, valutava, ma questa operazione era largamente implicita e incorporata nelle pratiche. Nella modernità, per dare valore e sanzione di ufficialità ai nostri atti, dobbiamo trascrivere, verbalizzare, compilare, rendicontare. È perciò in malafede o davvero ingenuo chi non vede che ogni nuovo tentativo di rendere la valutazione più umana o formativa non potrà non tradursi in altre procedure burocratiche e in ulteriori obblighi certificativi.

In effetti il problema è che la gabbia d’acciaio ha la tendenza a crescere su se stessa e a diventare autoreferenziale, sostituendosi a quel mondo che dovrebbe limitarsi a governare. È il ben noto lamento sul fatto che la burocrazia, da mezzo per un fine (politico, etico, pedagogico), finisca inesorabilmente per diventare il fine stesso. Nel caso del mio scrutinio, scegliere la voce adeguata nella finestra a tendina del registro elettronico (base, intermedio, avanzato), combinare i tre parametri del comportamento, trovare una corrispondenza sensata tra valutazione numerica e valutazione delle competenze, era diventato più importante – o quanto meno richiedeva un impiego sproporzionato di tempo ed energie intellettuali da parte di noi docenti – del tenere conto, nella valutazione, anche di qualcosa di più qualitativo e globale della media dei voti di profitto. Perciò, per valutare dentro la scuola, occorrerebbe tener ben presente questo processo ineliminabile e fisiologico e le sue patologie: pare invece che molti godano ad aggravarle.

Ma a differenza della burocratizzazione, che è legata a doppio filo alla modernità fin dai suoi albori, questa ossessione verso la misurazione e valorizzazione di qualità caratteriali, psicologiche e sociali, addirittura etiche, è fenomeno decisamente più recente.

3) A partire dagli anni Ottanta, con la fine del fordismo, è venuta affermandosi quella che è stata di volta in volta chiamata «audit society», «società del controllo», «società governamentale». Si tratta di una società nella quale gli atti di valutazione-autovalutazione sono diventati pane quotidiano, dilagando in ambiti ben più vasti di quelli classicamente deputati alla valutazione formale: «il tema della valutazione […] pervade un insieme talmente ampio e intensivo di esperienze da poter bene essere interpretato come una cifra del nostro tempo» (V. Pinto, Valutare e punire, p. 52).

A rischio di banalizzare un po’ la questione, per comprenderla intuitivamente basta osservare fenomeni di superficie come l’ampia diffusione dei questionari di soddisfazione del cliente, il ricorso crescente a strumenti di misurazione biometrica (i chilometri percorsi nella corsa domenicale, il calcolo dei passi di una giornata, il controllo dei battiti e delle calorie, …), l’uso dei feedback (anch’essi atti di valutazione) nelle transazioni online tra privati, per accrescere reputazione e percezione di affidabilità, …

Abbiamo tutti introiettato una logica della performance e dell’(auto)“efficientamento”, nel lavoro, nella salute fisica e psicologica, persino nelle relazioni amorose (E. Illouz, Perché l’amore fa soffrire): misuriamo con cura, individuiamo il margine di miglioramento potenziale, ci adoperiamo per fare progressi. La razionalità costi-benefici è diventata una forma mentale spontanea per gli individui: figurarsi per i complessi collettivi e di governance come le istituzioni, le aziende e le amministrazioni (scolastiche, universitarie e non), che hanno bisogno di raccogliere costantemente dati, per fare previsioni e decidere dove “implementare”.

Un progetto Pon per il rinforzo delle competenze di base (italiano, inglese e matematica), al quale la mia scuola ha partecipato qualche anno fa, presupponeva una rendicontazione online minuziosa, ma soprattutto vincolava l’erogazione dei fondi ai miglioramenti nell’apprendimento (in una manciata di mesi…), da documentare attraverso il confronto tra i risultati di una prova ingresso e di una finale. 

Dal momento che «you cant’ manage what you cant’ measure» (Pinto, p. 251) la necessità di dare visibilità, di portare ad emersione dalle pieghe della vita quanti più tratti di un fenomeno è possibile, è diventata una vera e propria ossessione della psiche sociale, nonché una tecnica di governo politico (B.-C. Han, La società della trasparenza). Così una scuola che si limiti a valutare le conoscenze disciplinari è diventata, nel senso comune, qualcosa di insopportabilmente attardato e sterile, incapace di valorizzare aspetti dell’apprendimento e della vita che sono considerati fondamentali per il miglioramento del “saper essere” di studenti, lavoratori, cittadini, esseri umani.

Anche se questa nuova società della valutazione si presenta come anti o post-burocratica, flessibile e capace di assecondare il fluire spontaneo delle energie sociali, la verità è che essa ha decuplicato le maglie della gabbia d’acciaio, ampliando la logica dell’amministrazione anche a sfere della vita che sono per costituzione impossibili da amministrare o, quanto meno, che fino a ieri venivano lasciate al libero gioco dell’esistenza. Tra l’altro, facendo il gioco di prestigio ideologico di lasciar intendere che si tratti di una liberazione delle nostre forme di vita, non dell’estensione di un controllo su di esse.

Così, grande è il sospetto che i tempi e le fatiche di uno scrutinio vengano sempre più dilatati nel vano inseguimento di qualcosa che per definizione sarà sempre destinato a sfuggire e che solo una forma di perversa hybris razionalizzatrice pensa invece di poter agguantare: come un personaggio di Pirandello che rinunci alle forme e presuma contemporaneamente di restare sano.

Intanto, il progressismo pedagogico…

Nelle riflessioni migliori della contestazione scolastica del nostro Lungo Sessantotto – per intenderci, quelle che non si limitavano alla “rivoluzione culturale” della lotta contro il docente inteso come nemico di classe –, era ben presente la consapevolezza che i dispositivi di potere fossero qualcosa di assai più strutturale e pervasivo del semplice autoritarismo di questo o quell’insegnante. In altre parole, non solo gli studenti, ma anche i docenti “subivano” la struttura autoritaria della scuola, così che si credeva che sarebbe stato possibile liberarsene (con fatica) solo insieme, docenti e studenti. Non a caso quelle riflessioni erano spesso legate a esperienze di cooperazione, a esperimenti collettivi, ed erano animate da una capacità globale di analisi politica che riusciva a vedere, sempre, la scuola nella società, sapendo bene che cambiare la prima senza cambiare anche la seconda sarebbe stato vano. Aggiungiamo pure che uno dei temi centrali della controcultura era proprio la critica della burocratizzazione.

Oggi molto progressismo pedagogico è diventato incapace perfino di vedere le trasformazioni di fondo che ho provato a descrivere, in cui si sommano l’estensione progressiva della più classica logica amministrativo-burocratica e la nuova cultura della valutazione come funzione generale di governo della società: il progressismo pedagogico vede l’autoritarismo del voto, ma non la moltiplicazione tecnicistica di parametri, indicatori, descrittori (magari “formativi”); vede l’autoritarismo del docente sullo studente, ma raramente apre bocca sull’autoritarismo della burocrazia sul docente, anzi spesso concorre ad aumentarla, sostenendo richieste di riforma scolastica che provengono dalla governance globale dell’educazione e criticando i docenti che provino a sollevare qualche obiezione come corporativi e conservatori (quello del corporativismo e del passatismo è l’argomento più caro al neoliberalismo scolastico dagli anni Novanta a questa parte); crede di risolvere i problemi della valutazione scolastica agendo solo sull’operato dei docenti, senza accorgersi che la scuola sta subendo le stesse pressioni del corpo sociale perché si apra definitivamente alla nuova governamentalità.

È bizzarro in effetti leggere le sempre più diffuse critiche della valutazione scolastica come mezzo di riproduzione delle gerarchie sociali, senza leggere nel contempo una critica al “governo con i numeri” (Alain Supiot) che investe ormai anche la scuola (Invalsi, Ocse-Pisa, Eduscopio) e che sta precisamente creando nuove gerarchie (tra studente e studente, tra istituto e istituto, tra area geografica ed area geografica, tra nazione e nazione) e inoculando nel corpo della scuola una cultura della valutazione-performance.

Naturalmente ci sono ragioni politiche e intellettuali per questa involuzione politica, che non c’è spazio qui per affrontare. Oggi volevo solo provare a verbalizzare un disagio che mi prende ogni volta che sono impegnato in quel momento importante e delicato che è uno scrutinio, raccontando quali contraddizioni viva un docente a fine anno, quando si ritrova sulle spalle il peso del precipitato di tante “ottime”, ma presuntuosissime, intenzioni.

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