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diretto da Romano Luperini

Il banco e la cattedra

Pubblichiamo due estratti (premessa ed epilogo) da Il banco e la cattedra, appena uscito per Aguaplano editore. Ringraziamo l’autore e nostro redattore Roberto Contu e l’editore per la gentile concessione.

Tra il banco e la cattedra

Il banco e la cattedra sono due sguardi.

Quando si è ancora studenti – l’abbiamo fatto ai cambi dell’ora, l’abbiamo fatto negli intervalli – ci si siede un giorno dietro la cattedra, al posto dell’insegnante: si guardano i banchi. È uno sguardo diverso, fa sentire grandi, un oltraggio allo spazio da un tempo diverso. Ma quando si diventa insegnanti – chi lo è lo ha fatto alla fine di una lezione, lo ha fatto alla fine di un anno scolastico – ci si siede un giorno dietro al banco, al posto degli studenti: si guarda la cattedra. È uno sguardo diverso, il banco sembra piccolo, un oltraggio al tempo da uno spazio diverso.

Il banco e la cattedra sono lo spazio e il tempo della scuola, ma la scuola è in un altrove dallo spazio e dal tempo del mondo. La scuola è dove l’ago della bilancia tra la vita e il morire punta sfrontato verso la prima. Perché le pelli sono giovani, i passi sono elastici, le dita sono tese. Perché i pensieri sono rapidi, le parole sono frenetiche, i rossori sono improvvisi. Invecchiano i muri e gli insegnanti, loro no, gli studenti hanno sempre quell’età, sono aggrediti dall’eccesso della vita.

Se il mondo è ellisse, al fuoco opposto della scuola c’è l’ospedale. L’ospedale è dove l’ago della bilancia tra la vita e il morire punta nudo verso il secondo. Ecco perché la scuola, che si può guardare dal banco e dalla cattedra, è comunque uno sguardo di sghembo sul mondo, ecco perché la scuola è in un altrove dallo spazio e dal tempo del mondo.

Ma per questo si continua a parlare della scuola, si torna a raccontare la scuola, si insiste a dire male e a dire bene della scuola. Perché di quel fuoco da dove guardare di sghembo il mondo c’è bisogno, come quando il cielo è spento e si aspetta la luce del sole, che poi, quando torna, tutto è verde e germoglia, cresce e spiga; perché invece, nel mondo, oramai nulla più è verde e nulla più germoglia, nulla più cresce e nulla più spiga: non germoglia la città dell’uomo, non cresce la città di Dio, non spiga la nostra vita, la mia, la tua.

A scuola invece, sì che accade, per forza che accade e continuerà ad accadere: le pelli sono giovani, i passi sono elastici, le dita sono tese; i pensieri sono rapidi, le parole sono frenetiche, i rossori sono improvvisi. L’ultimo granaio di senso, il magazzino stipato di futuro; l’ultimo desiderio possibile, il tensore d’inerzia del futuro; l’ultima risposta attesa, la cavea gremita, nel procinto di una parola che predica il futuro. Per questo, indebitamente, anche chi nel mondo proclama l’inattendibilità del senso, la fine del senso, l’impossibilità del senso, dalla scuola continua ad aspettarsi, sotto la pretesa del futuro, la produzione di un senso.

Come tutti, anche io da tempo mi sono messo a guardare la scuola, come tanti, a scrivere della scuola, da dentro e fuori la scuola. Un tempo che, ciclo come stagione, ora sta nel perimetro di questo anno, di queste pagine, nello scandire di questo mese, di queste righe, in ogni giorno passato a scuola, di queste parole, da settembre a giugno, vacanze e ponti compresi, dall’inizio dell’anno scolastico alla fine dell’anno scolastico.

Eppure, lo so che non la puoi guardare la scuola, ché ti guarda lei, la scuola, non la puoi scrivere la scuola, ché ti scrive lei, la scuola, non la puoi conoscere la scuola, se non ti conosce lei, la scuola.

Ho raccolto le parole di queste pagine, e ho faticato poco a dare loro un ordine, perché avevano una spina dorsale naturale, ed erano i nove mesi dell’anno scolastico, le settimane da settembre a giugno, le vacanze e i ponti, l’Esame di Stato e qui ora trovano posto. Quello che mi è capitato, che lentamente, a poco a poco, ho capito, infine l’ho scritto, l’ho raccontato: ma cercando di stare non sulla cattedra, non dietro il banco, ma nello spazio e nel tempo che stanno in mezzo.

Perché solo da lì si può conoscere la scuola, in quel vuoto che ogni mattina si riempie: tra la vita e il morire, la riga tra il cielo e il mare, tra lo spazio e il tempo, quel pieno tra il banco e la cattedra che è forma e sostanza della scuola.

[…]

Tra il vuoto e il pieno

Ho appena finito di riordinare questi brevi scritti, ripenso all’ultimo giorno di scuola, a giugno.

Li rivedo e le rivedo, poi escono tutti, escono tutte dalla classe e io rimango seduto dietro la cattedra. Mi alzo e poi mi siedo dietro un banco. Ma il vuoto rimane vuoto, non è più il pieno di qualche minuto prima.

Qualche volta, di pomeriggio, mi è capitato di passeggiare nella scuola vuota: il silenzio è ostile, il corridoio, l’aula, le scale, tutto è troppo largo e sembra di annegarci dentro, un buco nero. Allora mi domando se la realtà è quella della mattina, l’eccesso della vita, l’ago della bilancia che volta le spalle al morire e punta sfrontato alla vita, o se invece quella sia una parentesi fugace, l’illusione di un maggio odoroso che per tutti s’è acceso, ma per un tempo brevissimo, come la neve che si disigilla al sole e che poi, per una vita intera, ci ritroveremo a serbare meditandolo nel cuore, per i corridoi vuoti delle nostre vite (di tanti già detti sulla scuola, quello che chi ci lavora dentro – se non c’è capitato e se lo ha scelto – abbia tentato di dilatare quel maggio sulla misura di una vita intera, mi pare conservi un che di vero).

Ripenso all’ultimo giorno di scuola, a giugno.

Sono nell’aula docenti e vedo la collega che dopo quella vita intera svuota il cassetto per l’ultima volta, silenziosamente se ne va in pensione. Lo fa, poi dietro di lei una ragazza con la pelle giovane, i passi elastici, e le dita tese, le chiede di una fotocopia, «grazie prof, arrivederci», ma la collega che svuota il cassetto, che le ha messo il codice della fotocopiatrice, non risponde e io penso che abbia fatto bene a non risponderle.

Quel giorno c’è anche il collega con il quadernetto dei pensieri che gli hanno lasciato i maturandi, me lo mostra. Alcune pagine al suo interno sono piegate, una pagina a testa, scritta da ogni alunno, da ogni alunna: alcuni hanno preteso che quelle parole solo il professore le leggesse, al riparo di casa sua, fuori dalla scuola, da questo spazio e da questo tempo.

Ci sono dei vuoti e dei pieni in questa aula docenti, ma ancora non ho capito dove sia la realtà, quando sia la realtà. Lo spazio e il tempo, il vuoto e il pieno.

A venticinque anni, quando ho iniziato a fare scuola, ricordo di avere portato a dicembre mia madre e mio padre a fare regali a una fiera vicino casa mia. Avevo incrociato uno studente che mi salutò «buonasera, prof; e auguri, prof». Lì, davanti a mio padre, davanti a mia madre, quel riconoscimento «prof» datomi da uno poco più giovane di me mi sembrò il timbro sulla mia presenza nel mondo.

A trentacinque anni, dopo dieci anni di scuola, mi era sembrato di averla capita davvero la scuola, gli alunni difficili, i colleghi che giudicavo nel posto sbagliato, il senso dell’onnipotenza di sapere aprire con una terzina anche i portoni più serrati.

A quarantacinque, dopo vent’anni di scuola, ho capito che in fondo anche qui, come ovunque, la spinta a doversi dare un posto e un nome nel mondo, fosse anche quello – prof – che giovane mi inorgoglì difronte a mia madre e mio padre, dovrebbe cedere il passo a chi ci sta difronte il prima possibile, o meglio, come disse l’anonimo, dovrebbe riguardare più il fare bene, che lo stare bene.

Io non lo so quando si decide di restare per sempre a scuola, ma so che questo non avviene certo quando giovani ci si sogna maestri come quel maestro avuto, non quando entrati precari per la prima volta in una classe si percepisce violentemente che quella potrebbe essere la migliore delle vite possibili, nemmeno quando, come tutti, dopo qualche anno si arriva un giorno a dire di fare il lavoro più bello del mondo.

Forse davvero si decide di restare per sempre a scuola quando si capisce che non è dietro la cattedra che si è chiamati a stare, il rettangolo dietro il quale pretendere un posto e un nome nel mondo; non è dietro il banco che si è chiamati a stare, il rettangolo dietro il quale illudersi di un maggio che ci scaldi per tutto il nostro tempo nel mondo. Si decide di restare a scuola, per un’ora intera, un giorno, una settimana, un mese, un anno scolastico, una vita lavorativa intera, quando lentamente scompariamo, quando ci facciamo sostanza stessa di quell’ essere, di quella forza purissima e principio primo dell’universo che è il nome non più misterioso del pieno tra la cattedra e il banco, che è il nome della vita, che è il nome della scuola.

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