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diretto da Romano Luperini

Scuola: sostantivo di genere maschile?

«Ricordo le chiacchiere che si profusero quando per la prima volta al mondo (almeno così credo) fu nominato a Roma un ambasciatore americano di sesso femminile, la squisita signora Luce. Nessuno osava chiamarla ambasciatrice; e allora venivano fuori cosette davvero amene, come quella volta che un giornale, nel resoconto di non so che serata di gala, annunziò compiaciuto che l’ambasciatore americano era intervenuto indossando un superbo abito di seta color malva, o qualcosa di simile. Un altro giornale parlò imperterrito del “marito dell’ambasciatore americano a Roma”. Scherzi a parte, voglio dire che a me, che cerco di ragionare sempre a fil di logica (…), il problema del sindaco e della sindaca non si pone neppure. La grammatica insegna una cosa elementare: che per gli uomini esiste un maschile, e per le donne un femminile. Non si può fare un’eccezione per il sindaco.  (…) Solo sessanta, settant’anni fa le donne non esercitavano nessuna professione, e i nomi professionali erano tutti maschili».

Aldo Gabrielli, Si dice o non si dice?, 1969, A. Mondadori editore

Spente le luci dei riflettori dei media e accantonata momentaneamente l’idea di inserire un nuovo pacchetto di ore dedicate ad apprendere l’affettività, resta l’interrogativo su quel che la scuola fa per contrastare la discriminazione di genere o, magari inconsapevolmente, per promuoverla. Raccogliendo le idee su trentacinque anni di esperienze come insegnante di Lettere e Educazione Civica, mi vengono in mente tre capitoli di un possibile catalogo formativo sull’argomento.

La grammatica e l’obbedienza

    A scuola si educa all’uso del linguaggio. Naturalmente lo si può fare in prospettiva puramente normativa, per spingere le persone giovani a obbedire a regole fissate in modo arbitrario e stratificate nel corso del tempo tanto da sembrare “naturali”. Oppure lo si può fare per sviluppare negli studenti la consapevolezza del fondamento storico e sociale di regole e consuetudini, anche quelle linguistiche, rafforzando in loro la capacità di giudicare e, se lo desiderano, prendere le distanze da parole e comportamenti linguistici che considerano sbagliati. Non è affatto semplice come potrebbe sembrare, in un Paese in cui la prima donna Presidente del Consiglio desidera essere chiamata “Il Presidente” e una musicista di talento che dirige un’orchestra vuole che la si definisca “Il Direttore”. Ma ragionare su simili evenienze – fondate sull’assunto che il “ruolo” si indica con il genere maschile – aiuta a capire come il maschilismo sia radicato nel mondo italiano contemporaneo; al punto che due donne famose vogliono vedersi riconosciuto il diritto a occupare una posizione di potere tramite un genere che non è il loro, ma che considerano naturalmente superiore. Ѐ lo stesso meccanismo (il)logico che sta alla base del rifiuto di utilizzare parole come “sindaca” e “assessora”, forme chiaramente corrette ma per molti inaccettabili, per la semplice ragione che fino a non molto tempo fa non esistevano proprio. O che rende accettabile la forma “infermiera” e ostica “ingegnera”, perché la prima professione è da sempre femminile, mentre la seconda lo è diventata soltanto in tempi relativamente recenti. Riflettere in modo intellettualmente onesto sulla lingua che leggiamo e parliamo, smontando la sua presunta “naturalezza” e mostrandone invece la storicità sociale, è un primo modo per lottare, non in circostanze eccezionali o episodiche ma nel lavoro di ogni singolo giorno, contro le discriminazioni.

    Non è affatto scontato, in una classe. Spesso infatti chi apprende non è abituato a porsi domande significative sulle parole che usa; anzi, il diffuso senso di irresponsabilità legato all’utilizzo dei social e l’adozione di un vocabolario povero e fortemente standardizzato in relazione al proprio gruppo di appartenenza sono fenomeni in espansione. Anche chi insegna non è sempre capace di fornire, attraverso i suoi comportamenti linguistici, un modello di critica e apertura: per esempio, se penso alla realtà del liceo nel quale insegno, esplicitando la perplessità di fronte all’abitudine di salutare gruppi in prevalenza femminili (come il Collegio docenti) con la consueta formula al maschile: “Buongiorno a tutti”.

    “Tutte le parole a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”, scriveva Rodari nella “Grammatica della fantasia”: oggi la schiavitù è anche linguistica, e si presenta alle persone sotto le mentite spoglie della libertà assoluta di dire, dell’irresponsabilità, dell’approssimazione, o della scorciatoia pseudo-normativa (“si è sempre detto così”, “non si può sentire”). Per questo, insegnare a utilizzare l’articolo giusto al posto giusto, il suffisso logico nella situazione specifica, le parole corrette che “suonano male” è un atto di quotidiana rivoluzione.

    • Lingua, storia, società

    Naturalmente è possibile risalire da questa dimensione dello studio della lingua a considerazioni più ampie e interdisciplinari. Fino a sostenere con buone ragioni che chiunque svolge attività di formazione linguistica – cioè tutte le persone che insegnano, indipendentemente dalla disciplina – è impegnato nell’educazione civica delle ragazze e dei ragazzi.

    Di questa dimensione interdisciplinare, mi capita spesso di esplorare due ambiti.

    Il primo riguarda la comprensione della complessità storica dell’uso del linguaggio. Senza inseguire una problematica completezza, si potrebbe indicare come punto di partenza di un simile percorso didattico l’analisi (integrale o antologica) di un famoso documento della nostra storia parlamentare, “Il sessismo nella lingua italiana”, curato da Alma Sabatini; ancora oggi un punto di riferimento assoluto nella riflessione sulla discriminazione linguistica e nella legislazione in materia (non solo in Italia). La sua straordinaria ricchezza di esempi tratti dall’uso e la solidità argomentativa ne fanno infatti un documento essenziale per rendere chiara la dimensione sociale e civile del problema, senza dipendere dai modi sensazionalistici e passeggeri attraverso i quali i media contemporanei sollecitano l’attenzione di un pubblico altrimenti distratto.

    Un secondo ambito di approfondimento percorre la storia dell’emancipazione delle donne; un aspetto, quest’ultimo, oggi molto in voga anche grazie alla creazione di un vero e proprio genere narrativo, di cui il film “C’è ancora domani” rappresenta una manifestazione particolarmente popolare. In questa dimensione, può essere introdotto o sviluppato anche il delicato tema del contributo della cultura social e di una testualità informale, ben rappresentata dal successo di artiste e studiose (e naturalmente dei loro colleghi maschi). Ѐ un approccio non banale alla cosiddetta “cittadinanza digitale”, un tramite attraverso il quale le classi entrano in contatto con naturalezza e serietà con argomenti complessi: ad esempio, questo intervento di Vera Gheno, come i podcast della serie “Amare Parole”, possono costituire un buon punto di partenza per un confronto in classe sul ruolo del linguaggio nella discriminazione e nella costruzione dei rapporti di potere.

    • Il canone è tossico?

    Anche attraverso lo studio della letteratura, si può insegnare a non discriminare nessuna persona per quel che è, che possiede o che le manca. Si ripropongono qui gli stessi principi e le stesse finalità che ispirano il lavoro sulla lingua: sviluppare la capacità di comprendere l’evoluzione del pensiero e dell’immaginario nel corso della storia; rifuggire l’appiattimento sul presente e le battaglie culturali per cancellare parti e figure del passato; sollecitare la partecipazione e l’espressione autentica di convinzioni e sentimenti delle classi, per costruire insieme a loro un quadro etico condiviso.

    Addentrarsi nello studio della storia letteraria significa incontrare comportamenti, stereotipi, cambiamenti che ci raccontano la presenza di un pregiudizio, la sua posizione rispetto alla cultura del tempo, la lotta contro di esso. Se il Medioevo è tempo di opposte cristallizzazioni (la donna-angelo, la donna peccatrice), è anche momento in cui, ad esempio dalle pagine di Boccaccio, emergono nuove figure di donne che lottano e soffrono per affermare la propria libertà e identità: Griselda su tutte. Il primo canto del “Furioso” è un ilare catalogo della cultura dello stupro, ma al contempo il poema narra fra le altre la storia di una donna che si emancipa da un destino deciso per lei dai maschi. Il primo Novecento è il tempo dell’orrendo odio per la donna incarnato dai futuristi, ma anche di Virginia Woolf, Sibilla Aleramo, Grazia Deledda. Persone, quindi, non solo personaggi. Ci si avvicina in questo modo a capire che sessismo e discriminazione non sono destino o natura (proprio come non lo sono le forme linguistiche), ma forme storiche che devono essere riconosciute e possono essere criticate e cambiate.

    Su differenti risvolti dell’argomento ha scritto di recente Daniele Lo Vetere su queste pagine: alle sue parole rimando per un inquadramento culturale rigoroso. A me basta sottolineare l’urgenza di conservare al quadro storico tutta la sua complessità, perché da quest’attenzione emerge la progressiva affermazione della presenza del femminile, in tutte le sue manifestazioni. Questo non significa ovviamente evitare di mettere in discussione canoni e atteggiamenti comunemente accettati; ad esempio, è fondamentale il lavoro di scoperta e condivisione della scrittura femminile, al centro di numerosi e importanti studi come quello recensito pochi giorni fa da Luisa Mirone su queste pagine. Significa invece non inseguire il facile sentimentalismo e le roboanti condanne che caratterizzano l’approccio al tema dei mass media, perché un simile atteggiamento non produce moralità, ma superficiale moralismo. Poche cose come la pratica dell’attualizzazione dei testi sono oggi esposte a questo rischio.

    Peraltro, non bisogna dimenticare che l’età in cui si creano gli stereotipi non è certo quella dell’adolescenza. Come ha mostrato in modo incontrovertibile Irene Biemmi, in particolare in “Educazione sessista”, sono le semplici e spesso banali storie con le quali si impara a leggere – storie di donne che in casa accudiscono i bambini mentre i maschi scoprono nuovi mondi – che cominciano a costruire il pregiudizio, la discriminazione, la violenza. Ancor più quando queste storie si saldano all’apprendimento acritico di regole grammaticali imitate senza interrogarsi sul loro valore. Fu mio padre, ad esempio a mettermi in mano il libro da cui è tratta la citazione iniziale di questo articolo. Avevo nove anni, ma fui perfettamente in grado di capire. E nove anni aveva anche mia figlia quando, accompagnata da una maestra sensibile e rispettosa, si permise di correggere il suo libro di testo, come si vede nell’illustrazione iniziale: perché non capiva come mai le donne dovessero rientrare nella categoria maschile sovraestesa di “scienziati”, quando esiste il femminile “scienziate”.

    La scuola secondaria, quando adotta un approccio museale e nozionistico alla letteratura (purtroppo non infrequente) non si cura di osservare e mettere in discussione queste immagini deformate e costrittive generate in tenera età, limitandosi ad accompagnarne la crescita e la strutturazione nella persona adulta.

    Invece la conoscenza dell’immaginario artistico e letterario, quando chi apprende ha l’età della ragione, è parte essenziale di un percorso di consapevolezza critica. Vale per la condizione della donna e dell’uomo, per il lavoro e il suo sfruttamento, per i rapporti sociali, la costruzione di un’identità personale, le relazioni fra il genere umano e la natura. Lo studio ci aiuta a non considerare naturale quel che è invece sociale, economico e politico. Forse la più importante fra le competenze di cittadinanza.

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