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diretto da Romano Luperini

Pluralità di voci e alterità indigena in “Selvaggia e aspra e forte” di Laura Pariani

“Cammina e cammina, quanti fiori, quanti odori, che colori di meraviglia” (p. 351)

Polifonia di voci, caleidoscopio di forme

È scritto all’insegna della polifonia l’ultimo libro di Laura Pariani, narratrice dalla mano ferma e dallo stile inconfondibile che spesso ama ambientare le sue storie in America latina, componendone un ritratto quanto mai vivido nei temi e nelle forme: si pensi, a titolo di esempio, a due dei suoi precedenti lavori: Quando Dio ballava il tango (2002) e Dio non ama i bambini (2007).

Selvaggia e aspra e forte è al contempo romanzo storico, biofiction, inchiesta su una morte misteriosa: al centro sta l’indagine sulla fine, avvenuta in Paraguay nel 1901, del pittore Guido Boggiani, uno degli allievi più promettenti di Filippo Carcano. Il libro è strutturato come un concerto a più voci nel corso del quale il punto di vista di ventitré diversi personaggi si succede nella ricostruzione della vita dell’artista che, di questa serie di micronarrazioni in terza persona, è il ventiquattresimo e ultimo “solista”. L’effetto caleidoscopico dovuto ai molteplici racconti è inoltre efficacemente dilatato grazie all’inserzione di una serie di apologhi che, a intervalli irregolari, sospendono la narrazione principale con leggende di origine sudamericana: è infatti a cavallo tra Paraguay, Brasile e Bolivia che è ambientata gran parte della vicenda, tra fine Ottocento e gli albori del Novecento, e il succedersi di storie mapuche, gauranì, chamacoco, xavànte ecc. permette al lettore un’immersione ancora più intensa nel mondo indigeno. Infine, in un ultimo gioco di specchi, c’è una narratrice di primo grado che, nel Prologo iniziale e in un Intermezzo, data il suo viaggio a Bahìa Negra, nell’alto Paraguay, nel settembre 2008, alla ricerca di notizie certe sulla morte di Boggiani. La donna intreccia alle poche certezze anche l’alone mitico di cui ormai Guido, e il compagno chamacoco Gavilán, sono protagonisti: è una leggenda che Aparicio, un cantastorie (neanche a dirlo) cieco tira fuori “con la sua parlantina fiorita” tanto da riuscire a far apparire “la selva selvaggia e aspra e forte, che dorme chiusa nel suo mistero” (p. 298). Alla domanda della donna – “Usted sa davvero come è morto Guido Boggiani?”, l’uomo le risponde “Quién sabe. Qui in Paraguay morire è più facile che starnutire, madre” e la esorta a raccontare, raccontare, raccontare perché a nulla vale tenere nella testa troppi pensieri: “l’unica cosa che resta davvero di noi sono le storie che abbiamo saputo contare finchè i vermi non ci mangiano la lingua” (p. 303). Emerge qui un assaggio di quello che è un tratto costante e al contempo originale dei romanzi di Laura Pariani, ossia il lavoro sulla lingua che ha il suo tratto distintivo nel pastiche: fluidamente si tengono insieme lungo la narrazione l’italiano – arricchito di tratti tipici del parlato e del dialetto – il castigliano d’oltreoceano e i termini indigeni.

Selvaggia e aspra e forte è, dunque innanzitutto un romanzo corale in cui chi prende la parola – dall’io narrante alla ricerca della “verità” all’aedo Aparicio, dagli europei emigrati alla balia piemontese che apre il libro – contribuisce a delineare la storia di un giovane pittore paesaggista che, a poco più di vent’anni, era già entrato nel bel mondo romano, a contatto con D’Annunzio e Scarfoglio ma che, annoiato dal suo stesso successo, nauseato dalla mondanità e enormemente curioso si imbarca alla volta del Sudamerica. All’epoca questa era per lo più terra di conquista sia di moltissimi europei intenzionati a trasformare le fitte foreste tropicali del Mato Grosso e del Chaco in produttive piantagioni sia di gringos reduci dalle guerre della Triplice e disposti a mettersi al soldo dei primi.

Una natura rigogliosa, insidiosa

Oltre alla ricca, varia umanità che si muove nel romanzo, anche la Natura assurge al ruolo di personaggio, come si intuisce dal titolo di ascendenza dantesca e dall’immagine di copertina, “Uomo mangiato da una pianta” di Una Woodruf.

Pariani sembra voler tradurre nel linguaggio verbale i colori e le forme del paesaggio tropicale dipinti dal suo protagonista; nel capitolo in cui Raymundón Brennan rievoca la storia della sua amicizia con Guido, l’autrice descrive proprio attraverso lo sguardo dell’irlandese l’enorme trittico dipinto en plein air nella foresta:

Guido ha rappresentato la radura a grandezza naturale: è questo che lascia boccaperta Raymond mentre passa da una tela all’altra. In primo piano c’è la radura. Lì gli alberi abbattuti ai margini della selva, su cui cresce un fitto strato di rovi e sterpi che preserva l’umidità del suolo. […] Appena dietro stanno i guayachi alti come torri, la chioma in forma di canestro. E le liane che pendono dai rami, i parásitos colorati…Tra un fitto di rami si intravede la curva del fiume, proprio lì dove l’acqua smangia la barranca di sabbia e riposano i fenicotteri rosa. A destra l’arenile scintilla come se fosse composto di vetri rotti, più sotto la spiaggia sembra ricoperta di polvere di granati. Infine, sullo sfondo, la montagnola azzurra dall’altra parte del río.
La radura è riprodotto con fedeltà: i fiori rossi a forma di farfalla dell’Erythrina crista-galli dai riflessi di smalto, le zolle erbose, l’uccello col becco che pare un gran cucchiaio, centinaia di verdi diversi, l’acqua color cioccolato e il celeste dell’aria, lo sguardo vitreo dei lucertoloni che si affacciano tra gli spini. (L. Pariani, Selvaggia e aspra e forte, Milano, La nave di Teseo, 2023 pp. 140-141)

Alla malía di una natura rigogliosa e sfrontatamente bella, che agli occhi di Boggiani merita di essere ritratta in tutta la sua fulgida vitalità, si contrappongono l’insofferenza, il fastidio di buona parte dei coloni europei, che possono finire perfino per impazzire in quella terra lontana; la voce è quella di Doña Leda, una piemontese giunta in America del sud all’età di sei anni e oramai naturalizzata, suo malgrado, in quel luogo per molti versi inospitale:

Il primo a andar fuori di zucca è stato Bernard, il marito di Elisabeth: […] molti dei suoi connazionali vogliono tornare in Germania: poco a poco devono aver cominciato a avvertire l’angoscia di vivere così lontano dal cosiddetto “mondo civile”, intrappolati nella selva. Ché questo è un inferno verde che ti aderisce alla pelle eppoi ti risucchia: sta muraglia di foglie picchiettate di fiori mostruosamente grandi, sta terra rosso sangue, l’acqua delle lagune color opale, gli odori piccanti dei frutti esotici…tutto ti avviluppa fino a strangolarti. (Ivi, p. 102)

Guido Boggiani e l’incontro con l’Altro

Pariani mette al centro della sua narrazione un rilevante tema antropologico, quello dell’incontro con l’Altro: come scrive Todorov in La conquista dell’America, possiamo “scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ognuno di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto” ma anche che “gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono”. È questo, in sostanza, il nucleo dello spostamento culturale che caratterizza la vicenda di Boggiani in Sudamerica: l’abbandono dell’europocentrismo a favore del desiderio di conoscere e comprendere gli indigeni. Questo movimento passa attraverso tre fasi determinanti: il giudizio di valore (per dirla ancora con Todorov “l’altro è buono o cattivo, mi piace o non mi piace, […] è mio pari o un mio inferiore”), un movimento di avvicinamento culturale e valoriale e, infine, il pieno riconoscimento dell’identità dell’altro (particolarmente evidente nelle ultime pagine del romanzo).

Nel corso della prima spedizione in Paraguay (1888-1893) Guido Boggiani pare muoversi animato solo da una curiosità etnografica: Guido ritiene questi uomini degni di attenzione, di studio, di considerazione a differenza della maggior parte degli europei, generalmente sprezzanti nei confronti delle popolazioni indigene, ritenute inferiori e da sottomettere (nel capitolo “Leo Carnero, nato a Novara nel 1869” Pariani ricorda le ricerche dei lombrosiani che si dichiarano “interessatissimi alle misurazioni dei selvaggi” riscontrando tutti i “segni pe-cu-lia-ri di primitivismo” p. 213).

Nel corso del suo secondo e ultimo viaggio (1898-1901) porterà con sé una delle prime macchine fotografiche per fissare, su lastre voluminose e pesanti, uomini e donne del Gran Chaco: molte di queste immagini saranno poi spedite alla Società Geografica Italiana. Spetta a Etacadahuana, moglie del capo, raccontare quest’altra scheggia biografica: la passione e la pazienza con cui lo strano gringo – “sto bianco che si sforza di imparare la lingua della tribù della Cicogna” – chiede il permesso di scattare le foto a uomini e donne.

Ma nei suoi anni di permanenza in Sudamerica, Boggiani, sempre più libero dagli automatismi della civiltà europea, avvierà un processo di avvicinamento culturale e valoriale con gli indigeni che lo renderà inviso a una parte della comunità bianca, su tutti al latifondista Don Josefo Crevatin:

Le immagini che Raymond ha del suo amico pittore somigliano alla visione di un caleidoscopio, formata da decine di pezzi sconnessi, che si uniscono e si modificano continuamente. Ecco, in un momento Guido sta sotto le palme, avvolto in una pelle di bue, fradicio di pioggia che cade da giorni. Un altro giro della memoria e spunta l’artista apprezzato dalla critica sui giornali che vengono da Asunción. Nuova rotazione delle lenti e Guido è l’uomo che smette di portare scarpe, perché decide di condividere fino in fondo la vita degli indios, epperciò vuole che i suoi piedi delicati si abituino ai travagli degli spini e delle morsicature delle serpi… […] “Mi sa che Guido ha ormai fatto sua così profondamente la selva, che si sentirebbe straniero in qualunque parte del mondo”, commenta Isabel al marito. (pp. 142-143)

In questo “inselvarsi” sta forse il nucleo esistenziale più interessante del personaggio finzionale ricreato da Laura Pariani intorno alla figura biografica di Boggiani. Il far sua “così profondamente la selva” non dà luogo a un processo di inselvatichimento ma piuttosto a una duplice scoperta: Guido sente di dare fiato alla parte migliore di sé solo quando decide di star fuori dalla “migliore società d’Europa” che ha frequentato; al contempo sente di essere sé stesso solo in una comunità “altra” che sceglie come propria nonostante lì, il diverso, sia lui.

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