L’epica del lavoro, l’etica della memoria ne “Il saldatore del Vajont” di Antonio Bortoluzzi.
Servono altri narratori, altri tentativi, non è tempo perso.
(M. Paolini, Prefazione a M. Passi, Vajont senza fine)
Struttura narrativa e soglie paratestuali
A sfogliare l’ultimo libro di Antonio Bortoluzzi, edito nella collana “Marsilio Romanzi”, ci si accorge ben presto di avere tra le mani un “oggetto” stratificato, meritevole di un’attenzione che non ne trascuri i dettagli, a partire dalle soglie paratestuali e dalla struttura narrativa. La storia, in nove capitoli, è affidata a un narratore interno che si presenta come un uomo di fabbrica: “sono stato saldatore di carpenterie metalliche […]; oggi lavoro in un’occhialeria” (p.15). Il suo racconto, a parte un prologo e un epilogo, intitolati rispettivamente “L’acqua” e “Un prato solivo”, si sviluppa come il resoconto di una visita guidata che procede, ora dopo ora, dalla centrale idroelettrica di Soverzene fino alla diga del Vajont, nel bellunese; si chiude con il congedo del gruppo e con la solitaria sosta al cimitero monumentale dedicato alle vittime della strage.
All’impianto narrativo, costituito da un intreccio di filoni a cavallo tra autobiografia, personal essay, reportage, si accompagnano una copertina molto evocativa e, nel suo risvolto interno, una carta geografica.
Quest’ultima, per quanto essenziale e in bianco e nero, assolve al compito di far familiarizzare il lettore “foresto” con quella fetta di territorio montano a cavallo tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia dove sessant’anni fa il crollo di una fetta del monte Toc nell’invaso della diga del Vajont portò alla traumatica cancellazione di un intero paese, Longarone, e dei suoi abitanti: è un ausilio importante per chi non conosca la zona. Chi, invece, ci sia stato almeno una volta ritrova i luoghi salienti di un percorso della memoria che va dal paesino montano di Erto, passando per la diga, al cimitero monumentale collocato a valle, dove ci si trova al cospetto delle millenovecentodieci vittime che vi sono ricordate. Nel corso della lettura è evidente, tuttavia, come per il narratore quella cartina sia LA mappa conosciuta da quando gli si sono aperti gli occhi sul mondo, IL territorio attraversato ogni giorno nella propria quotidianità, LA terra calpestata nelle escursioni montane, IL suo paesaggio abituale, amato e detestato: amato nei boschi, nei prati, nelle radure; mal sopportato nella distesa di capannoni, fabbriche, reti di asfalto di cui l’ipermodernità ha disseminato le valli. Insomma, quella cartina racchiude, pur nella sua referenzialità, il senso di appartenenza a un luogo.
L’immagine in copertina riproduce un particolare del grande murale di William Gropper, Building a dam (1939), e mette a fuoco il tema cardinale attorno al quale ruota il testo, ossia il lavoro manuale che ha reso possibile la realizzazione della centrale idroelettrica di Soverzene e della diga del Vajont. Quest’opera pittorica, realizzata in pieno New Deal (qui è possibile leggerne una breve descrizione), era destinata a celebrare la costruzione di grandi opere pubbliche – come le dighe sui fiumi Colorado e Columbia: fondamentale risulta lo sforzo manuale dell’uomo, raffigurato nelle pose plastiche dei corpi degli operai che collaborano alla esecuzione di questi enormi manufatti.
L’epica del lavoro e il sogno del miracolo economico
Qualcosa del genere accade in Italia qualche decennio dopo, nel corso della Ricostruzione: fin dalla scelta dell’immagine di copertina, dunque, nel Saldatore del Vajont si dà centralità a un momento cruciale della storia italiana quando il volto del paese, fino a allora agricolo, viene repentinamente trasformato in quello industriale, e il sogno che si fa strada è il “miracolo italiano” anche grazie agli enti a partecipazione statale. Tuttavia, la mutazione economica e produttiva del paese aveva bisogno di molta energia, oltre che di strutture e infrastrutture, ed è per questa ragione che l’invaso era stato progettato da SADE, Società Adriatica di Elettricità (la futura ENEL, per intenderci), molto attiva in zona nell’edificazione di questi impianti:
[…] stavano costruendo il paradiso dell’energia elettrica e l’Italia premeva, attendeva, voleva non quello che eri abituato a dare – braccia e gambe di lavoratori e soldati – ma ciò che non sapervi nemmeno di avere: la ricchezza d’acqua e di salto che scrosciava inutilizzata nei dirupi selvatici. E non è un’obiezione sensata dire che quell’acqua serviva da secoli alle persone e alle bestie, ai campi, ai paesi, perché la tecnica, i progetti, i brevetti, i capitali privati e pubblici lavoravano a qualcosa mai accaduto prima: il miracolo italiano. (A. Bortoluzzi, Il saldatore del Vajont, Marsilio, p. 91)
La realizzazione concreta di questi monumentali manufatti è stata dunque il frutto della progettazione da parte della migliore ingegneria italiana e della perizia manuale degli operai che a quelle imprese lavorarono. Rievocati e rappresentati in squadre intente e coordinate verso il raggiungimento di un solo obiettivo nel murale di Gropper, sono proprio gli operai a essere onorati nel Saldatore del Vajont, e il titolo stesso ne è una conferma. Nel ripercorrere la visita all’impianto della centrale e della diga, Bortoluzzi si sofferma in particolare sul “lavoro ben fatto“ di ascendenza leviana, sulle migliaia di operai specializzati che, come silenziose formiche, hanno reso possibile la realizzazione di un gioiello idroelettrico:
Sono rimasto per tante ore dentro l’impianto, e dal profondo della montagna siamo saliti su fino in cima al coronamento della diga: gallerie, condotte, cunicoli, scale, ponti, tiranti, calcestruzzo, tanto calcestruzzo, e saldature, ben fatte. Tanto lavoro. Non ho mai visto una cosa del genere: la costruzione dell’impianto idroelettrico, il Grande Vajont, culminato con la diga che per qualche tempo fu la più alta del mondo, è stata il risultato di tanti piccoli gesti compiuti da uomini-formica, impegnati insieme, quasi fossero mossi da un’unica volontà, a edificare il paradiso dell’energia che invece sarebbe diventato l’inferno della catastrofe. (Ivi, p. 15)
L’etica della memoria: una pacata, consapevole compostezza
Il libro di Bortoluzzi, nato e cresciuto in Alpago, non ignora, evidentemente, la parte tragica, traumatica della vicenda della diga sulla quale, peraltro, esiste una bibliografia nutrita, di cui l’opera più nota è forse la cosiddetta Orazione civile di Marco Paolini e Gabriele Vacis. Alcuni di questi testi sono stati scritti con la rabbia e il desiderio di verità e giustizia di chi quella sera era a Belluno, come Tina Merlin, e si ritrovò nel centro della città, piombato nel buio senza alcun preavviso, a scrutare il Piave, incredibilmente ingrossato, trascinare cadaveri denudati dalla violenza dell’acqua, tronchi, carcasse animali, relitti di ogni genere; o di chi, come Mario Passi, arrivò per primo sul luogo cancellato dall’onda per il quotidiano ”L’Unità” restandone talmente colpito da accompagnare, negli anni a seguire, le famiglie dei superstiti e delle vittime nelle lunghe, estenuanti e spesso umilianti vicende processuali. I titoli dei loro libri – Sulla pelle viva di Merlin e Vajont senza fine di Passi– bastano a dire la rabbia, lo sconcerto, il senso di frustrazione e di ingiustizia patita da chi ha assistito al prepararsi di quel misfatto – la Merlin nel’59 subì un processo per turbamento dell’ordine pubblico avendo denunciato il pericolo per la popolazione costituito dalla frana che incombeva sull’invaso artificiale – o al suo compiersi.
Nel libro di Bortoluzzi quella rabbia, quella frustrazione sono rastremate e passate al setaccio del tempo. Lo spirito che anima Il saldatore del Vajont è un’etica della memoria composta che, come celebra i molti lavoratori che hanno edificato quegli impianti, anche quelli caduti sul lavoro, tanto più onora e rispetta le vittime del disastro e i loro familiari, sentendosi in dovere di rivitalizzare, a sessant’anni di distanza, la memoria di chi è stato portato via dall’onda e di chi ha visto parenti, amici e beni materiali annientati in pochi, terribili attimi. Il momento culminante di questo gesto consiste nella visita, tutta solitaria, dell’io narrante al cimitero monumentale delle vittime del Vajont, a Fortogna:
[…] è un prato d’autunno in leggera pendenza, esposto al sole, con file e file di piccoli cubi bianchi posati su una lastra e mantenuti obliqui da una mezza sfera incuneata sotto, così da offrire alla vista le semplici incisioni: cognome, nome, età. Dalla parte opposta ci sono la chiesetta e il cimitero tradizionale, e quindi la roccia verticale della montagna.
Cammino e mi guardo attorno.
C’è un senso di uguaglianza in questa posa ordinata, organizzata. […] Cognome, nome, età: non è un’esperienza comune vedere tutti insieme e così vicini nonni, genitori, zii, figli, fratelli, nipoti; Anziani nell’età del riposo, uomini e donne nell’età del lavoro, giovani negli anni dell’amore potente, bambini dentro l’avventura dell’infanzia: tutti sigillati nello stesso momento, nello stesso spazio, che ora è un prato […]. (Ivi, pp. 120-121)
Uno dei pregi del libro sta proprio nell’equilibrio tra i due poli individuati, l’epica del lavoro e l’etica della memoria: chi nel testo dice io si muove dall’uno all’altro cucendo insieme le descrizioni tecniche e le narrazioni memoriali più drammatiche con digressioni in chiave soggettiva che ripescano dall’infanzia (i giochi con gli amici vicino al torrente, ignari dei pericoli costituiti dall’acqua), dalla giovinezza (la gita scolastica che lo porta a vedere, per la prima volta, “l’industria vera, persone simili a noi che compivano movimenti meccanici e ripetitivi”), dalla vita lavorativa o dalle storie familiari (la lotta del nonno contro le talpe, abilissime costruttrici con le quali noi uomini condividiamo “l’istinto di scavare gallerie”). Tutto ciò contribuisce a dare al lettore un senso di coralità, come se l’io narrante si assumesse il compito di attraversare i decenni stratificando storia personale e storia collettiva, richiamando il compito, che ancora ci riguarda, di avere cura della memoria.
L’immagine con la quale si può chiudere l’attraversamento di questo testo è l’ultima tappa collettiva della visita: si tratta del “saluto” a un mastodontico albero, la Sequoia Gigante di Faè, detta Pianta Santa essendo sopravvissuta all’onda malefica del 9 ottobre 1963. Al suo cospetto il gruppo si raduna in silenzio come “una specie di tribù raccolta ai piedi del proprio totem”:
Ci allontaniamo in ordine sparso, per rimirare la pianta in tutta la sua imponente bellezza. Anche lei è un resto del Vajont, ma vivo e vegeto. Imperturbabile, qualcosa in grado di tendere all’eternità, dando l’idea di poter durre per sempre: non perché è durissima, inossidabile, trattata, bensì perché è viva. La vita che vive nella Pianta Santa piace a tutti, e ci fa bene dopo la grotta, le condotte, la diga, gli alberi deformi, i muri sbattuti da una parte all’altra della valle. […] È questo il momento in cui finiscono le parole, e allora giriamo attorno al grande albero: ci viene spontaneo, non siamo più semplici appassionati, escursionisti o turisti, ma una specie di tribù raccolta ai piedi del proprio totem. (pp. 111-112)
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