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diretto da Romano Luperini

Lo strappo nel cielo di carta della scuola (sulle parole, sul dogmatismo, sulla lotta).

Le parole e le cose

Tante parole sulla scuola generano un conflitto, e i conflitti più dolorosi sono quelli che nascono con chi, come te, crede in una scuola democratica. Tre casi mi sembrano emblematici: voto, competenza, frontale (nell’espressione lezione frontale).

Sostituire la lezione frontale produce un recupero di partecipazione e consapevolezza; lavorare per competenze cancella il rischio del nozionismo e della distanza fra istruzione e mondo reale; l’abolizione del voto rende la scuola più inclusiva e promuove l’uguaglianza: è abbastanza facile trovarsi uniti a contrastare queste facili retoriche. Un minuto dopo, però, ci si trova a dividersi e a litigare sul senso che noi e i nostri compagni di viaggio (e di lotta) attribuiamo a queste stesse parole.

Ѐ vero, per esempio, che il costrutto delle competenze viene utilizzato in prospettiva futura nel quadro di un processo di aziendalizzazione delle scuole, e risulta spesso sinonimo di allontanamento dal sapere disciplinare, che tante e tanti fra noi considerano un bene supremo. Non è vero, invece, che sia aria fritta, né che la sua parte migliore (la spinta a rendere vitali le conoscenze e i processi logici acquisiti misurandone l’utilità nella comprensione della realtà, e nella produzione di ipotesi di senso su di essa) sia pratica comune. Tuttavia spesso lo si sente dire con frasi abbastanza generiche e autoreferenziali: “io lo faccio già”, “si fa così da sempre”, “è così che fanno i bravi insegnanti”.

Ѐ vero che, pur non essendo ontologicamente connaturato al percorso di insegnamento/ apprendimento, il voto è un elemento di chiarezza e crescita comune dei soggetti implicati in questo percorso. E lo diviene quando chi insegna costruisce intorno al voto una cultura condivisa con chi apprende. Tuttavia, è vero anche che ci sono insegnanti che sembrano ignorare la natura storica di questo sistema di misurazione, e trasformano la valutazione numerica in strumento di oppressione e manifestazione di arbitrio, sostituendo al dialogo e al confronto la paura, la distanza e l’umiliazione.

Ѐ vero, infine, che molte e molti docenti sanno suscitare attenzione e partecipazione organizzando nei modi più diversi e ugualmente efficaci un’attività frontale, alternando sapientemente momenti (magari intere lezioni) in cui domina la loro voce con altri in cui si lavora in forma dialogica e seminariale: perché ascoltare a lungo e prendere appunti non implica di per sé passività intellettuale. Però, è innegabile che esistano insegnanti capaci di uccidere qualsiasi curiosità e attenzione con la sola forza della noia che suscitano le loro parole, che in genere sono tante e esclusive. E che in questo caso, pur non esistendo scampo alcuno (il docente noioso tecnologizzato si trasforma infatti in docente noioso 4.0), una diversa spaziatura e il ricorso a strumenti diversificati attenua la noia e apre allo studente la possibilità di apprendere, magari in solitudine.

I dogmatismi sono tutti uguali?

In un processo di opposte polarizzazioni tutti sono in grado di proporre argomenti e esempi a favore della propria tesi, perché l’unica possibile opzione offerta dal pubblico dibattito è “Voto Sì o No?”, “Competenze sì o no?”, “Lezione frontale sì o no?”. Questo genere di forzatura logica, tipica dei talk show televisivi e spesso dei gruppi social, spinge in maniera inesorabile verso la cancellazione dell’argomentazione e le semplificazioni intellettuali. Spesso sfocia in opposti dogmatismi, e nell’intolleranza verso ogni singola idea/ obiezione della parte avversa.

Tuttavia i dogmatismi sono tutti uguali solo in una dimensione di teoria psicologica della comunicazione: confrontarsi davvero con una persona dogmatica è pressoché impossibile, dal momento che la sua posizione implica l’impossibilità che cambi idea (la verità non si discute) e la pura e semplice intenzione di convertire l’interlocutore.

Se invece ci poniamo in una dimensione sociale e guardiamo al dibattito pubblico, i dogmatismi sono molto distanti fra loro: li separano infatti rilevanti differenze, di matrice politico-culturale e (con una metafora bellica) di potenza di fuoco.

Da una parte, infatti, c’è un dogmatismo accademico e istituzionale: quello, per fare un esempio significativo, che ha deciso unilateralmente che la tecnologia farà il bene della scuola, o che bisogna insegnare le soft skills, o che è in procinto di decidere che un solido nesso fra istruzione e lavoro deve essere costruito a partire dalla primaria. Questa posizione non ha nessuna intenzione di confrontarsi con le obiezioni e le risultanze contraddittorie che emergono dall’esperienza reale. Un simile dogmatismo procede attraverso l’imposizione di obblighi, sperimentazioni dall’esito scontato, massiccia formazione del personale in direzione univoca. Ne sono un plastico esempio i progetti del PNRR di cui tanto abbiamo già discusso su queste pagine. Alla sua base, c’è una concezione verticistica della scuola, in cui l’esperienza è svalutata (secondo la retorica giovanilistica che impera anche nella professione docente) e la base va addestrata tramite nuovi metodi ideati da qualcuno che sta al di sopra e si considera superiore.

Dall’altra c’è, quando c’è, un dogmatismo reattivo, che lotta spesso a mani nude contro imposizioni ministeriali e ricchi specchietti per le allodole (come la recente campagna di aumenti stipendiali di cui si è ammantata l’introduzione della figura dei tutor, nuovo deus ex machina del successo scolastico e dell’inclusione). Si può certo accusare questa posizione dogmatica, che definirei difensiva, di eccesso di radicalismo, ma non di mancanza di coraggio e intelligenza, né di chiusura al confronto. Ridurre le sue istanze critiche ad una caricatura, magari sfruttando le forzature e gli eccessi di alcune discussioni sui social, è un’operazione francamente disonesta.

Dietro la maschera

Salvo eccezioni che non conosco, litigare sulla didattica per competenze, sulla cancellazione del voto numerico, sulla lezione frontale con le persone che sentono di rappresentare il nuovo che avanza e di incarnare il futuro della scuola contro i passatisti tradizionalisti, è del tutto inutile. Invece, litigare su questi stessi temi con persone che in molti casi la pensano come te, ma rigettano in modo radicale alcune ipotesi e pratiche, perché le considerano negative a prescindere da contesti e situazioni, può essere illuminante per tutti gli interlocutori.

Per non cadere nella trappola del “riflesso social”, nel bisogno di riconoscersi parte di un gruppo granitico – una trappola che non ammette sfumature e legge le contraddizioni come tradimenti – si potrebbe allora proporre di eliminare le parole che generano equivoci e condizionamenti psicologici. Provocando lo stesso effetto di verità, di irruzione della realtà, descritto da Pirandello attraverso l’immagine dello strappo nel cielo di carta.

Cosa resta davanti ai nostri occhi se strappiamo il fondale delle competenze, del voto numerico, della lezione frontale? Quali ideali di appartenenza e di condivisione ci appaiono?

A me sembra che restino tre idee, fortemente correlate fra loro, che oggi sono messe profondamente in discussione.

La prima è la centralità delle persone, e fra esse quelle che insegnano, nell’architettura del sistema formativo. Il primato degli esseri umani sui metodi e sulle tassonomie. La seconda è la piena libertà e responsabilità di chi insegna, di fronte a una forte pressione di omologazione e subordinazione delle persone a formati e procedure. La terza è la rivendicazione dei diritti della comunità scolastica a non vedersi calare dall’alto imposizioni e condizionamenti professionali, senza alcuna seria sperimentazione o condivisione.

Si chiama democrazia reale, anche nella scuola. Non da oggi, è messa in discussione. Al di là delle nostre differenti idee su competenze, voto, lezione frontale, sono questi i beni che dobbiamo difendere insieme.

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