Estetica urbana e writing: la guerra semiotica come forma di resistenza – Su “Dilaga ovunque” di Vanni Santoni
sii felice ovunque la guerriglia piazza ‘n colpo sulle armi nucleari del sistema.
(V. Santoni, Dilaga ovunque, Bari-Roma, Laterza, p. 104)
C’è un linguaggio dei segni che “dilaga ovunque”, nelle nostre città, e rispetto al quale la maggior parte delle persone non ha gli strumenti conoscitivi e interpretativi atti a decifrarlo, a collocarlo nel contesto di riferimento: la sottocultura giovanile e urbana del writing, con le mutazioni politiche, culturali, ambientali attraversate, dal muralismo messicano degli anni Settanta alle opere degli anni Zero di Bansky in Cisgiordania.
È su questa forma d’arte che Vanni Santoni incentra il suo ultimo lavoro, uscito nella collana Solaris dove l’autore toscano ha pubblicato anche altri due testi – Muro di casse e La stanza profonda – dedicati rispettivamente ai rave e ai giochi di ruolo: ora è la volta del graffitismo con Dilaga ovunque.
Se quella di Laterza è una collana che accoglie testi a cavallo tra narrativa e saggistica (basti pensare a Sottofondo italiano di Falco o a Stato di minorità di Giglioli), Dilaga ovunque può essere considerato a tutti gli effetti un romanzo-saggio. Il libro è infatti articolato in 19 brevi capitoli che, in modo circolare, prendono avvio e si chiudono a Barcellona, città dove la protagonista Cristiana si lancia in una spedizione notturna con due amici di vecchia data per siglare con dei trow up – quei graffiti schizzati con pochi colori e per lo più a caratteri tondeggianti – i treni depositati in un angolo recondito e buio di una stazione:
E sì, avevi dimenticato cosa succede quando scavalchi una rete con su il cartello VIETATO L’INGRESSO (qui: PROHIBIT EL PAS) e salti dall’altra parte. C’è come un balzo di risoluzione, e non solo visiva, ma anche uditiva, olfattiva, tattile…Tutto diventa meglio definito; il mondo attorno, nel buio, cambia e cambi tu, lo senti , è come vivere una trasfigurazione – in predatore, ma pure in preda: l’adrenalina amplifica i sensi; l’udito ora coglie ogni suono, anche minuscolo, vicino e lontano, e riesce a posizionarlo; l’olfatto riprende il suo spazio nei lobi frontali e disegna un campo di odori – -piscio, nafta, freni di treno, quello di vernice delle bombole che i tuoi compari hanno negli zaini – ad affiancare nella mente la modulazione d’impressioni e contrasti prima impercettibili che le pupille, adattandosi all’oscurità, rendono ora manifesta […]. (p. 5)
Il romanzo ci immette fin dalla prima riga nella mente di Cristiana che pensava di non aver più la vitalità e la velocità per azioni di questo genere con gli amici con cui ha condiviso la giovinezza “graffitara”, Lea e ****. Ora, alle soglie dei quarant’anni, mentre la prima fa l’architetto in uno studio affermato e il secondo è un “artista puro” lei, Cristiana, sente tutta l’irresolutezza delle sue scelte professionali, la fluidità di un’identità artistica che le pare ormai bruciata in una serie di fallimenti: è diventata, sì, una che lavora nel campo dell’arte, ma viene di fatto sfruttata da ricchi galleristi che la ingaggiano con contratti a tempo per aver “incrociato più scene e conservato uno sguardo obliquo, da outsider”; da qualche mese, infine, un amico le ha affidato una ricerca sul campo per scrivere un libro sul tema e ciò l’ha portata a ritracciare Lea e **** per “raccogliere materiali e riflessioni sulla storia dell’arte di strada”. In tal modo, innestato su un “personaggio precario” che riprende vita dai Fratelli Michelangelo, Dilaga ovunque ricostruisce proprio per il tramite di Cristiana e della sua stessa esperienza la parabola di un mondo artistico che è stato per lo più stigmatizzato dalla politica urbanistica egemonica come vandalismo urbano, come forma di degrado da cancellare per ripristinare ordine e decoro: è il caso delle “ripuliture” dei graffiti di Keith Haring a Roma dove, a distanza di alcuni anni, i sindaci Carraro (nel 1992) e Rutelli (2000) hanno fatto cancellare i suoi murales o della caccia all’uomo a cui è stato destinato l’autore della poderosa firma “GECO” che, “ciclopica, titanica, sovrumana”, si staglia sui muri della capitale.
Santoni porta il lettore dentro un mondo tutto da conoscere: anche limitandosi solamente alla questione lessicale, l’autore mostra quanto l’espressione invalsa in questi ultimi anni, street art, sia spesso usata in modo inappropriato, come termine-ombrello che non dice quanto sia ricca e articolata la sua storia. Viceversa, il fenomeno del graffitismo implica almeno una differenziazione tra tag, trow up, stickers, poster, stencil, murales e, grazie a Dilaga ovunque, si inizia a guardare con occhi diversi e a leggere con maggiore consapevolezza le scritte e i disegni sui muri delle città.
Tuttavia il pregio del breve ma denso libro di Santoni non sta tanto nell’alfabetizzazione che ne può ricavare chi non ha una conoscenza specifica di questa forma artistica (per la quale il libro fornisce anche un’utile bibliografia finale), quanto piuttosto nella presa d’atto della carica tutta politica insita nel graffitismo.
Considerato ai suoi albori come espressione aculturale, ossia come Art Brut di cui in Italia è stata antesignana Melina Riccio, il graffitismo diviene presto un’espressione controculturale nella quale chi lo pratica trova il suo coronamento nel “fare i treni”: lasciare la propria traccia colorata sui vagoni della metropolitana aveva in America, per i pionieri newyorkesi il significato di “rompere le barriere economiche e sociali fra i quartieri, far viaggiare il proprio nome di ragazzino negletto […] su e giù per New York, dal Bronx a Manhattan e giù a Brooklyn”. Per Cristiana e i giovani delle generazioni più vicine “l’azione sui treni assume la valenza di un’iniziazione, e il writer maturo è definito da essa”. Questa forma di espressione implica infatti la protesta, l’opposizione rispetto alla cultura dominante, la trasgressione:
La stessa tag, il seme da cui nasce tutto, deve coniugare stile e velocità di esecuzione, e deve i suoi nickname brevi o brevissimi a ciò. I throw-up, i pezzi bicolori […] nascono per la stessa necessità di esecuzione rapida in un contesto di illegalità, ed è per questo che certuni danno più considerazione a un bomber che riempie la città di throw-up in posti assurdi che a un raffinato artista che fa pezzi complicatissimi in una hall of fame (un muro, se non legale, comunque poco oggetto di azioni repressive) dove nessuno lo disturberà. (p. 25)
Comporta anche l’accettazione della transitorietà della propria arte, implica mettere in conto che quel treno possa essere “ripulito” o che la propria traccia grafica sul muro subisca un’irrevocabile damnatio memoriae per la sovrapposizione di altri graffiti: tutti questi artisti sanno bene quanto la documentazione delle varie forme di street art sia problematica dal momento che “ciò che non viene documentato, in uno spazio urbano in continua guerra semiotica, scompare o viene dimenticato”. Il graffitismo, inoltre, come forma di resistenza politica rispetto a una cultura egemonica che vuole appropriarsi di ogni spazio cittadino (si va dalla creazione di gruppi di volontari addetti alla ripulitura dei muri all’ipotesi di staccare i graffiti più noti per inglobarli nelle gallerie delle città e abbattere i muri dei centri sociali sui quali erano stati originariamente dipinti) può portare, in casi estremi, l’artista stesso alla distruzione delle sue opere come è successo nel caso di Blu a Bologna nel 2016:
Quello che Blu viene a dire alla città è che no, non vale tutto, non si può accettare la privatizzazione di ogni cosa, non si può sorvolare di fronte a un gesto né più né meno colonialista come sottrarre alla comunità graffiti e street art, così che vengano poi messi in mostra dallo stesso sistema che perseguita, denuncia e condanna i ragazzi e le ragazze che li creano. (p. 118)
In tal modo Santoni mette a fuoco una contraddizione sempre più evidente oggi, un’aporia cui dedica gli ultimi capitoli del libro in un crescendo di innegabile efficacia argomentativa – sono pagine nelle quali Cristiana lascia la parola all’amico **** – ovvero il tentativo della cultura dominante di addomesticare la street art e di farne un fenomeno da galleria e un’arte su commissione. Si pensi, uno per tutti, al britannico Bansky, solo vent’anni fa attivista politico impegnato in Cisgiordania e ora icona pop stampato su tazze e magliette, o a come la riqualificazione di certi quartieri urbani – e del prezzo degli immobili che lì si trovano – passi proprio dalla presenza di uno di questi nomi famosi (a Padova il più noto è Toni Gallo, cui sono stati commissionati i murales in diversi punti della città, in primis in un quartiere a lungo degradato come l’Arcella, e recentemente in pieno recupero immobiliaristico). È a questo tipo di egemonia che Santoni si oppone, continuando a ribadire – per il tramite dei personaggi del romanzo – come e quanto il graffitismo sia una forma di resistenza collettiva ancora possibile:
Ora, facendo i seri […] sappiamo che ogni scritta o disegno autonomo, rispetto all’egemonia della pubblicità, è già un segno di resistenza individuale: che ogni gesto non autorizzato che impone di essere affrontato pubblicamente è un discorso politico. Insomma, che l’intervento non autorizzato del graffitaro è la reazione di un singolo all’egemonia sullo spazio pubblico da parte degli interessi di una minoranza contro il benessere psicologico della maggioranza, e sappiamo pure che creà ‘no spazio pubblico […] è un’esperienza intensa, […] è automaticamente un atto di disobbedienza civile. […] Tocca tornà a èsse pirati, ‘nsomma. Pensa ar Cile sotto la dittatura, a Gaza negli anni Zero, all’Irlanda del Nord. (pp. 107-108)
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