L’arte sotto controllo. Un saggio su arte, etica e censura militante
L’arte sociale, nel trasformare l’artista in attivista, l’opera in documento, l’esperienza estetica in esperienza politica o la critica d’arte in supporto didattico, impone agli elementi che costituiscono l’idea di arte mutazioni diverse da quelle generate dalle avanguardie radicali del Novecento. Si iscrive perciò in un grande movimento di “disartificazione” dell’arte: quest’espressione presa in prestito da Theodor Adorno indica come si sfaldi progressivamente l’idea moderna di arte che si era formata in Occidente tra il Rinascimento e la fine dell’Ottocento. La svolta moralistica dell’arte di oggi equivale a un esaurirsi dell’arte.
Ѐ questo il prezzo da pagare per il trionfo dell’etica?
Carole Talon-Hugon, L’arte sotto controllo, 2020 Johan e Levi editore, pag. 99
Arte sociale e censura etica, fra storia e presente
Il saggio della filosofa Carole Talon-Hugon “L’arte sotto controllo” prende avvio da un’attenta ricognizione dell’agenda sociale dell’arte visiva contemporanea, che esalta l’importanza di temi cruciali nel dibattito pubblico: la lotta LGBT, la causa femminista, la lotta postcoloniale, il dramma dei migranti, la coscienza ecologica. Anche attraverso episodiche incursioni in ambito letterario e musicale, sottolinea il notevole interesse suscitato dall’attivismo militante che la anima, sia nel ristretto mondo di artisti e critici, sia nei confronti dell’opinione pubblica attraverso battaglie e boicottaggi eclatanti, come quelli condotti contro famosi registi e produttori hollywoodiani (Woody Allen l’esempio più significativo). Nella militanza artistica e nell’intransigenza critica che la caratterizzano, l’autrice individua i tratti di un’atmosfera globale di moralizzazione che segna la nostra epoca, e il ritorno alla ribalta di un quesito considerato sconveniente e inopportuno da metà Ottocento fino a pochi anni fa: «se l’arte possa fissarsi obiettivi etici e se possa essere giudicata sulla base di criteri morali». A suo avviso, siamo però di fronte a «una sorta di angolo cieco della riflessione artistica, come se fosse scontato che l’arte debba perseguire obiettivi sociali, e che opere e artisti possano essere condannati e censurati per motivi morali».
Quest’atteggiamento rompe un equilibrio che sembrava essersi consolidato a seguito dell’affermazione, particolarmente evidente fra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, di istanze culturali che segnavano il distacco fra arte e morale, e la pretesa di autonomia e autoreferenzialità della prima rispetto a esigenze e criteri di giudizio che, in sé validi e riconosciuti, non potevano però ambire a dettarne forme, modi e contenuti.
Solo in superficie, però, l’affermazione di una nuova e fortissima richiesta di moralità rivolta all’arte e agli artisti può essere considerata un ritorno del passato. Il venir meno infatti di un solido riferimento alla tradizione estetica (si tratti di un vero e proprio canone, o più genericamente di un ideale di “bellezza” al quale fare riferimento) e a quella etica (un insieme condiviso di valori e principi morali cui riferire i comportamenti umani e le scelte di artisti e intellettuali) rendono le pratiche odierne di regolazione e censura in campo artistico un fenomeno nuovo nella storia culturale. In questa vera e propria mutazione, il legame con le precedenti manifestazioni storiche appare debole, perché ben diversi sono i luoghi, gli attori e le dinamiche dei fenomeni culturali cui dà vita. In particolare
è notevole il fatto che la censura di cui parliamo non dipende più dallo Stato, come accadde nel processo contro Madame Bovary di Flaubert nel 1857, in quello contro I fiori del male di Baudelaire nello stesso anno o, nel 1966, contro il film Suzanne Simonin, la religiosa di Jacques Rivette. La censura è opera di associazioni, di gruppi, perfino di gruppuscoli (LICRA, Lega dei diritti umani, associazioni religiose, femministe, antispecismo, o comunità e gruppi creati su Facebook o su applicazioni del web ecc.). Il luogo della censura non è più il tribunale, ma i media: i social, i siti web, i giornali; anche il suo modus operandi specifico diventa la petizione, la tribuna, la manifestazione e il linciaggio mediatico.
Sull’efficacia morale delle arti
All’inventario contemporaneo e a un generale inquadramento storico, l’autrice fa seguire una domanda importante cruciale: si chiede infatti se l’arte sociale possa effettivamente adempiere agli obiettivi che si è prefissata. La nobile intenzione di cambiare in meglio l’uomo e la società tramite la produzione e la fruizione di un’esperienza artistica, afferma la studiosa, è profondamente radicata nella storia, in forme che possono essere definite di “funzionalismo etico indiretto”: basate cioè sull’idea che, attraverso un’arte consapevolmente indirizzata a questo scopo, si produca un effetto di crescita morale dell’individuo, destinato a riverberarsi sul contesto nel quale vive. Le manifestazioni di questo funzionalismo etico indiretto possono essere differenti: Schiller, ad esempio, mette al centro del processo la bellezza, poiché l’educazione estetica dell’uomo pone le basi della sua educazione etica, lavorando al divenire nell’uomo della libera volontà; in una prospettiva marxista, Adorno sostituisce alla bellezza la funzione critica dell’arte, una forma di cultura autonoma, i cui valori formali sono indipendenti da quelli del mondo capitalista. La discussione di queste posizioni consente all’autrice di marcarne la distanza rispetto all’idea di “funzionalismo etico diretto” che sta alla base della visione sociale contemporanea.
Non solo, infatti, i teorici etici della tradizione fanno riferimento in modi diversi a idee universali di “bellezza”, “dovere”, “critica” che sono oggi in profonda crisi. Soprattutto, associano la potenziale efficacia di questi valori universali che l’arte manifesta e diffonde alla sua dimensione formale, alla sua capacità, attraverso il percorso di creatività e elaborazione estetica e simbolica del riferimento alla realtà, di promuovere la crescita del singolo e della società. In modo profondamente diverso, oggi, «l’arte sociale è un’arte di contenuti, dove conta ciò che viene mostrato, suggerito o simbolizzato»: la sorte dei migranti, le molestie sessuali, il disprezzo per i neri o il disastro ecologico. In una simile visione, il contenuto si oppone alla forma e allo stile. Per questo tipo di arte, ribadisce Carol-Hugon «l’efficacia non risiede nel come, ma nel cosa».
Da questa posizione radicale (il cui precedente letterario, secondo la studiosa, si può individuare in Tolstoj), hanno origine alcuni fenomeni tipici dell’esperienza visiva contemporanea, due dei quali vengono indicati come potenti fattori evolutivi: l’avvicinamento fra l’idea di artista e quella di scienziato o ricercatore sociale, evidente nel vasto campo dell’arte testimoniale e documentaria; il ruolo crescente degli aspetti didascalici e didattici (mediatori, spiegazioni scritte in diverse forme) che accompagnano la fruizione di mostre e singole opere, supportando l’esperienza di fruizione soggettiva, nell’intento evidente di guidare la comprensione del senso e l’interpretazione personale nell’unica direzione che l’autore considera ammissibile e giusta.
La crescente importanza di apparati didattici che indirizzino la lettura di un’opera e la tendenza a ridurre il giudizio sul suo valore alla sfera del contenuto, considerato in qualche modo isolabile dalla “messa in forma” cui viene sottoposto in un processo artistico, è destinata a scontrarsi con (almeno due) ostacoli insormontabili. Il primo è che qualsiasi esperienza estetica visiva rimane strettamente ancorata al piano delle emozioni soggettive, del vissuto di chi la percepisce e del contesto entro il quale si colloca, e queste sue caratteristiche la rendono irriducibile alla sola dimensione cognitiva razionale: il dubbio dell’autrice è quindi se provare emozioni di ordine morale implichi di per sé assumere un comportamento morale più valido. In questa sorta di “prospettiva etica diretta”, in ogni caso, dove è la forza del fatto in sé, del puro riferimento, a suscitare un moto di moralità, l’elaborazione artistica costituisce un oggettivo svantaggio rispetto, ad esempio, al fotogiornalismo: nessuna installazione potrà mai, sostiene l’autrice, ottenere l’effetto di scatti come quello della morte del piccolo Aylan o della giovane vietnamita bruciata dal napalm.
Il secondo ostacolo è che «sul grande campo di battaglia costituito dall’economia dell’attenzione» e dominato dall’impero dell’industria culturale (rappresentato dallo smisurato potere degli influencer), le immagini provenienti dal campo dell’arte visiva sono una minoranza, prima di tutto in senso quantitativo. Lo sono però anche in senso qualitativo, perché chi si interessa di arte contemporanea è già ampiamente convinto della bontà delle cause che essa difende: «L’arte contemporanea è elitaria, e non è fra i suoi accoliti che si troveranno avversari al riconoscimento e all’emancipazione delle minoranze». La sua efficacia pragmatica è quindi discutibile, e comunque inversamente proporzionale all’artisticità delle opere, all’ambizione di chi le crea di rileggere e reinterpretare la realtà.
L’invito a un moralismo moderato
Nella parte conclusiva, il saggio espone tre motivi per evitare un atteggiamento di “moralismo radicale” che comporta errori, strumentalizzazioni, potenziali esiti distruttivi.
Il primo motivo consiste nel rapporto debole e ambiguo, già citato in precedenza, fra agenda artistica sociale e industria culturale. L’argomento è forte, se pensiamo all’evidentissima sproporzione delle forze in campo, ma soprattutto alla velocità e alla scaltrezza con cui pubblicitari e esperti di vendita si appropriano di nuovi campi semantici e parole d’ordine “morali” per promuovere la mercificazione degli ideali: le pratiche svariate e molto efficaci di “washing” e marketing etico ne sono un’evidente attestazione.
Il secondo nasce dalla constatazione che in molti casi di censura militante l’aspirazione ad un indiscutibile e assoluto primato dell’etica non poggia su idee universali e condivise di ciò che è “umano”, “giusto”, “auspicabile”, bensì su etiche particolaristiche difese da agguerrite minoranze. Se questo non pone in discussione il loro buon diritto a difenderle, la pratica di un moralismo radicale (con le idee di condanna, cancellazione e boicottaggio che spesso ne sono espressione) promuove una visione parcellizzata e particolaristica della cultura. Finisce cioè oggettivamente per rafforzare divisioni e diffidenze, anziché incoraggiare comprensione reciproca e convivenza di sensibilità e culture diverse.
Da questa tendenza, e questo è il terzo punto della critica di Talon-Hugon, scaturisce la pretesa di riscrivere non soltanto il presente, ma anche la storia della cultura del passato, estendendo ad essa divieti e censure, in un processo di rimozione e correzione storica potenzialmente infinito. La prima vittima di questo processo è la tradizionale idea di “socialità”, dalla quale vengono sostanzialmente rimossi alcuni temi (per esempio, il conflitto fra le classi, il lavoro e l’economia), a vantaggio di una visione parcellizzata e solipsistica dei diritti, dell’arte, del mondo. Lo attesta ad esempio, nei cataloghi e nei programmi delle mostre alla moda, la sostituzione del termine “sfruttamento” con il termine “dominazione”.
Per queste ragioni, il saggio si conclude con l’invito dell’autrice a un moralismo moderato, in grado di scongiurare «il forte rischio che la svolta moralizzatrice dell’arte contemporanea conduca a una balcanizzazione della cultura in cui l’arte, così come l’etica, hanno più da perdere che da guadagnare».
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