Reimparare a opporsi: rifiuto e speranza per una scuola futura
Gli organi collegiali di alcuni istituti scolastici si sono rifiutati di dare il loro assenso aprogetti di scuola digitale finanziati con i fondi PNRR (come è a esempio accaduto al Consiglio d’Istituto del Liceo Classico Albertelli di Roma) o all’istituzione dei tutor per l’orientamento (come è successo al Collegio docenti del Liceo scientifico Curiel di Padova). Le mozioni, che in entrambi i casi sono state votate a larga maggioranza, costituiscono vere e proprie attestazioni di riflessione critica e di democrazia. Si tratta di due prese di posizione nate da un riuso virtuoso delle possibilità di argomentazione nei luoghi collegiali in cui si dovrebbero discutere i processi in atto anziché assentire pigramente alle decisioni della cosiddetta governance.
La grande stampa si è occupata di entrambi i casi, distorcendo di fatto le argomentazioni dei docenti che, con coraggio e fatica, in un momento difficile e impegnativo per il lavoro scolastico, hanno trovato il tempo e la forza per esercitare la loro funzione intellettuale e civile: in particolare, nel secondo caso riducendo la questione a mere ragioni economiche (qui), nel primo dando dei soli genitori coinvolti un’immagine luddista e passatista (qui).
Il diritto al rifiuto esercitato al Liceo Albertelli ci aiuta a riflettere, in modo indipendente dai luoghi comuni dominanti, sulle implicazioni della attuale “coazione al digitale”: in particolare, ci permette di mettere a nudo con più chiarezza le mitologie della produttività, della competitività e del merito. Il Consiglio d’istituto dell’Albertelli inoltre ha saputo realizzare un momento di controinformazione, rispondendo al quotidiano La Repubblica con un comunicato stampa, impeccabile per rigore polemico e coerenza critica:
Forse è troppo complesso da capire o troppo scomodo da dire che quanto sta avvenendo all’Albertelli non è la contesa tra innovazione e opportunità da una parte e vetero ideologi dall’altra? Ci dispiace deludere: tra noi ci sono ingegneri, informatici, fisici, matematici (ma anche insegnanti, operatori sociali, lavoratori autonomi, impiegati e operai); lavoriamo con le tecnologie e sulle tecnologie e sappiamo bene che il progresso tecnologico richiede una sempre maggiore complessità e profondità ed un pensiero critico che si nutre di conoscenza disinteressata. Solo con più cultura si può usare la tecnologia per il bene comune ed i mezzi tecnici possono restare tali e non trasformarsi in “fini”. La scuola 4.0 invece, non riconosce questo impianto formativo e mira solo a competenze parcellizzate finalizzate a lavori estremamente specifici. Se un semplice NO provoca tanto scandalo, il suo valore ci sembra ancora maggiore di quello dell’esercizio del libero pensiero e dell’assunzione di responsabilità di fronte alle scelte che riguardano il futuro dell’istruzione pubblica: un piccolo no che, val bene ricordarlo, è nato al Liceo Albertelli da una comunità scolastica attiva, da genitori che già più volte quest’anno si sono riuniti in assemblea, da insegnanti che non rinunciano alla riflessione sul proprio ruolo, da studenti attenti e partecipi. Dicendo questo “no” rivendichiamo il più alto SI alla Scuola secondo lo spirito della Costituzione della nostra Repubblica. ( link al comunicato)
Altrettanto chiara è la visione culturale complessiva che sorregge la decisione dei docenti del Liceo Curiel di Padova, argomentata smascherando pazientemente la logica su cui si fonda l’istituzione del tutor come “coach didattico”, la medesima delle skills produttivistiche, dimostrando cioè come ci si possa opporre con ragionevolezza all’aziendalizzazione coatta dell’istruzione pubblica:
La quotidiana attività didattica dei docenti è già attività che contribuisce all’orientamento, perché fondata sulla conoscenza di sé e delle proprie attitudini, sulla valorizzazione delle potenzialità e dei talenti di ciascuno studente, sulla consapevolezza dei propri punti di criticità e del percorso da compiere per raggiungere i propri obiettivi. Lo studio delle diverse discipline è orientante, perché si rivolge alla persona nella sua globalità, forma lo spirito critico, educa alla bellezza e alla ricerca di senso.
Nel corso degli ultimi anni, le scuole italiane stanno assistendo e subendo un processo di inarrestabile corrosione del tempo dedicato alla didattica disciplinare, a seguito dell’introduzione di sempre nuove attività e proposte in orario curricolare, come l’insegnamento dell’educazione civica, i percorsi di PCTO, ecc. Le attività di orientamento, previste dal D.M. 328, articolate in moduli formativi di 30 ore curricolari per le classi terze, quarte, quinte, da svolgersi lungo il corso dell’anno, si inseriscono in questo processo, riducendo e impoverendo ancora di più lo spazio di insegnamento e di apprendimento delle discipline, in contrasto con le necessità formative degli studenti, che chiedono sempre più investimento verso l’acquisizione di conoscenze e competenze in ambito linguistico, scientifico, storico-filosofico, artistico, motorio. ( link alla mozione)
I dirigenti dell’Ufficio scolastico regionale del Veneto si sono affrettati a dichiarare che la “rivolta” (così i giornali hanno battezzato il dissenso e il rifiuto, espressi anche dai Collegi degli istituti superiori Alberti di Abano, Marchesi, Ruzza, Selvatico di Padova e Einstein di Piove di Sacco) è solo il risultato emotivo di “incomprensioni”, in qualche modo inevitabili davanti a processi rapidi e virtuosi di innovazione. Per noi, viceversa, si tratta dell’annuncio di una potenziale rinascita, fra i lavoratori della conoscenza, della necessità urgente di disobbedienza civile e di dissenso attivo. La capacità di dire NO negli organi collegiali è infatti il risultato di un lavoro trasversale di analisi critica processi in atto, nato da una lettura capillare del piano scuola 4.0 attestato esemplarmente dal manifesto per la scuola del futuro (qui).
Si tratta di una prima, rilevante rilettura collettiva e critica che mette in discussione punto dopo punto la Missione 4 – Istruzione e ricerca – del PNRR: quella che indica come sua finalità “la creazione di un ecosistema delle competenze digitali dell’organizzazione scolastica e dei processi di apprendimento e insegnamento”. Lo stesso lemma “ecosistema” a ben guardare non è affatto neutro o innocente: prevede la retorica della risemantizzazione del lessico ecologico adattato alla trasformazione totalitaria – propagandata come virtuosa e inevitabile – della didattica, in aperta violazione della Costituzione (Art. 33) e imponendo a studenti e docenti un “habitat” omologo per stile, “filosofia” e funzioni agli open space aziendali.
Davanti alla gravità della crisi contemporanea, dunque, a scuola come altrove, non si può pronunciare la parola “futuro” senza accostarla alla parola “rifiuto”: è una riproposizione del Principio speranza, la proposta filosofica di Ernst Bloch nella dimensione utopica che si oppone alla passiva accettazione di una realtà “già data” e immutabile, fondando la sua ontologia sulle potenzialità dell’essere e sull’apertura al cambiamento.
Voglio credere che queste piccole luci di ragione critica siano i sintomi anticipatori del non-ancora che dà valore reale alla speranza, intesa come docta spes fondata sul dinamismo della realtà.
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Seguo e leggo con curiosità queste legittime discussioni della retorica dell’innovazione, in realtà piena di conformismo. Chiedo solo delle precisazioni che facciano a meno di parole d’ordine che possono essere allusive di un tono o di un processo in atto da decenni, ma rischiano di perdere, anche per la loro inflazione, in valore semantico (aziendalizzazione, mitologie della produttività, addirittura trasformazione totalitaria). La tendenza alla riduzione dei programmi sembra inarrestabile; questo è arduo non rilevarlo. Ma al di là dell’ovvio elogio del dissenso e delle citazioni di Bloch, cosa intendete per “coazione al digitale”? Cosa è, per voi, questo digitale da cui dovremmo ripararci? Grazie.
Grazie a LucaT per questa sua richiesta di una precisazione. E’ vero infatti che, a furia di ripetere che scuola e università si stanno aziendalizzando, si rischia di ripetere un puro slogan, una parola d’ordine che resta vuota se non si danno esempi concreti e se non si definisce un’idea altrettanto concreta di scuola e di università pubbliche.
Per “coazione al digitale” intendo un fenomeno esploso soprattutto con la pandemia e con il Pnrr. Consiste nel ritenere l’ “innovazione” tecnologica del modo di insegnare di per sé univocamente necessaria, inevitabile, e sempre e solo di segno positivo senza alcuna considerazione per le conseguenze che comporta sui contenuti, sulla vita degli studenti e sul dialogo didattico. Esempi concreti ne troverà numerosi nella sezione La scuola e noi di questo blog. Mi limito a fornirne uno solo, legato a quanto accade negli atenei universitari. Con la pandemia le università- private e pubbliche- hanno moltiplicato la loro offerta digitale aprendo corsi di laurea e lezioni rivolte a studenti che non hanno il tempo e le risorse economiche per frequentare i corsi in presenza. Anche se il ritorno alla normalità ha limitato il fenomeno alle sole università telematiche, la tentazione e la pressione resta molto viva anche in quelle pubbliche e il giro d’affari soggiacente è enorme. A chi mette in evidenza le contraddizioni di questa offerta, si risponde come un ritornello che è inclusiva e democratica, perché con l’insegnamento digitale chiunque può accedere a un sapere prima riservato a pochi. Insegnare in modo digitale, in questo caso, vuol dire avere alcuni studenti in aula e molti altri sullo schermo, come tanti quadratini neri, che chiusi nelle loro camerette attendono materiali digitali da scaricare dalle piattaforme. La vita corporea e l’esperienza dell’università, il dialogo, la socializzazione, vengono smaterializzati o riservati a chi può frequentare.
Si potrebbero invece investire i soldi in altro modo: per permettere la frequenza degli studenti lavoratori, o degli studenti meno abbienti, si potrebbero dare altre risposte i, non necessariamente tecnologiche: a esempio concedere periodi di aspettativa retribuita, proporre corsi estivi, aumentare le borse di studio. Il PNRR potrebbe essere utilizzato per questi scopi di miglioramento dello studio e della vita sociale, non solo in modo monomaniaco per creare quelli che chiamano “ecosistemi” digitali, con un parco macchine che, come è accaduto per le Lim, in pochi anni sarà inevitabilmente obsoleto.
Ecco, esposto sommariamente, un esempio concreto, non uno slogan. Grazie ancora
Gentile Luca, ci sono alcune convinzioni che uniscono tutte e tutti noi, al di là delle diverse sensibilità su un tema così delicato e complesso come il “digitale”.
Ne elenco tre, come punto di partenza per un eventuale confronto. Si tratta ovviamente di convinzioni che non aspirano a formulare un giudizio sul “digitale” in termini generali, ma a misurare il suo impatto culturale e la sua presenza nella vita delle comunità scolastiche:
1. l’adozione crescente e invasiva di formati e strumenti tecnologici nell’organizzazione del lavoro e nella professione di chi insegna (dal registro alle riunioni collegiali, alle comunicazioni istituzionali e personali). A questa tendenza si accompagna l’idea che insegnare sia una sorta di scienza esatta, e che la misurazione e la quantificazione ne costituiscano l’essenza e la ragion d’essere
2. la scelta politica e economica di investire ingentissime somme di denaro nelle dotazioni di tecnologie dell’apprendimento/ insegnamento, anziché (per esempio) nell’edilizia scolastica. A questa scelta si accompagnano notevoli paradossi. I più rilevanti: che gli stessi strumenti che creano disattenzione e frammentarietà rendano possibile accrescere interesse e partecipazione dei giovani; oppure che queste iniziative siano intraprese senza nessuna seria sperimentazione scientifica sulla loro utilità, sulla base dell’idea che la sola presenza della tecnologia migliori attitudini e ambiente
3. l’assenza di qualsiasi seria riflessione sulla “media education” e sulla relazione fra il curricolo tradizionale e la sua possibile “attualizzazione” attraverso l’adozione di strumenti espressivi più vicini alle giovani generazioni. Atteggiamento che determina lo spostamento dell’attenzione dai contenuti e delle idee veicolate dai media (certamente da studiare) alle abilità di utilizzo (che lungi dall’accrescere le competenze dei giovani, mettono se mai in difficoltà chi insegna).
Questa è la “coazione al digitale” alla quale non finiremo mai di opporci.
“…fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude et canoscenza”.
Che ce ne facciamo della digitalizzazione, se poi non siamo ancora in grado di capire la sacralità e la magnificenza della condizione umana? E se poi dovessimo ritrovarci ad utilizzare il digitale per costruire armi, senza neppure rendercene conto?
Dice: “Con la cultura non si mangia”, può darsi… Però sicuramente, si vive.